> CHI SIAMO

I Laici domenicani di Palermo costituiscono una Fraternita laica (di San Domenico; abbreviato: F.L.S.D.). Sono l'ex "Terz'Ordine", espressione e articolazione del più ampio Laicato domenicano, quale condizione del fedele cattolico impegnato a vivere, nel mondo (ossia non da ministro ordinato o soggetto di vita consacrata), il carisma di san Domenico di Caleruega - Spagna - (1170-1221; nell'immagine sopra, a sinistra, mentre adora la Croce - Beato Angelico, particolare, Firenze, museo di San Marco): preghiera, studio e predicazione.

La Fraternita palermitana si riunisce di norma due volte al mese (il 1° e il 3° Lunedì alle ore 21) presso il convento dei Padri domenicani, sito in via Bambinai n. 18 - c.a.p. 90133 - (dalla via Roma, zona Poste centrali; dal lungomare, rione San Pietro).

Scopo delle adunate è l'incontro fraterno unito alla preghiera e alla meditazione della Parola di Dio, in funzione della predicazione: sia dei singoli sia del gruppo. Si punta così a formare dei laici adulti, capaci di permeare le realtà secolari con lo spirito cristiano (cf. , nel Concilio ecumenico Vaticano II, Lumen gentium, n. 31) secondo l'ideale domenicano.

Una sottolineatura è data anche alle tematiche attuali di Giustizia e Pace (cf. Costituzione fondamentale del laicato domenicano, n. 6), nella memoria operativa dei tanti che - nell'Ordine domenicano - si sono battuti per un mondo migliore, in cui la tranquillità universale (pace) non sia frutto di armistizi o silenzio delle armi, ma piuttosto del "dare continuamente a ciascuno il suo" diritto (giustizia).
D'altro canto chi ama veramente Cristo è chiamato a servirlo nei fratelli (cf. Matteo 25).

> L'IDENTITA' E LA STORIA

Il Laicato domenicano nasce in stretto collegamento con l'Ordine dei Predicatori (approvato da papa Onorio II nel 1217). Infatti, già agli albori della sua attività apostolica, a san Domenico (+ 1221) si uniscono dei laici (ossia delle persone che non sono nè chierici nè frati), che, come "famuli" o "donati", adempiono delle funzioni materiali, cioè di supporto a quelle dei frati. Così, un po' dappertutto, accanto ai conventi sorgono delle confraternite, rette da statuti peculiari e costituenti delle vere e proprie scuole di fede, preghiera e vita cristiana secondo lo spirito del fondatore. S'impone, dunque, la necessità di dare a tutte queste confraternite una regola generale. Ciò accade nel 1285 con il Maestro generale Munio di Zamora, che promulga la "Regola dei fratelli e delle sorelle dell'Ordine della Penitenza di S. Domenico, fondatore e padre dei Frati Predicatori". Esordisce, in questo modo e formalmente, il Laicato domenicano, che più tardi (secolo XV) assumerà il nome di "Terz'Ordine", a significare, appunto, la sua presenza dopo i Frati e le Monache. Secondo la Regola zamorana il candidato, "come figlio prediletto di S. Domenico nel Signore", dovrà essere "emulatore e ardente zelatore, secondo il proprio stato, della Verità della fede cattolica" (cf. Regola citata, n. 1). I laici domenicani, quindi, operano fin dall'inizio al servizio della Verità, che contemplano e annunciano agli altri (il loro scopo è "contemplari et contemplata aliis tradere", per dirla con san Tommaso d'Aquino). Contemplano, cioè, il Vangelo di Cristo con la preghiera e lo studio, e, senza estraniarsi completamente dal mondo (da "single" o sposati e nelle più varie occupazioni lavorative), si santificano e santificano il mondo, informandosi al carisma di Domenico (cf. Costituzione fondamentale, n. 2) e seguendo l'esempio di Caterina da Siena, patrona dei laici domenicani (cf. Costituzione cit. , n. 5). In quanto titolari di questo gravoso, ma suggestivo mandato, i laici di Domenico sono parte, a pieno titolo, della più ampia "Famiglia domenicana" (felice denominazione che, per decisione del Capitolo generale di Madonna dell'Arco (NA) - 1974 -, sostituisce quelle obsolete di "Primo, Secondo e Terzo Ordine").

> LA SPIRITUALITA'

L'attività dei laici di san Domenico è particolarmente importante per la Chiesa. Infatti, dopo il Concilio ecumenico Vaticano II (1962-65), il laicato, come condizione di qualsiasi battezzato (che non sia ordinato nè religioso), viene riscoperto per la sua essenziale funzione di ordinazione a Dio delle realtà temporali (cf. la menzionata Lumen gentium, n. 31). I laici domenicani, tuttavia, hanno una tensione tutta speciale, sia per la loro vita spirituale (individuale e comunitaria), sia per il servizio a Dio e al prossimo, che, come detto, si sostanzia nella competente e coerente testimonianza della Verità di Cristo. Per il laico di Domenico, insomma, la più alta forma di carità consiste proprio nel "portare l'altro dalle tenebre dell'ignoranza alla luce della conoscenza" (Tommaso d'Aquino). A questo fine, i laici si incontrano periodicamente nella sede della Fraternita per esercitare un sano e caldo amore fraterno, ma anche per formarsi in dottrina (con l'esame della Scrittura e del Magistero ecclesiale), per pregare nonchè per organizzare la predicazione e le altre azioni caritative proprie dello spirito di Domenico (cf. nuovo Direttorio nazionale, nn. 18 e 24). Insieme costituiscono un'associazione di fedeli (Fraternita), "i cui membri conducono una vita apostolica e tendono alla perfezione cristiana partecipando nel mondo al carisma" domenicano, "sotto l'alta direzione" dell'Ordine (cf. Codice di Diritto canonico, can. 303).

> I MAGGIORI LAICI DOMENICANI

Foltissima è la schiera dei laici domenicani, che hanno fatto la storia della Chiesa e della Società civile. I più noti sono certamente la nominata Caterina (+ 1380), patrona dei laici predicatori, dottore della Chiesa ed ispiratrice del ritorno del Papa a Roma dalla "cattività avignonese"; santa Rosa da Lima (+1617), patrona dell'America latina; i beati Pier Giorgio Frassati (+1925) e Bartolo Longo (+ 1926), istitutore del santuario mariano di Pompei; Giovanni Acquaderni (+ 1922), fondatore dell'Azione cattolica italiana; Titina De Filippo (+ 1963), attrice; Giorgio La Pira (+1977), politico; Aldo Moro (+ 1978), statista; i futuri papi Benedetto XV (+ 1922) e Pio XII (+ 1958); don Luigi Sturzo (+ 1950), creatore del Partito popolare; nonchè don Giacomo Alberione (+ 1971), fondatore della Famiglia paolina.
Su La Pira e Sturzo sono stati recentemente aperti, a Firenze e a Roma, processi diocesani super virtutibus.
_

Benedetto XVI RINUNCIA al mandato petrino

Benedetto XVI RINUNCIA al mandato petrino
Permanere "usque ad mortem" sul Soglio pontificio può essere una sorta di martirio (come dimostra la recente testimonianza di Giovanni Paolo II). Tuttavia, secondo il tradizionale insegnamento della Chiesa, non tutti sono chiamati al martirio e dunque non si può censurare (del resto non lo fa nemmeno la legge canonica, che prevede e disciplina la rinuncia al mandato petrino !) il Papa che, responsabilmente e coscientemente davanti a Dio (come ha dichiarato Benedetto XVI), si dimette.
VIVA BENEDETTO XVI, Papa dotto, mite e capace di atti importantissimi (tra cui l'aver dato norme severe contro la pedofilia e il riciclaggio del denaro, in cui era coinvolto lo IOR).
Ma VIVA SOPRATTUTTO LA CHIESA CATTOLICA, nella quale PERMANENTE non è la figura dell'uomo, persino il santo, che rimane ministro (ossia servitore), ma di GESU' CRISTO NOSTRO SIGNORE, che l'ha fondata e la continua a governare fino alla fine dei tempi.
Perchè SU DI ESSA, come promesso dallo stesso Signore, LE PORTE DEGLI INFERI "NON PRAEVALEBUNT" !
_

Sulla manovra economica, DALLA PARTE DEGLI ULTIMI

La manovra economica in discussione alla Camera colpisce, non per la prima volta, le famiglie e le persone più deboli.

In un contesto economico-sociale assai critico - in cui la famiglia è obbiettivamente alla base del welfare italiano, tamponando le insufficienze delle istituzioni pubbliche, centrali e locali, circa i giovani disoccupati, gli anziani e gli ammalati - ci indignano i tagli lineari delle agevolazioni fiscali, seppur per il 2013-2014, riguardanti persino i figli a carico e le spese sanitarie. Ma anche la stabilizzazione, per l’immediato, degli aumenti provvisori delle accise sui carburanti, che porta complessivamente le tasse sul carburante al livello più alto dal 1995, è una ver’e propria stangata per consumatori e imprese.

Ci appare, peraltro, paradossale che chi ha chiesto ed ottenuto il consenso elettorale promettendo « meno tasse per tutti » oggi non riesca a calibrare diversamente questa manovra, pur indispensabile per la tenuta dei conti italiani secondo i parametri dell’Unione europea.

Se, quindi, come ha dichiarato in queste ore lo stesso Ministro dell’economia, « la salvezza arriva dalla politica » e « la politica non può fare errori », auspichiamo una modifica sostanziale, se non sui numeri, sui primi destinatari della manovra stessa, che rischia di impoverire ulteriormente il c.d. ceto medio, dando l’impressione di risparmiare i ricchi di un Paese, in cui il 10% delle famiglie possiede il 44% della ricchezza nazionale.

Pertanto, si attivino specialmente quanti in Parlamento si dicono credenti, ricordando che per « l'oppressione dei miseri e il gemito dei poveri, io sorgerò - dice il Signore - » e « metterò in salvo chi è disprezzato » (Salmo 11, 6).

Commissione Nazionale della Famiglia Domenicana Giustizia Pace e Creato

Roma, 15-7-2011

_

X GIORNATA per l'IMPEGNO e la SOLIDARIETA'

La Commissione nazionale di Giustizia, Pace e Creato della Famiglia domenicana ha organizzato, a Bergamo, il 27 Novembre 2010, la X Giornata per l'impegno e la solidarietà, sul tema Per un'economia centrata sulla vita. Morti bianche, conti in rosso. I colori della crisi economica nel mondo del lavoro.

Qui il programma ed altri materiali su temi attuali di Giustizia e Pace:


A questo link, invece, qualche foto dell'evento:


_

APPELLO al Papa per Padre Pino PUGLISI MARTIRE

Clicca qui sotto per firmare, eventualmente indicando una motivazione e l'associazione di appartenenza:

http://diamounsegno.wordpress.com/2010/09/25/don_pino_puglisi_martire/comment-page-1/#comments
_

A Palermo dalla parte di lavavetri e senzatetto

E' appena entrata in vigore un'ordinanza del Sindaco di Palermo che prevede un'aspra sanzione pecuniaria, tra l'altro, nei confronti dei lavavetri ai semafori delle strade e di persone senza fissa dimora sorprese a bivaccare (sic). Il provvedimento ritiene che le loro attività creino problemi di ordine pubblico: l'intento è dunque quello - ha dichiarato il Sindaco - di "migliorare la qualità della vita dei cittadini", rispondendo "anche ad un sentire comune".

Tuttavia è paradossale che, in una città in cui la violazione delle regole è all'ordine del giorno, si chiamino a rispondere di comportamenti illeciti i poveri, quali sono le persone umane che chiedono qualche centesimo agli incroci o, in mancanza di un'abitazione, si sistemano a dormire tra improvvisati cartoni e coperte. In un momento in cui, secondo i dati Istat, la disoccupazione dilaga e si allargano le aree di povertà nella città, questa misura è davvero sorprendente, anche perchè rischia di consegnare uomini e donne che vivono di espedienti alla commissione di veri e propri reati, se non alla mercè della criminalità organizzata.

La decisione, in ogni caso, non risponde affatto al nostro sentire di cittadini e di cristiani, che anzi affermano con forza come una vita migliore per Palermo sarebbe, non già quella in cui gli indigenti siano resi invisibili, togliendo dagli occhi di chiunque lo scandalo della miseria, bensì quella intessuta di attenzione, da parte di ciascuno, ai bisogni degli ultimi, in nome di una reale solidarietà e giustizia.


Palermo, 24 Settembre 2010 (pubblicato su La Sicilia - Palermo del 5-10-2010, p. 33)



Fra' Graziano Bruno o.f.m., Giustizia Pace Integrità del creato - Sicilia

Fra' Giovanni Calcara o.p., Commissione nazionale di Giustizia e Pace della Famiglia domenicana

Francesco Lo Cascio, Movimento Internazionale per la Riconciliazione

Salvatore Scaglia, Commissione nazionale di Giustizia e Pace della Famiglia domenicana

_

Il Papa a Palermo e le polemiche

In questi giorni abbondano le polemiche circa le spese relative alla visita di Benedetto XVI a Palermo, prevista per i primi di Ottobre.
Polemiche - al di là del loro fondamento - sovente strumentali perchè agitate, per fastidio preconcetto, contro la Chiesa cattolica. Ma, rispetto alle quali, persino qualche autorevole replica non è stata del tutto felice, avendo fatto un riferimento - generale - a cene di magistrati sotto scorta, in una città che ha visto letteralmente dilaniati diversi operatori di giustizia con le loro tutele e in cui diversi continuano a rischiare davvero le loro vite.
In questo contesto di sterili contrapposizioni, io scelgo una parte sicura: quella del Vangelo: ‎"Rispose Simon Pietro: "Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente". E Gesù: "Beato te, Simone figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te l'hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli. E io ti dico: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa" " (Matteo 16, 16-18).
E' dunque la fede ("nè la carne nè il sangue") a far credere in Cristo-Salvatore e dunque nella Chiesa, ossia l'assemblea dei fedeli, da Lui fondata.
Ma sto anche con la Costituzione. Dovrebbe essere quindi espressione di autentica laicità (intesa come pluralismo confessionale e culturale, per dirla con le sentenze della Corte costituzionale), visto che questa terra è di tutti, consentire ai molti credenti - che accorreranno a Palermo non solo dalla provincia - di ascoltare le parole del Successore di Pietro.
Il quale peraltro, quando parla dell'uomo, che dovrebbe stare a cuore a tutti quanti, si rivolge a tutti gli uomini di buona volontà: credenti o non; che ascoltino o non ascoltino.

Salvatore Scaglia
Presidente dei Laici domenicani di Palermo

13 Settembre 2010 (pubblicato su Avvenire del 16-9-2010, p. 33)
_

Sulla promozione INTEGRALE della persona umana

Le recentissime posizioni con cui i neo Presidenti del Piemonte e del Veneto, Cota e Zaia, intendono contrastare l'aborto, se in sè e per sè sono buone, stridono nettamente con il trattamento che gli stessi, assieme ad esponenti non solo della Lega Nord, riservano agli immigrati irregolari. Spesso questi - se li si incontra personalmente - sono poveri in fuga da guerre civili o da gravi disordini sociali; disperati che meritano accoglienza e non criminalizzazione. Come si può dunque attribuire dignità di vita umana - giustamente - all'embrione ed essere, nel contempo, draconiani, ormai anche mediante norme giuridiche, nei confronti di queste persone ?
"Ero forestiero e mi avete ospitato", recita il Vangelo di Matteo (25, 35). Ma anche l'Antico testamento è nutrito di passi come: "non maltratterai lo straniero e non lo opprimerai, perchè anche voi foste stranieri nel paese d'Egitto" (Esodo 22, 21). Peraltro moltissimi italiani sono stati, e sono tuttora, emigranti. O si è cristiani sempre, quindi, o non lo si è mai, a meno di realizzare mere strumentalizzazioni politiche, che nulla hanno a che spartire con la vera Legge di Cristo.

2 Aprile 2010 - Passione del Signore

- Fra' Graziano Bruno o.f.m., Moderatore di Giustizia e Pace dei Frati minori per la Sicilia
- Francesco Lo Cascio, Movimento Internazionale per la Riconciliazione - Sicilia
- Salvatore Scaglia, Commissione nazionale domenicana di Giustizia e Pace
_

NESSUNO, se non Dio Padre, CONOSCE il tempo del RITORNO DI CRISTO !

Si fanno sempre più consistenti, sui vari mezzi di comunicazione sociale, dicerie circa un imminente ritorno di Gesù. Ne può così derivare paura, rassegnazione, pessimismo cosmico, deresponsabilizzazione personale o consumazione edonistica dell'esistenza.
Tuttavia il VANGELO odierno (Domenica 15 Novembre 2009) fa piazza pulita dei FALSI PROFETI, che, ieri come oggi, pretendono di conoscere il momento della SECONDA VENUTA DI CRISTO (c.d. parusìa): "Gesù disse ai suoi discepoli: « In quei giorni, dopo quella tribolazione, il sole si oscurerà, la luna non darà più la sua luce, le stelle cadranno dal cielo e le potenze che sono nei cieli saranno sconvolte. Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria. [...] Quanto però a quel giorno o a quell’ora, nessuno lo sa, né gli angeli nel cielo né il Figlio, eccetto il Padre » " (Marco 13, 24-32, passim).

_

IX GIORNATA per l'IMPEGNO e la SOLIDARIETA'

La Commissione nazionale di Giustizia, Pace e Creato della Famiglia domenicana organizza, a Bari, dal 27 al 29 Novembre 2009, la IX Giornata per l'impegno e la solidarietà, sul tema Legalità.

Qui il programma ed altri materiali su temi attuali di Giustizia e Pace: http://www.giustiziaepace.org/ .
_

PREDICAZIONE. 20-11-11. Commento alla Sacra Scrittura

Domenica 20-11-2011

Nostro Signore Gesù Cristo Re dell'universo

Ez 34,11-17; Sal 22; 1Cor 15,20-26a; Mt 25,31-46

"Come un pastore... passerò in rassegna le mie pecore e le radunerò da tutti i luoghi dove erano disperse... andrò in cerca della pecora perduta e ricondurrò all'ovile quella smarrita..."

E’ ‘ultima domenica di quest’anno liturgico. E’ un momento di passaggio. La fine è anche un inizio. Nella fine sta un inizio nuovo. Fine di un cammino e di un tempo, ma rinvio a nuovi cominciamenti.

La festa di Cristo ‘re’ – un re particolare così lontano dal nostro immaginario su re e imperatori - si fa così preludio dell’avvento cammino di chi attende la venuta. Le prime comunità cristiane parlano di Gesù come ‘colui che viene’, ‘colui che deve venire’: ‘Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettarne un altro?... Nella preghiera che resta come antica traccia delle prime liturgie dopo l’esperienza della pasqua veniamo a sapere che i primi cristiani si rivolgevano a Cristo con l’invocazione ‘Vieni Signore Gesù’: Marana thà.

Come allora anche ora la sua presenza è attesa nel tempo dell’assenza. Il sepolcro rimane vuoto ma questo vuoto è segno di una presenza nuova. Dobbiamo attendere Gesù nel tempo del sepolcro vuoto e siamo però spinti e invitati a scorgerne la presenza là dove lui stesso si fa incontrare. E’ tempo di una assenza che fa sentire il suo peso ma in cui restare svegli, non farsi prendere dal sonno, aprire occhi e cuore per imparare a riconoscere i segni del suo venire. Perché Gesù continua a darsi ad incontrare come il Risorto nella nostra vita.

Gesù ci ha parlato di Dio nella sua vita e ce l’ha raccontato nei termini in cui Ezechiele parla di Dio: come un pastore che pascola il suo gregge, come chi ha a cuore e si china, come colui che si prende cura e pone attenzione alla pecora smarrita e accompagna quella perduta. Ha parlato di un Dio di tenerezza e di vicinanza.

Gesù così rende presente nei suo gesti nelle sue parole un volto di Dio che per primo va in cerca dell’uomo. Non è l'uomo che per primo cerca Dio, piuttosto è Dio che viene incontro a noi. E’ già la sua azione delicata e silenziosa che sta all’origne e precede ogni nostra apertura e ricerca. E Dio si fa incontro mostrando il volto di chi si prende cura.

Lo sguardo di Dio va in cerca di chi ancora non c’è, fuori del recinto, oltre le barriere: la sua preoccupazione sta nel radunare, il suo sogno è che nessuno vada perduto. E’ il sogno di una accoglienza che è lasciata quasi come eredità di cui farsi continuatori. Se scoprissimo che attendere Gesù si attua nelle apertura dell’accoglienza e del radunare insieme chi è perduto…

"...ho avuto fame e mi avete dato da mangiare... ero straniero e mi avete accolto"

'Signore quando ti abbiamo visto?' Il re si identifica con quei piccoli che gli uni hanno accolto, a cui gli altri hanno rifiutato un aiuto concreto. Il re nella parabola di Matteo è Gesù che verrà nella gloria. Ma il suo venire nella gloria si colloca nel futuro atteso. Ora continua a venire come è venuto nella sua vicenda umana. Il suo cammino è stato quello del crocifisso, disprezzato dagli uomini. Ora si rende vicino e si identifica nei volti di coloro che vivono come lui il rifiuto, la dimenticanza, il disprezzo. Verrà in una cornice di gloria, ma ora viene nel nascondimento e nella povertà. Per questo è difficile da riconoscere perché noi attendiamo spesso un Dio misura nostra, chiuso in schemi di potere e di affermazione. L’attesa pasquale si fonda sull’annuncio che il risorto è il crocifisso: è questa la conversione a cui siamo chiamati, il cominciamento sempre nuovo. E’ re in un modo paradossale. E’ un re che occupa l’ultimo posto e non ha insegne regali. E indica anche come prepararsi all’incontro e come iniziare a viverlo sin da ora: nella cura. Come il pastore che ha uno sguardo di compassione e si prende cura. Divenire pastori gli uni degli altri, reciprocamente, imparare a piegarsi nella cura della compassione. Gesù apre gli occhi su ciò che ci è chiesto. Non avere il successo, non avere il riconoscimento e neppure ottenere risultati di quanto viviamo. Ci chiede di prendersi cura, ci chiede di piegarsi sull’altro povero. E’ questo il cammino in cui imparare a riconoscere Gesù che viene. Vieni Signore Gesù…

Alessandro Cortesi op

PREDICAZIONE. 23-10-11. Commento alla Sacra Scrittura

23-10-2011 - XXX Domenica del tempo ordinario - Anno A

Es 22,20-26; Sal 17; 1Tess 1,5c-10; Mt 22,34-40

Omelia

"Così dice il Signore: non molesterai il forestiero né lo opprimerai perché voi siete stati forestieri in terra d'Egitto. Non maltratterai la vedova o l'orfano..."

In questa pagina sono riportate alcune prescrizioni della più antica legge, il codice dell’alleanza. Tutta la legge in Israele ha come obiettivo il risvegliare le dimensioni più profonde del cuore umano, in una parola alcuni grandi orizzonti di umanità a cui tutti siamo chiamati. Restituire al povero il suo mantello prima che scenda la notte è un gesto che dice compassione prima di qualsiasi altra valutazione. Anche se è un debitore prima di tutto è un uomo e questo gesto è manifestazione del tener conto che altrimenti egli non potrà dormire. Pur dovendo pagare un debito è un volto da accogliere, in cui riconoscere le necessità fondamentali, da trattare con umanità.

Così il non opprimere lo straniero è indicazione per considerare che lo straniero è un uomo in condizione di difficoltà e di povertà. Il volto dello straniero diviene nella legge d’Israele il luogo di una duplice memoria. E’ memoria innanzitutto della propria identità: anche Israele è stato schiavo e straniero in Egitto. Lì, nella condizione della schiavitù ha scoperto la presenza di un Dio vicino che ascolta il grido di chi è oppresso, si china sul povero e ama lo straniero. Per questo il volto dello straniero è memoria delle proprie radici e della propria storia per Israele, ma anche memoria per ogni comunità umana. Ed è così appello a vivere il medesimo agire che Dio ha compiuto verso il popolo povero e straniero. Ma lo straniero è anche memoria di Dio stesso: il suo volto ricorda che Dio non è un possesso di qualcuno ed il rapporto con Lui passa attraverso l’ospitalità nei confronti dell’altro. Dio ama lo straniero. Credere in Lui comporta assumere nella propria esistenza l’orientamento del suo agire: Dio difende coloro che non hanno appoggi e sicurezze, la vedova l’orfano e il forestiero. Così amare Dio si concretizza nella cura per l’altro, per chi è più debole. Non c’è contrapposizione o differenza tra amare Dio e amare l’altro, nella gratuità del dono di sè. Sta qui uno degli aspetti più profondi della spiritualità ebraica che Gesù accoglie e porta a radicalità: ed è anche uno tra gli aspetti meno compresi quando si oppone amore di Dio e amore dell’uomo.

"voi avete seguito il nostro esempio e quello del Signore, avendo accolto la Parola in mezzo a grandi prove, con la gioia dello Spirito santo, così da diventare modello per tutti i credenti della Macedonia e dell'Acaia"

Paolo scrive alla comunità di Tessalonica e ne loda la fede, anche se è una comunità in cammino, con tante fatiche e dubbi. Loda questo piccolo gruppo di persone, che riconosce come chiesa di Dio presente in quella città, perché affrontano le prove ponendo al centro della loro vita la Parola di Dio e l’hanno accolta con quella gioia che viene dallo Spirito. L’esperienza della piccola comunità di Tessalonica presenta un paradosso: nella prova trova la possibilità di una gioia che non è spensieratezza ma serenità profonda, affidamento all’operare dello Spirito nei cuori. E’ una comunità in cammino che sta seguendo l’esempio di Paolo e quello del Signore Gesù. Poche parole queste che offrono alcune pennellate sull’essenziale della vita di una comunità cristiana, al di là di tanti orpelli ed elementi che forse sono un sovrappiù, o addirittura distolgono da ciò che più conta: seguire Gesù, il suo esempio, e lasciarsi cambiare dall’esperienza dello Spirito.

"Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente... il secondo poi è simile al primo Amerai il prossimo tuo come te stesso"

Gesù è ancora interrogato da chi non intende avvicinarsi a lui per ascoltarlo, ma per metterlo alla prova. Questa volta si tratta di uno scriba. La domanda verte sul 'grande comandamento'. E' una sfida perché Gesù prenda posizione a favore o contro nel dibattito tra scuole religiose, nelle quali il dibattito sembra essere fine a se stesso e non cambia la vita. Gesù non si sottrae, ma anziché parlare di un comandamento ne indica due; pone insieme due comandamenti che già erano presenti nella tradizione ebraica. Amare Dio con tutto il cuore è il primo, ma ce n'è un secondo 'simile al primo'. La sua parola riporta la questione dai dibattiti di scuola alla dimensione della vita. E forse si può anche intravedere tra le righe come egli indichi anche un terzo comandamento, perché per amare il prossimo è necessario passare attraverso una giusta comprensione di cosa significhi 'amare se stessi': "amerai il prossimo come te stesso". C'è un 'come' che porta a guardare dentro se stessi, scoprendo che la nostra più profonda identità è apertura all’incontro e alla relazione. Amando gli altri si fiorisce nelle dimensioni più profonde del proprio essere si ama anche se stessi e così l’attenzione a sé apre al dono e al servizio.

Al primo posto sta il rivolgersi a Dio con una attitudine particolare: c'è una totalità di coinvolgimento che è richiesta: 'con tutto il tuo cuore'. Non solo alcuni settori marginali della vita. Incontrare Dio significa metterlo al centro della vita, riferimento delle scelte in tutti i momenti. Negli aspetti quotidiani e ordinari della vita. E’ un cammino, un orientamento della vita che non è mai raggiunto completamente e sempre si apre ad un di più.

Ma il problema è anche: quale Dio amare con tutto il cuore? Amare Dio che non vedi si attua nell’amare il prossimo che vedi. Si verifica quindi nella cura e nell'attenzione concreta e situata per qualcuno, con il suo volto, con la sua storia. Amare Dio non è cosa lontana lassù in cielo, ma incontra la nostra quotidianità, si fa orientamento di vita sulla terra: non c’è amore di Dio che non passa per l’amore all’altro. Gesù porta a considerare che Dio da amare è il Padre che ha cura e compassione delle persone nella loro individualità e concretezza. Ogni persona che si china sull’altro, chi dedica tempo fatiche competenze per i piccoli e i poveri, chi cerca di costruire una storia di pace, ha un cuore aperto a quell’amore di Dio che si verifica nell’amore per l’altro considerato non nemico ma prossimo.

Dalla Parola alla preghiera

Donaci Signore di vivere tutti i momenti e tutte le situazioni con un cuore capace di attenzione e compassione verso gli altri

In un tempo segnato dall’incrociarsi di popoli e culture e dalla presenza di stranieri nelle nostre città, donaci Signore di essere aperti alla cura e all’attenzione soprattutto verso gli stranieri poveri

Fa’ crescere in noi Signore la passione e l’impegno per costruire comunità, anche laddove è difficile e dove sembra non ci sia speranza

Fa che il nostro amore sia concreto e fattivo: donaci di amare te con tutto il cuore nello spenderci per gli altri, guidaci a crescere in un amore che sappia rispettare gli altri e li faccia sentire accolti.

La Parola dei Padri

“Quando infatti egli dice: "Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza" (Mc 12,30), vuole che mai ci sciogliamo dai vincoli del suo amore. E quando con questo precetto del prossimo (cfr. Mc 12,31 ss.) congiunge strettamente la carità, ci prescrive l’imitazione della sua bontà, affinché amiamo ciò che egli ama, e ci occupiamo di ciò di cui egli si occupa. Sebbene infatti siamo "il campo di Dio e l’edificio di Dio" (1Cor 3,9), e "ne chi pianta, né chi irriga è qualche cosa, ma Dio che fa crescere" (1Cor 3,7), tuttavia esige in tutto il servizio del nostro ministero, e vuole che siamo dispensatori dei suoi doni, affinché colui che porta "l’immagine di Dio" (cf. Gen 1,27), faccia la sua volontà”.

(Leone Magno, Tractatus 90,3-4)

Uno spunto da…

“I dati della questione morale rendono ardua e infuocata – rossa di vergogna o di collera – quella che Hegel chiamava la preghiera mattutina del cittadino, la lettura di giornali. Corruzione a tutti i livelli della vita economica, civile e politica. La pratica endemica degli scambi di favori a tutti i livelli: cariche pubbliche a figli e amanti, lo scambio di carriere politiche contro favori privati, i concorsi pubblici (quelli universitari per esempio) decisi sulla base di accordi fra gruppi di persone o cordate – quando non addirittura di parentele – e non su quella del merito., lo sfruttamento di risorse pubbliche a vantaggio di interessi privati, il familismo, il clientelismo, le caste, la diffusa mafiosità dei comportamenti, la vera e propria penetrazione delle mafie in tutto il tessuto economico e nelle istituzioni, la perdita stessa del senso delle istituzioni da parte dei governanti. La discesa in campo politico dell’interesse affaristico che si fa partito e prostituisce il nome di ‘libertà’ a indicare il disprezzo di ogni regola che possa frenare o limitare la libido di ‘un potere enorme’ – letteralmente e-norme, sottratto a ogni norma di civiltà e diritto. (…) E infine una sorprendente maggioranza degli italiani che approva, sostiene e nutre questa impresa, e collabora passivamente e attivamente a dissipare, insieme, la migliore eredità morale e civile e il patrimonio di bellezza e cultura del nostro Paese. Ciliegina sulla triste torta, l’alleanza delle gerarchie ecclesiastiche romane e di molto associazionismo cattolico con questo programma di disgregazione di ogni minima virtù di cittadinanza …” (pp.11-12)

Il quadro descritto da Roberta De Monticelli della situazione sociale del nostro Paese è realistico, crudo e sconfortante. Nel suo libro La questione morale (ed. Raffaello Cortina 2010) non si limita a tratteggiare il quadro desolante della condizione morale attuale dell’Italia. Ne ricerca le radici; si addentra nell’individuare quell’attitudine che caratterizza lo spirito degli italiani e che venne presentata da un grande classico, Francesco Guicciardini, nei suoi Ricordi. Guicciardini elencando una serie di realistici precetti – il farsi amici dei potenti, attuare la doppiezza, dare risposte sempre generiche, fare ogni cosa per apparire solamente, proclamare bugie anche insostentibili con la fiducia che a forza di ripeterle diventino verità - descrive un codice che vede il suo fondamento sull’interesse ‘particulare’, su quel cinismo che denota l’incapacità di passare dalla condizione di sudditi a quella di cittadini e di uscire da uno stato di minorità. Tre secoli dopo Giacomo Leopardi nel suo Discorso sopra lo stato presente de’ costumi degli italiani, del 1824, descrive uno stile di vita segnato dall’indifferenza e da “un pieno e continuo cinismo d’animo, di pensiero… dove il più savio partito è quello di ridere indistintamente d’ogni cosa e di ognuno, incominciando da se medesimo” (cit. p. 40). Uno sguardo sull’oggi riporta a considerazioni analoghe.

La De Monticelli osserva come l’individualità adulta si contrappone ad un concetto di individuo e di morale utilizzati oggi come concetti da rigettare e disprezzati come individualismo e moralismo. Scrive infatti: “… l’individualità delle persone moralmente adulte non solo non si oppone affatto, ma è fondamento e perno dell’universalità delle leggi e in particolare dell’universalità del dovere morale, che è il dovuto da ciascuno a tutti. Invece il ‘particulare’… - la diffusa volontà di partecipare al privilegio, all’eccezione, al favoritismo – si oppone precisamente all’approfondimento della propria responsabilità individuale nei confronti di tutti. L’uomo del particolare sembra destinato alla minorità morale e civile” (p. 55).

Il saggio si inoltra così alla ricerca di un approfondimento della questione morale, non solo con sguardo alla storia italiana, ma nella considerazione del pensiero europeo del ‘900. In questa impegnativa parte del saggio, in vari autori e correnti filosofiche è riscontrata la linea di uno scetticismo pratico che innerva oggi la vita politica del nostro Paese. La domanda fondamentale che percorre la ricerca è se ci si debba piegare ad una sorta di scetticismo nell’ambito della questione morale, nella ricerca di un fondamento alle scelte relative alla ragione pratica, oppure se una via diversa sia possibile e sia da percorrere. Nel saggio si contrasta la visione che scinde questione etica e questione politica per cui l’etica è etica e la politica è politica e chi si pone in un orizzonte di giustizia e moralità deve entrare in monastero ma non fare politica. La questione morale infatti diviene questione politica nell’indicazione di percorsi di convivenza ed è possibile ‘tornare a respirare’ se si intraprende la via di una riscoperta della autonomia morale - ben diversa dalla logica del particolare – nella prospettiva di una vita che faccia emergere l’identità più profonda di una persona nel suo agire, nello fatica della scelta e della responsabilità. Sono così offerti così alcuni orientamenti: “la minorità, e anche l’imbarbarimento morale e civile si combattono risvegliando le coscienze alla serietà dell’esperienza morale, che in ogni individuo deve rinnovarsi, cioè farsi esperienza sempre nuova delle scoperte sulle quali la nostra società si è edificata, pena l’imbarbarimento” (p.180). La linea che la De Monticelli suggerisce è una ripresa della via esigente suggerita da Socrate che guidava a chiedersi ‘perché’ e provocava ad un percorso non per via di autorità, ma per via di scoperta interiore e di giustificazione delle proprie scelte davanti agli altri. Socrate richiama come fonte della morale non è la tradizione la religione o il mito ma la reazione di fronte al male che si percepisce, di fronte ai torti subiti, o percepiti nelle vittime del male. “Spetta a ciascuno di noi riprendere, anche nel vasto regno dell’etica, del diritto, della politica – la via di Socrate. Quello che il nostro triste presente ci insegna, è che delle personalità morali in definitiva, una comunità può fare a meno. Con la banalità del male cresce la banalità della chiacchera quotidiana, del ‘pensiero’ che riesce a imporsi ai media, perfino la banalità del dissenso, dell’opposizione politica. La fondazione della civiltà sulla coscienza e ragionevolezza degli individui liberi e responsabili è cosa recente – e fragilissima. Non c’era ancora ai tempi del Guicciardini – e se continuiamo in questo modo potrà non esserci più, nella nostra tarda e sconfitta modernità” (p.186).

Le pagine di questo testo invitano a riflettere innanzitutto sulla serietà della nostra esperienza morale in quanto la nostra coscienza è aperta al vero, e per questo anche può e deve rinnovarsi correggersi e crescere. E in secondo luogo la ricerca di norme per la vita di cittadini e non di sudditi non può derivare da tradizione, da autorità religiose e tanto meno dalla forza, ma si pone come esigenza di rinnovamento morale delle persone che si ponga nello spazio dei meccanismi di una democrazia costituzionale.

Dalla Parola alla vita

E’ una notizia minore di fronte alle tante che coprono le prime pagine dei giornali eppure parla dell’unità di amore di Dio e del prossimo, parla della testimonianza di chi non appare ma vive il quotidiano come preparazione del regno:

“Se c’è un tratto, infatti, che colpiva di padre Fausto è proprio la «semplicità evangelica» di cui parla Benedetto XVI. Da buon brianzolo, era un uomo concreto: non amava mettersi in mostra, per lui l’importante era mostrare, con le opere più che con le parole, che un’autentica liberazione dall’oppressione è possibile, per chi si mette alla scuola del Vangelo.

Aveva trovato nell’Arakan Valley, una località sperduta di Mindanao, il luogo dove testimoniare la sua passione per Cristo e dove provare a costruire una risposta evangelicamente alternativa all’economia dello sfruttamento e dell’ingordigia.

Dopo lunghi anni di servizio gomito a gomito con i tribali del luogo, era riuscito a formare e organizzare le piccole comunità manobo, disperse tra colline e montagne. Sapeva bene che tale impegno significava dare fastidio. Il suo anziano confratello Peter Geremia – che per anni si è dedicato alla causa dei tribali, sfidando anche autorità e tribunali – nel passargli il testimone l’aveva messo in guardia: perseguire la giustizia, in un contesto arroventato come quello, vuol dire fronteggiare interessi nemmeno troppo occulti, poteri davvero forti. E soprattutto passare, inevitabilmente, per guastafeste. Perché chi vorrebbe portar via le terre ancestrali ai loro legittimi possessori non va molto per il sottile, quando si tratta di raggiungere l’obiettivo”. (G.Fazzini, La semplicità evangelica che arriva fino al martirio, Avvenire 18 ottobre 2011)

“Fausto Tentorio aveva 59 anni, ed era originario di Santa Maria Hoé, presso Lecco, dove vivono ancora i familiari. Il fratello Felice lo ricorda con commozione: ’Ho chiesto ai suoi collaboratori quale poteva essere la spiegazione di un gesto tanto crudele. Mi hanno detto che non risultavano essere giunte minacce. Pensano che l'omicidio sia legato a vecchi rancori, dovuti al suo impegno a favore delle popolazioni locali. Fausto ha sempre difeso gli abitanti della zona dai latifondisti che volevano espropriare i terreni’. (…)

Nella zona di Arakan, sull’isola di Mindanao, vivono gli indigeni di etnia Lumad, in lotta per il riconoscimento dei loro diritti sulle terre ancestrali, che sono sotto costante attacco di compagnie minerarie quali l’anglo-svizzera Xstrata, interessate all’oro e altri metalli del sottosuolo. Padre Pops era per i Lumad un medico e un maestro di scuola, più ancora che un prete. Tutti lo ricordano per le battaglie condotte a viso aperto, senza paura di dire quello che pensava. ‘È chiaro che l’esercito governa questo Paese -disse l’anno scorso ad un convegno-. Finché le forze armate non si sottometteranno al governo civile, non ci sarà pace per le singole comunità’. Tentorio aveva messo il dito nella piaga della politica filippina. (…)

Chiesa dai due volti quella filippina. Arroccata ai piani alti intorno alla difesa di posizioni ultraconservatici nella sfera dei comportamenti privati e sociali. Ma schierata al fianco dei deboli attraverso l’azione di molti sacerdoti simili al missionario italiano assassinato ad Arakan”.

(G.Bertinetto, Padre Fausto ucciso dai killer nelle Filippine dei latifondisti, L’Unità 18 ottobre 2011)

Alessandro Cortesi op

PREDICAZIONE. 6-3-11. Commento alla Sacra Scrittura

6-3-2011 - IX Domenica del tempo ordinario - Anno A

Deut 9,18-28; Sal 30; Rom 3,21-28; Mt 7,21-27

Omelia

“Porrete nel cuore e nell’anima queste mie parole; ve le legherete alla mano come un segno e le terrete come pendaglio tra gli occhi”

Legarsi le parole di Dio alla mano: un gesto che ricorda come la Parola giunge all’agire concreto di cui la mano è simbolo. Tenere le parole davanti agli occhi è ancora segno per ricordare che la parola è misura e criterio di quel vedere che proviene dagli occhi. Gli occhi vedono e orientano, così la Parola aiuta a vedere in profondità la vita e a orientare le scelte. Ma l’invito centrale è porre le parole nel cuore. Il cuore, centro delle scelte e degli orientamenti fondamentali della vita, luogo della coscienza di una persona. Le parole di Dio devono farsi uno con lo spirito di vita che fa vivere tutta la persona nei movimenti della sua interiorità e del suo agire, nella concretezza di scelte, gesti, parole.

Il gesto dei pii ebrei che si legano materialmente i ‘tefillim’ al braccio e alla testa con le piccole teche che contengono passi della Scrittura è una osservanza assai evocativa e dal forte impatto visivo. Tuttavia l’invito a legarsi le parole nel cuore e nell’anima non può risolversi in gesti e riti, o meglio dovrebbe attuarsi in quella liturgia che è la vita nel suo farsi ordinario. La questione di fondo sta nel realizzare, con o senza aiuto di segni esteriori, il senso profondo della metafora del ‘porre’ e ‘legare’ che questo testo propone. Legarsi le parole di Dio alle mani, porle nel cuore, tenerle davanti agli occhi è invito a vivere un’esistenza plasmata dalla Parola di Dio.

Prima ancora di essere invito all’esecuzione di comportamenti coerenti, sta racchiusa in queste immagini la dimensione dell’ascolto e del ricordo. Porre le parole nel cuore è lasciare spazio nel profondo della propria persona ad una relazione in cui Dio è percepito come una presenza che si comunica e si rende vicina nel dinamismo della parola. La parola che è comunicazione, testimonianza, amore, ponte di relazione.

Aprirsi e lasciare spazio a questa prima parola, la parola dell’incontro, il riconoscimento di Dio presenza personale e vivente nella nostra esistenza, è la grande proposta al cuore del libro del Deuteronomio. Tutta la legge si racchiude in un unico comandamento: "Amerai Jahwè tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta l'anima, con tutte le forze" (Dt 6,5). La prima grande parola è la parola dell’amore: amerai. Questa parola apre ad un legame fondamentale da accogliere nella vita: "porrete nell'anima e nel cuore queste mie parole; ve le legherete alla mano come un segno". Segno che rammemora e rinvia ad un volto, segno che spinge a muoversi e ad inoltrarsi nell’avventura dell’incontro. La memoria delle parole di Dio, apre ad una prospettiva di futuro, ad intendere la vita come luogo visitato, come cammino da compiere nella forza di una compagnia che tocca il cuore e lo cambia. La via da seguire che si connota come appello offerto alla libertà è la via dell'ascolto della memoria, di un legame che si rinnova, ed è via di benedizione.

“Chiunque ascolta queste mie parole e le mette in pratica sarà simile ad un uomo saggio, che ha costruito la sua casa sulla roccia”

Matteo propone un passaggio decisivo per la comunità cristiana: l’ascolto delle parole del Signore non può rimanere una conoscenza asettica, intellettuale, che non coinvolge la vita, è piuttosto entrare in una relazione con Gesù. Lasciare che sia lui a cambiare l’esistenza e a generare un modo di vivere nuovo. Di fronte a Gesù si è chiamati ad entrare in un cammino in cui rimane sempre il pensiero di non aver fatto abbastanza. La presunzione di chi pretende e dice ‘Signore Signore’ viene in tal modo presentata come l’atteggiamento da evitare. Non la presunzione ma l’attenzione ad una concretezza di scelte che siano in gradi di comunicare non tanto con le parole, che rischiano sempre di rimanere vuote, ma con la vita. In questo brano è quasi anticipata la scena del giudizio del re 'alla fine dei tempi' che Matteo presenterà al cap. 25 del suo vangelo: non chi dice 'Signore Signore’ entrerà nel regno dei cieli, ma chi agisce secondo la volontà del Padre. Infatti "Molti mi diranno in quel giorno: Signore Signore…". Il criterio su cui la nostra vita trova stabilità è quello del 'compiere la volontà del Padre'. Questa è la roccia su cui costruire la casa. Non è un discorso teso a far cadere in una religione della paura e dello scrupolo. Piuttosto un invito a cogliere la preziosità del tempo, l'importanza di un ascolto autentico vita, di 'costruire' la propria esistenza su ciò che è saldo, su di un rapporto di vita.

Dalla Parola alla preghiera

Donaci Signore l’attitudine di chi cerca di vivere la coerenza di fronte alla tua Parola non con la presunzione di chi giudica gli altri, ma con l’umiltà di chi sa che la vita è cammino e che non abbiamo mai vissuto abbastanza quanto tu ci chiedi…

Aiutaci a fare spazio concreto nella nostre giornate all’ascolto della tua Parola, alla frequentazione delle Scritture, alla preghiera e alla riflessione nella lettura dei segni dei tempi…

Fa Signore che la nostra vita sia orientata ad essere benedizione nell’accogliere la tua parola e a divenire benedizione per gli altri nelle occasioni quotidiane

La Parola dei Padri

“Confido nell’abbondanza della tua misericordia, o Cristo salvatore, e nel sangue del tuo fianco divino, col quale hai santificato la natura dei mortali e hai aperto a quanti ti servono, o buono, le porte del paradiso, chiuse un tempo da Adamo (…) Guida di sapienza, elargitore di prudenza, educatore degli stolti e protettore dei poveri, conferma, ammaestra il mio cuore, dammi tu una parola, o Parola del Padre, poiché ecco, io non trattengo le mie labbra dal gridare: O misericordioso, abbi misericordia di colui che ha prevaricato”

(dal canone della IV domenica prequaresimale delle Chiese orientali, domenica dei Latticini, cfr. Manuel Nin , Dammi tu una parola, o Parola del Padre, “Osservatore Romano 27.02.2011, 6)

Uno spunto da

Francesco Guccini nella sua canzone ‘Parole’ (http://www.youtube.com/watch?v=ef0mcwSwmNQ) accompagna a smascherare la vacuità di tante parole e di chiacchere. E il pensiero va a molte parole che sono vuota retorica a cui non corrisponde la vita ed il coinvolgimento con quanto si dice.

Parole, son parole, e quante mai ne ho adoperate

e quante ancora lette e poi sentite,

a raffica, trasmesse, a mano tesa, sussurrate,

sputate, a tanti giri, riverite,

adatte alla mattina, messe in abito da sera,

all' osteria citabili o a Cortina e o a Marghera.

Con gioia di parole ci riempiamo le mascelle

e in aria le facciamo rimbalzare

e se le cento usate sono in fondo sempre quelle

non è importante poi comunicare,

è come l' uomo solo che fischietta dal terrore

e vuole nel silenzio udire un suono, far rumore.

(…)

E le chiacchiere son tante e se ne fan continuamente,

è tanto bello dar fiato alle trombe

o il vino o robe esotiche rimbomban nella mente,

esplodono parole come bombe,

pillacchere di fango, poesie dette sulla sedia,

ghirlande di semantica e gran tango dei mass-media.

Dibattito in diretta, miti, spot, ex-cineforum,

talk-show, magazine, trend, poi T.V. e radio,

telegiornale, spazi, nuovo, gadget, pista, quorum,

dietrismo, le tangenti, rock e stadio

deviati, bombe, agenti, buco e forza del destino,

scazzato, paranoia e gran minestra dello spino.

Amore fino, lo so che in questo modo cerco guai,

ma non sopporto questi parolai, non dire più che ci son dentro anch' io,

amore mio, se il gioco è essere furbo e intelligente

ti voglio presentare della gente e certamente presto capirai...

Ci sono, sai, nascosti dietro a pieghe di risate

che tiran giù i palazzi dei coglioni,

più sobri e più discreti e che fan meno puttanate

di me che scrivo in rima le canzoni,

i clown senza illusione, fucilati ad ogni muro,

se stan così le cose dei buffoni sia il futuro.

Dalla Parola alla vita

Quale tristezza nel mettere a confronto due modi di leggere la realtà italiana che stiamo vivendo, cogliendo il contrasto e la diversità di giudizio e di valutazione: la prima da parte di un vescovo, la seconda da parte di una comunità, che esprime sconcerto, reazione ma anche senso di tradimento da parte dei pastori, sentimenti che vanno diffondendosi - anche se non trovano spesso modo di esprimersi pubblicamente - e sono vissuti in modo sofferto da parte di chi ama profondamente la chiesa e proprio per questo più acutamente avverte l’allontanamento da una testimonianza disinteressata e profetica che oggi sarebbe così importante.

In un’intervista a “La Stampa” del 28 febbraio 2011, curata da Giacomo Galeazza il vescovo di San Marino- Montefeltro, Luigi Negri, legato a CL, esponente di primo piano della Cei e presidente della fondazione per il Magistero sociale della Chiesa così risponde alle domande:

Si aspetta più impegno del governo sui temi cari alla Chiesa? «Ci sono margini per un’azione più incisiva dei cattolici nella vita pubblica. La democrazia non si fa con l’ingegneria costituzionale. Manca un rapporto equilibrato tra la politica e un apparato giudiziario autoreferenziale e indipendente nei suoi atti. Le priorità sono la salvaguardia della vita dal concepimento alla fine naturale, della famiglia eterosessuale (l’unica feconda), della possibilità per la Chiesa di svolgere l’azione formativa e culturale tra la gente». Non imbarazzano gli scandali del premier? «Se esistono reati tocca alla legge stabilirlo, è inammissibile condannare a priori. Un politico è più o meno apprezzabile moralmente in base a quanto si impegna a vantaggio del bene comune, cioè di un popolo che viva bene e di una Chiesa che operi in piena libertà. Non è edificante sentir evocare anche in ambienti cattolici l’indignazione, il disprezzo, l’odio verso l’avversario politico. A far male alla società sono i Dico, la legislazione laicista, la moralità teorizzata e praticata da quanti ci inondano di chiacchiere sulla rilevanza pubblica di taluni comportamenti privati».

Di tutt’altro tenore questa lettera dalla comunità cristiana di base del Villaggio Artigiano di Modena nel febbraio 2011” indirizzata al vescovo dal titolo “Abbiamo bisogno di sentire l’eco delle parole di Gesù nelle parole dei Vescovi!”. E’ un testo che aiuta a pensare con parole che provengono da una sofferenza diffusa e condivisa in tante comunità e persone che avvertono il disorientamento nell’attuale situazione italiana, non solo in considerazione della vita pubblica ma anche in rapporto alle prese di posizione esplicite e ai tanti silenzi dei vescovi.

“Caro vescovo Antonio, siamo un gruppo di cristiani della Chiesa di Modena e ci rivolgiamo a lei perché è il nostro pastore. Sappiamo che il suo ruolo e il suo ministero è proprio quello di ascoltare, confortare, tenere unito il gregge, cioè guidare il popolo cristiano e aiutarlo a vivere nella fede, nella speranza e nella carità. Vogliamo quindi esprimerle alcune nostre gravi preoccupazioni, con semplicità ma anche con tutta franchezza.

- Siamo preoccupati perché vediamo il nostro Paese scivolare sempre più in una crisi generale, vissuta da molti con disperazione e senza vie d’uscita, crisi che rischia di compromettere l’unità stessa della Nazione, nei suoi aspetti istituzionali, politici e sociali. E la disperazione non è una virtù cristiana.

- Siamo sconvolti perché vediamo la classe politica che governa questo paese sprofondare sempre più nel degrado morale, nell’arroganza dell’impunità, nella ricerca del tornaconto personale e dei propri amici, nel saccheggio della cosa pubblica e nella distruzione sistematica delle basi stesse del vivere civile e democratico.

- Siamo indignati perché questa stessa classe politica al governo ha ingannato e continua a ingannare i poveri con false promesse, con un uso spregiudicato e perverso dei mezzi di comunicazione, con l’esibizione ostentata di modelli di comportamento radicalmente contrari al comune sentimento morale della nostra gente. Pian piano sono riusciti a corrompere il cuore e le menti dei più semplici. Guai a chi scandalizzerà questi piccoli…!

la preoccupazione maggiore, in quanto credenti, riguarda la nostra Chiesa e in particolare i nostri Vescovi. Ecco i pensieri che ci fanno star male e che manifestiamo a cuore aperto.

- sappiamo che i vertici della CEI e gli ambienti della curia vaticana hanno deciso già da tempo di appoggiare la maggioranza di destra ancora oggi al governo. È opinione sempre più diffusa, anche tra i cattolici credenti e praticanti, che questa alleanza sia frutto di accordi di potere, volti a ottenere privilegi per la Chiesa e legittimazione per il governo. Vale la pena di compromettere la credibilità dell’annuncio del Vangelo e l’immagine della Chiesa per un piatto di lenticchie?

- In nome di questo sostanziale accordo si sono di fatto avallate politiche, alcune di stampo prettamente xenofobo, del tutto contrarie non solo al Vangelo ma anche alla dottrina sociale della Chiesa. Per denunciare questa deriva molte voci si sono alzate nel mondo cattolico, sempre ignorate o censurate o minimizzate. Non appartengono forse anche questi ai cosiddetti “principi non negoziabili”?

- Neppure adesso, quando l’abisso morale e lo stile di vita inqualificabile dello stesso presidente del consiglio sono sotto gli occhi di tutto il mondo, neppure adesso i vertici della CEI trovano la forza e la dignità di pronunciare parole chiare, di uscire dalle deplorazioni generiche che riguardano tutti e quindi nessuno, di usare finalmente il linguaggio evangelico del sì sì, no no.

- In ben altro modo fu trattato l’ultimo governo Prodi, debole ma onesto e capace, di ben più alto profilo morale, che non solo non fu sostenuto ma venne addirittura osteggiato, forse proprio perché più libero, sicuramente più laico e quindi meno disponibile ad accordi sotto banco. Vogliamo rivendicare con forza questo fatto: molti di noi, cattolici credenti e praticanti, hanno sostenuto quell’esperienza politica, condividendone fatiche e speranze e anche delusioni. Di certo ci ha molto ferito l’ostracismo di allora come ci ferisce la complicità di adesso.

Occorre che ci si renda conto davvero che alla base della Chiesa sta aumentando il disagio, il dissenso, la sofferenza, il lento e silenzioso abbandono. L’amara sensazione di molti, giusta o sbagliata, è che i pastori hanno tradito il loro gregge, hanno preferito i morbidi palazzi di Erode alla grotta di Betlemme, hanno colpevolmente rinunciato alla profezia. E questo non fidarsi di Dio, tecnicamente, è un comportamento ateo.

Avanziamo una piccola proposta, che può sembrare provocatoria, della quale lei stesso potrebbe farsi portavoce: la CEI e il Vaticano dichiarino pubblicamente di rinunciare all’esenzione del pagamento dell’ICI sulle proprietà della Chiesa che siano fonti di reddito; che abbiano il coraggio di dire di no a questa proposta scellerata. Acquisterebbero un po’ di stima e credibilità, perché questo, fra i tanti, è uno scandalo che grida vendetta.

Caro vescovo Antonio, preghiamo insieme perché lo Spirito ci aiuti tutti a una vera conversione, a un saper ritornare sui nostri passi, a riscoprire la dimensione di un servizio povero e disinteressato, a seminare gioia e bellezza e speranza, nella libertà e nella verità”.

Conforta l’esperienza dei martiri del nostro tempo: Shahbaz Batti era maestro di scuola elementare, profondamente credente, cattolico, ha dedicato la sua vita alla difesa delle comunità emarginate e alle minoranze religiose in Pakistan, co-fondatore e direttore dell’APMA (All Pakistan Minorities Alliance). Una vita segnata, come risalta in questa sua diretta testimonianza, dalla Parola del vangelo accolta nella sua esistenza. E’ stato ucciso il 1 marzo u.s. a Islamabad in un agguato.

“Mi sono state proposte alte cariche al governo e mi è stato chiesto di abbandonare la mia battaglia, ma io ho sempre rifiutato, persino a rischio della mia stessa vita. La mia risposta è sempre stata la stessa: «No, io voglio servire Gesù da uomo comune». Questa devozione mi rende felice. Non voglio popolarità, non voglio posizioni di potere. Voglio solo un posto ai piedi di Gesù. Voglio che la mia vita, il mio carattere, le mie azioni parlino per me e dicano che sto seguendo Gesù Cristo. Tale desiderio è così forte in me che mi considererei privilegiato qualora – in questo mio sforzo e in questa mia battaglia per aiutare i bisognosi, i poveri, i cristiani perseguitati del Pakistan – Gesù volesse accettare il sacrificio della mia vita. Voglio vivere per Cristo e per Lui voglio morire. Non provo alcuna paura in questo paese. Molte volte gli estremisti hanno cercato di uccidermi e di imprigionarmi; mi hanno minacciato, perseguitato e hanno terrorizzato la mia famiglia. Gli estremisti, qualche anno fa, hanno persino chiesto ai miei genitori, a mia madre e mio padre, di dissuadermi dal continuare la mia missione in aiuto dei cristiani e dei bisognosi, altrimenti mi avrebbero perso. Ma mio padre mi ha sempre incoraggiato. Io dico che, finché avrò vita, fino all’ultimo respiro, continuerò a servire Gesù e questa povera, sofferente umanità, i cristiani, i bisognosi, i poveri. Voglio dirvi che trovo molta ispirazione nella Sacra Bibbia e nella vita di Gesù Cristo. Più leggo il Nuovo e il Vecchio Testamento, i versetti della Bibbia e la parola del Signore e più si rinsaldano la mia forza e la mia determinazione. Quando rifletto sul fatto che Gesù Cristo ha sacrificato tutto, che Dio ha mandato il Suo stesso Figlio per la nostra redenzione e la nostra salvezza, mi chiedo come possa io seguire il cammino del Calvario. Nostro Signore ha detto: «Vieni con me, prendi la tua croce e seguimi». I passi che più amo della Bibbia recitano: «Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi». Così, quando vedo gente povera e bisognosa, penso che sotto le loro sembianze sia Gesù a venirmi incontro. Per cui cerco sempre d’essere d’aiuto, insieme ai miei colleghi, di portare assistenza ai bisognosi, agli affamati, agli assetati”. (Shahbaz Bhatti, Cristiani in Pakistan. Nelle prove la speranza, Marcianum Press, Venezia 2008 (pp. 39-43)

Alessandro Cortesi op

PREDICAZIONE. 27-2-11. Commento alla Sacra Scrittura

27-2-2011 - VIII Domenica del tempo ordinario – Anno A

Is 49,14-15; Sal 61; 1Cor 4,1-5; Mt 6,24-34

Omelia

Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se costoro si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai

Dio non dimentica. E’ questo l’annuncio su cui può fondarsi una fede fatta di vita, di carne e non di principi o dottrine. Di più: Dio non si dimentica di te. Il Dio della Bibbia, dei profeti è un Dio capace di commuoversi, di muoversi dentro, di sentire quell’attaccamento che porta a prendere parte per te anche quando non lo meriti o non avresti alcun diritto da vantare. Si commuovere e non cancella il tuo nome dal suo ricordo. Ma così facendo ti cambia perché apre a intendere la vita in modo radicalmente nuovo. E’ il cuore della fede, lasciarsi ricordare e entrare in una relazione di ricordo. Questo annuncio di Isaia è uno squarcio sul volto di Dio che rimane fedele. Fedele nonostante ogni contraddizione e fedele per primo indipendentemente dall’oblio o dall’indifferenza che può trovare dall’altra parte. E’ la gratuità dell’amore che non ricerca un contraccambio, ma si offre come mendicante che non dà qualcosa ma regala il suo ricordo. Il volto di Dio ha i tratti di chi dona e attende e rimane fermo, paziente, e si commuove nonostante ogni distanza. C’è un rapporto tra lui e noi che possiamo cogliere nel guardare al legame tra una donna e il suo figlio. Un legame scolpito nelle profondità dell’essere. E se anche di fronte alla possibile contraddizione, al caso di una donna che non ama la propria creatura, Dio non è così, ma ‘io non ti dimenticherò mai’. E’ sempre sorprendente cogliere come le parole che convertono e che generano ascolto e trasformazione non sono le parole sui princìpi o le spiegazioni sui valori, siano essi negoziabili o meno. Le parole che toccano il cuore e fanno pensare - anche coloro che si pretendono distanti - sono le parole e gli atti dell’amore, le parole della cura, le parole che dicono la decisione di prendersi in carico la vita degli altri con fatica e pesantezza. Sono quelle le parole che raccontano la vita e ne sono testimonianza. In un tempo che dimentica non solo la propria storia, ma dimentica l’altro, perché non lo vuole guardare e lo allontana da sé, il Dio annunciato da Isaia ha i tratti di un Dio che ricorda, personalmente, rivolto ad un tu, e non verrà meno al suo ricordo. E sentirsi dire ‘non ti dimenticherò’ è parola, ed evento, che genera sussulti inattesi, che può aprire ad accoglienze segrete.

Non preoccupatevi dunque dicendo: che cosa mangeremo? che cosa berremo? che cosa indosseremo? Di tutte queste cose vanno in cerca i pagani. Il Padre vostro celeste, infatti, sa che ne avete bisogno…

Perché tanta insistenza nel discorso di Gesù sulla questione della ricchezza? Non potete servire Dio e il denaro… Forse ce ne rendiamo conto cogliendo quali siano gli esiti di una vita in cui la ricorsa fondamentale è quella verso l’avere, verso l’afferrare, verso il primeggiare. Una vita piena di cose ha i contorni di una vita affannata. Incapace di ricordo perché il fiato è sospeso verso la conquista di qualcosa di più, perché l’invidia sta sempre alla soglia in quanto c’è qualcuno che ha di più, e la paura la fa da padrona perché si può perdere posizioni raggiunte, perché i beni sono tiranni silenziosi, perché il potere richiede sospetto verso i possibili contendenti. Forse Gesù insiste tanto su questo sguardo liberato dall’affanno delle ricchezze per aprire strade di umanità. La logica del consumare e dell’avere per poter sfruttare da padroni le cose è una logica pervasiva: non si arresta mai e dall’utilizzo dei beni passa all’utilizzo delle persone fino a produrre ‘utilizzatori finali’ di tutto, delle risorse, della bellezza, della poesia, delle persone, e tutto, persone, animali, cose diviene vittima da divorare. E’ anche questa una logica che separa e costruisce barriere sempre più alte tra le persone, tra chi ha e chi non ha, tra chi usa il potere e chi deve soggiacere. L’altro è visto così come un miserabile non degno di considerazione, come un non-uomo.

Gesù insiste tanto su questo forse perché comprendeva, a partire dalla sua esperienza di povero, che una vita liberata da tanti fantasmi è solamente una vita che apprende magari faticosamente e lentamente a non soggiacere all’affanno delle cose. Diviene allora vita capace di godere del dono inatteso, delle cose semplici, diviene una vita in cui ci si può accontentare di meno, se non di poco. Soprattutto diviene una vita in cui si fa spazio per l’altro. L’altro che sono le cose, i beni condivisi, l’altro che sono i volti, e i volti dei poveri, l’altro che è il volto nascosto di Dio e che pur ci raggiunge nelle sottili pieghe della vita quotidiana, se lo sguardo si apre alla ricerca del regno di Dio: “cercate invece innanzitutto il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta”. Sta qui il paradosso dell’annuncio di Gesù: una vita capace di scrollarsi di dosso l’affanno, che imprigiona e ripiega, si ritrova in modo nuovo e inatteso, sorprendentemente ricca. Ricca delle cose semplici, di ogni giorno, scoperte come abbondanza e sovrappiù: Magari le medesime cose di chi ha poco, ma osservate con uno sguardo capace di gioire. Si ritrova ancora ricca di tante presenze, ricca soprattutto e paradossalmente di un spazio fatto dentro di sé, non un pieno ma un vuoto, perché sia riempito dagli incontri e dalle cose quotidiane accolti non come possesso, ma come dono.

Dalla Parola alla preghiera

Donaci Signore di vivere la fede come incontro personale e accoglienza del tuo amore gratuito, di Te che non ti dimentichi di noi…

Aiutaci Signore a liberarci dall’affanno delle cose, facci essere critici verso modelli di vita in cui la realizzazione di una persona è valutata sulla base unicamente dell’efficienza e del suo primeggiare…

Donaci Signore di ricercare nella nostra vita innanzitutto il regno di Dio e di scoprire tutte le cose in aggiunta che ci dai se lasciamo spazio all’accoglienza del vangelo nelle nostre scelte…

Rendici capaci di comunicare la tua presenza e il tuo sguardo di amore fedele per ogni persona e rendici anche capaci di cogliere come l’accoglienza di te implichi una profonda conversione rispetto a modelli di vita oggi dominanti…

Dalla Parola alla vita

Nella fascia del Maghreb sono in corso sommovimenti che segneranno la vicenda sociale e politica del nostro futuro vicino e lontano che meriterebbero altra attenzione da parte della televisione nella copertura informativa ed in programmi di lettura della situazione.

Assistiamo invece a telefonate in diretta di elogio di programmi come “l’isola dei famosi” come uno tra i più popolari e qualificanti la programmazione della Tv nazionale (cfr. telefonata del direttore Masi nel corso della prima puntata della nuova serie).

Di fronte all’emergenza di nuovi sbarchi a Lampedusa, l’attuale ministro degli interni, incapace di dire una parola sensata sui processi epocali che si stanno svolgendo dall’altra parte del Mediterraneo, ha potuto dichiarare che si prevede un flusso di immigrazione dall’Africa superiore ad ogni attesa è riuscito solamente a criticare l’Europa e ad alzare la voce per chiedere 100 milioni di euro come contributo per fronteggiare immediatamente la crisi. Ed ha riconosciuto che questa situazione non può essere risolta con i respingimenti. Solamente un popolo inebetito da trasmissioni televisive come il Grande fratello o l’isola dei famosi non ha saputo reagire con un’ondata di indignazione di fronte a questa elementare scoperta che contraddice un’intera politica basata sulla strategia dei respingimenti gli immigrati via mare (mentre continuano invariati gli ingressi con visti di turismo via terra) e di prevedere il reato di clandestinità.

Ma c’è qualcosa di più scandaloso in tutto questo: 100 milioni di euro sono il prezzo, euro più, euro meno, di un cacciabombardiere F35. L’Italia si appresta a comprarne 131, ed il costo complessivo sarà di 15 miliardi di euro. Un dépliant curato da Pax Cristi che invita a scrivere ai parlamentari, a senatori e al governo italiano, ricorda che con 15 miliardi di euro si potrebbero costruire 3000 asili nido creando 20.000 nuovi posti di lavoro; si potrebbe dare indennità di disoccupazione a 700 euro al mese per 6 mesi a precari con reddito inferiore a 20.000 euro; si potrebbero acquistare 20 treni per pendolari etc.. etc.. 15 miliardi di euro risultano poi essere il doppio rispetto all’operazione dei tagli programmati dalla riforma Gelmini per la scuola italiana! (per aderire all’appello per la sospensione della partecipazione italiana al progetto http://www.sbilanciamoci.org/index.php?option=com_content&task=view&id=1008)

Guardare a quanto si muove nei paesi del Maghreb può aiutarci ad uscire da una bolla di una società imbrigliata nell’incapacità di leggere le grandi sfide del presente.

Raccolgo alcuni contributi di lettura di quanto sta avvenendo e che in questi ultimi giorni in Libia vede sviluppi drammatici e sconvolgenti nella repressione brutale da parte del dittatore Gheddafi nei confronti del popolo di quella terra.

Luigi Sandri in un recente intervento a Pistoia (venerdì 18 febbraio 2011) organizzato dal Centro Espaces ha posto in luce come questo processo che attraversa tutta l’area dei paesi arabi ma giunge a toccare aree come l’Iran - che non appartiene ai paesi arabi ma al mondo persiano - sta sconvolgendo il quadro geopolitico mondiale. Esso ha trovato impreparati soprattutto i governi dei paesi occidentali che ritenevano permanente una situazione in cui alcune dittature che ora stanno rivelando il loro volto sanguinario, erano considerate ‘paesi moderati’ da contrapporre a paesi nemici e a ‘stati canaglia’. Il disorientamento delle cancellerie occidentali nella rapidità di questi cambiamenti e sollevazioni dipende da politiche sviluppate a partire da una logica di colonizzazione che è continuata anche dopo il sorgere di stati nel Maghreb indipendenti dalle potenze occidentali. Politiche segnate da interesse per le fonti di energia e fondamentalmente disinteressate per i diritti umani e la democrazia in quei territori.

Come giustamente osserva Luciana Borsatti, inviata dell’Ansa in Tunisia, ad un dibattito del Cipax del 3 febbraio u.s., non si è trattato unicamente di rivolte del pane. Certamente c’è una richiesta di una vita dignitosa, ma le parole che hanno segnato la rivolta tunisina, poi quella egiziana e ora in Libia e in altre regioni (Bahrein, Yemen) sono “dignità, fiducia e speranza”. Dignità rivendicava il ventiseienne tunisino Mohamed Bou’azizi che il 17 dicembre si è dato fuoco in segno di protesta quando il suo banco di frutta veniva requisito. La richiesta fondamentale è quella di essere riconosciuti come persone libere e con una dignità umana. Ma anche fiducia di poter cambiare un corso della storia segnato dall’oppressione della libertà. Infine speranza in un cambiamento possibile.

Adnane Mokrani, teologo tunisino docente di lingua e cultura islamica alla Pontificia Università Gregoriana, e autore del libro ‘Leggere il Corano a Roma’, in un articolo apparso in “Adista Segni Nuovi” 13 (19 febbraio 2011) dal titolo “Tra dittatura e fodnamentalismo scegliamo la democrazia ripercorre le fasi per le quali è passato il mondo islamico dopo la caduta delle società tradizionali: il nazionalismo laico autoritario come nel caso di Atatürk in Turchia, di Reza Shah in Iran e di Bourghiba in Tunisia, poi la fase di affermazione dell’islamismo militante il cui apice è stato il 1979 con la rivoluzione iraniana. Negli ultimi anni il discorso islamista ha perso progressivamente terreno. Secondo Mokrani “l’apparizione di al-Qaida nella scena politica internazionale è l’eccezione che conferma la regola: con essa l’islamismo radicale non è più una forza popolare ma piuttosto un ‘suicidio-omicidio’ che non ha un progetto per l’avvenire. La terza fase, dunque, è segnata dalla crescita di una coscienza collettiva della necessità di democrazia, libertà e diritti umani”. Mokrani osserva la presenza di “una nuova generazione cresciuta sotto le dittature (di Ben ali e di Mubarak per esempio) ben connessa con il mondo, capace di usare i mezzi di comunicazione; giovani globalizzati nel senso positivo della parola, aperti ai cambiamenti mondiali; giovani colti e laureati, ma senza possibilità di integrazione nel mercato del lavoro né nello spazio politico”.

Fondamentale in questi sommovimenti che stanno segnando il mondo arabo è il ruolo della rete. Si tratta di rivoluzioni dal basso. Elementi rilevanti sono la forte presenza di giovani che si trovano depredati del loro futuro e dovrà ancora emergere sempre più la presenza di donne, come nell’Iran in cui si è in presenza di una popolazione femminile giovane ben formata e consapevole del valore della conoscenza per il proprio futuro.

A tal proposito il gesuita Henri Boulad, direttore del Centro culturale gesuita di Alessandria e Soliman Chafik giornalista politologo, in un articolo apparso nella rivista “Témoignage chrétien” dal titolo “Egypte: et les chrétiens dans tout ça?” (http://www.temoignagechretien.fr/ARTICLES/International/Egypte-et-les-chretiens-dans-tout-ca-?/Default-3-2398.xhtml del 4 febbraio 2011) sottolineano come in Egitto la rivolta abbia visto come primo protagonista i giovani aperti, emancipati. Ma i Fratelli musulmani hanno subito cercato di prendere questa rivolta dalle mani dei giovani che l’avevano inventata. Ma vi sono altri protagonisti, in particolare il popolo egiziano: “presi di sorpresa dalla improvvisa sparizione delle forze di sicurezza e la sorprendente liberazione dei prigionieri dapprima è stato preso dal panico di fronte alle orde di banditi che si sono riversati nella città. Ma le persone si sono presto riprese e organizzate per far fronte e resistere. Comitati di difesa civile sono sorti spontaneamente, prendendo posizione alla base dei palazzi, agli angoli delle strade, un po’ dappertutto per difendersi, proteggere le loro famiglie e i loro beni, per organizzare la circolazione e la raccolta della spazzatura. Questa scelta di prendere in mano la situazione da parte del popolo è stata veramente rimarchevole e tutto si svolge ora in una serenità, cortesia e efficacia sorprendenti” Ma anche protagonista è stato l’esercito, “vicino al popolo, avversario dei Fratelli musulmani”. Tuttavia il timore è quello di tornare ad una dittatura di tipo militare, simile a quella successiva al colpo di Stato del 1952. Si sottolinea pure come i cristiani si siano tenuti un po’ distaccati da questi sommovimenti, timorosi dei futuri possibili sviluppi. Interrogativi che non eliminano la speranza: “Ci auguriamo che il nuovo regime ci aiuti a costruire, lungi da ogni lotta partigiana e confessionale questa unione nazionale che per molti sembra una pura utopia”. Certamente – come ha rilevato Sandri nella sua conferenza – uno dei punti nodali saranno le scelte future del governo egiziano sulla questione del confine di Gaza. Quali scelte saranno compiute nei confronti di quello che attualmente è una prigione a cielo aperto? Non solo, ma decisive saranno scelte che possano aprire ad un reale pluralismo culturale e religioso nel contesto egiziano in cui è presente certamente l’organizzazione dei Fratelli musulmani, assai variegata al suo interno e che non costituiscono un blocco omogeneo (cfr. nel medesimo numero della rivista l’articolo di Benjamin Seze “Les Frères musulmans ne forment pas un bloc homogène” intervista a Brigitte Maréchal autrice di Les Frères musulmans en Europe, racines et discours, ed. PUF 2009), ma anche la componente dei cristiani copti che in Egitto che sinora non ha avuto possibilità di riconoscimento e di espressione.

Adel Jabbar, sociologo e saggista, in un articolo inviato gli amici dal titolo “Appunti sulle sollevazioni arabe” sintetizza alcuni punti dei fenomeni in atto su cui riflettere:

Gli avvenimenti che stanno scuotendo le società arabe e travolgendo i vari vassalli e satrapi dimostrano: 1) che le popolazione hanno superato la paura che li ha paralizzati per decenni e, di fatto hanno trovato la forza di sconfiggere la cultura dell’intimidazione e del terrore che i tiranni hanno usato e usano come unico modo per governare; 2) che le élite, spesso secolari, non sono altro che combriccole familistiche di stampo mafioso; 3) che i poteri dell’occidente democratico hanno sostenuto regimi corrotti e violenti mettendo in primo piano i propri interessi materiali dimenticando del tutto la cultura dei diritti umani, della quale fanno uso, non di rado, in termini meramente strumentali; 4) una maturità e una consapevolezza politica delle fasce giovanili smarcata da riferimenti ideologici novecenteschi; 5) che larghi settori assumono la nonviolenza e la disobbedienza civile come prassi per rivendicare i propri diritti e la propria dignità, quindi smentendo e confutando il luogo comune che vuole le società arabe imbevute di violenza e di fanatismo religioso, appiattendo l’immagine degli arabi sulla figura di Bin Laden e di al-Qa‘aida; 6) l’assenza di retorica anti occidentale – non sono stati presi di mira né interessi né persone né simboli occidentali – e il sapere parlare un linguaggio transculturale in grado di comunicare in un mondo di differenze e di molteplicità attraverso parole d’ordine quali dignità, libertà e giustizia”.

Tanti elementi che nell’incertezza del presente e dell’assetto futuro di tutta l’area mediterranea offrono motivo per una radicale conversione intellettuale, morale e politica da parte dell’Occidente, come opportunamente Sandri ha auspicato al termine del suo intervento.

Benigni e l’unità d’Italia

Alcuni aspetti dell’ultimo festival di Sanremo hanno forse aperto brecce che sono state registrate acutamente da Barbara Spinelli come segnali di speranza in un clima italiano buio e che genera sgomento e indignazione. La canzone vincitrice di Vecchioni canta «Questa maledetta notte dovrà pur finire». Barbara Spinelli commenta:A quest'Italia piace Benigni quando narra Fratelli d'Italia. Piace Vecchioni quando canta la «memoria gettata al vento da questi signori del dolore», e «tutti i ragazzi e le ragazze che difendono un libro, un libro vero, così belli a gridare nelle piazze perché stanno uccidendo il pensiero». Quando conclude: «Questa maledetta notte dovrà pur finire». Poiché si estende, il senso di abitare una notte: d'inganni, cattiveria, sfruttamento sessuale di minorenni. C'è voglia che inizi un risveglio. Che la politica e anche la Chiesa, cruciale nella nostra storia, vedano la realtà dei fatti dietro quella pubblicitaria” (Quando finirà la notte, “La Repubblica” 23 febbraio 2011).

Tuttavia penso sia opportuno nonostante l’universale plauso al commento di Benigni all’inno nazionale raccogliere una voce fuori dal coro che invita ad alcune osservazioni critiche che portano anche a riflettere sulla generale impreparazione ed ignoranza diffusa: Alberto Mario Banti per Il Manifesto, commenta la ‘memorabile’ lezione di storia di Benigni, applaudita in modo bipartisan (http://www.altracitta.org/2011/02/20/benigni-a-sanremo-un-commento-fuori-dal-coro/). Banti interrogandosi su cosa stia dietro ad una impostazione del commento che respira molti elementi della retorica identitaria e nazionalistica, avverte dei rischi di questa impostazione nel contesto attuale in cui ai ripiegamenti identitari e xenofobi della Lega in ben altro modo si dovrebbe reagire riscoprendo insieme ad un senso dell’unità nazionale anche quell’apertura del migliore europeismo e internazionalismo che ha segnato la storia recente: “Bene. E che cosa abbiamo imparato da questa lezione di storia? Che noi italiani e italiane del 2011 discendiamo addirittura dai Romani, i quali si sono distinti per aver posseduto un esercito bellissimo, che incuteva paura a tutti. Che discendiamo anche dai combattenti della Lega lombarda (1176); dai palermitani che si sono ribellati agli angioini nel Vespro del lunedì di Pasqua del 1282; da Francesco Ferrucci, morto nel 1530 nella difesa di Firenze; e da Balilla, ragazzino che nel 1746 avvia una rivolta a Genova contro gli austriaci. Interessante. Da storico, francamente non lo sapevo. Cioè non sapevo che tutte queste persone, che ritenevo avessero combattuto per tutt’altri motivi, in realtà avessero combattuto già per la costruzione della nazione italiana. Pensavo che questa fosse la versione distorta della storia nazionale offerta dai leader e dagli intellettuali nazionalisti dell’Ottocento. E che un secolo di ricerca storica avesse mostrato l’infondatezza di tale pretesa. E invece, vedi un po’ che si va a scoprire in una sola serata televisiva. Ma c’è dell’altro. Abbiamo scoperto che tutti questi «italiani» erano buoni, sfruttati e oppressi da stranieri violenti, selvaggi e stupratori – stranieri che di volta in volta erano tedeschi, francesi, austriaci o spagnoli. E anche questa è una nozione interessante, una di quelle che cancellano in un colpo solo i sentimenti di apertura all’Europa e al mondo che hanno positivamente caratterizzato l’azione politica degli ultimi quarant’anni. Poi abbiamo anche capito che dobbiamo sentire un brivido di emozione speciale quando, passeggiando per il Louvre o per qualche altro museo straniero, ci troviamo di fronte a un quadro, che so, di Tiziano o di Tintoretto: e questo perché quelli sono pittori «italiani» e noi, in qualche modo, discendiamo da loro. Che strano: questa mi è sembrata una nozione veramente curiosa: io mi emoziono anche di fronte alle tele di altri, di Dürer, di Goya o di Manet, per dire: che sia irriducibilmente anti-patriottico? E infine abbiamo capito qual è il valore fondamentale che ci rende italiani e italiane, e che ci deve far amare i combattenti del Risorgimento: la mistica del sacrificio eroico, la morte data ai nemici, la morte di se stessi sull’altare della madre-patria, la militarizzazione bellicista della politica. Ecco. Da tempo sostengo che il recupero acritico del Risorgimento come mito fondativo della Repubblica italiana fa correre il rischio di rimettere in circuito valori pericolosi come sono quelli incorporati dal nazionalismo ottocentesco: l’idea della nazione come comunità di discendenza; una nazione che esiste se non ab aeterno, almeno dalla notte dei tempi; l’idea della guerra come valore fondamentale della maschilità patriottica; l’idea della comunità politica come sistema di differenze: «noi» siamo «noi» e siamo uniti, perché contrapposti a «quegli altri», gli stranieri, che sono diversi da noi, e per questo sono pericolosi per l’integrità della nostra comunità. Ciascuna di queste idee messa nel circuito di una società com’è la nostra, attraversata da intensi processi migratori, può diventare veramente tossica: può indurre a pensare che difendere l’identità italiana implichi difendersi dagli «altri», che – in quanto diversi – sono anche pericolosi; può indurre a fantasticare di una speciale peculiarità, se non di una superiorità, della cultura italiana; invita ad avere una visione chiusa ed esclusiva della comunità politica alla quale apparteniamo; e soprattutto induce a valorizzare ideali bellici che, nel contesto attuale, mi sembrano quanto meno fuori luogo. Ecco, con la performance di Benigni mi sembra che il rischio di una riattualizzazione del peggior nazionalismo stia diventando reale: tanto più in considerazione della reazione entusiastica che ha accolto l’esibizione del comico, quasi come se Benigni avesse detto cose che tutti avevano nel cuore da chissà quanto tempo. (…) Beh, speriamo che il successo di Benigni sia il successo di una sera. Perché abbracciare la soluzione di un neo-nazionalismo italiano vorrebbe dire infilarsi dritti dritti nella più perniciosa delle culture politiche che hanno popolato la storia dell’Italia dal Risorgimento al fascismo”.

Alessandro Cortesi op

PREDICAZIONE. 20-2-11. Commento alla Sacra Scrittura

20-2-2011 - VII Domenica del tempo ordinario - anno A

Lev 19,1-2.17-18; Sal 102; 1Cor 3,16-23; Mt 5,38-48

Omelia

Non coverai nel tuo cuore odio contro il tuo fratello…

Siamo al cuore del Levitico, un libro di difficile lettura, ricco di norme elencate in modo puntuale. La prima parte di questo libro indica una serie di rituali per eliminare impurità inconsapevoli che implicano l’incapacità da parte degli uomini di accogliere la presenza di Dio e di accostarsi a Lui. Il rituale una volta l’anno, nel giorno dell’espiazione, è sacrificio che elimina tutto quello che ancora è impuro. Dio stesso offre la possibilità di una riconciliazione per lasciar spazio alla sua presenza. Tutte queste norme non sono riconosciute come valide per i cristiani, e proprio in questo sta la difficoltà di questo testo. Ma esso può essere letto con la disponibilità a scoprire nelle osservanze rituali e di purità l’importanza di vivere un rapporto con Dio che segna la totalità e l’ordinarietà della vita. Le regole sul sacro e profano e le norme sul puro e sull’impuro sorte in un ambito sacerdotale ebraico mantengono un loro significato nell’orizzonte della fondamentale intuizione espressa in Es 29,45: “abiterò in mezzo ai figli d’Israele e sarò il loro Dio”.

Al cap. 19 il testo offre alcune indicazioni morali nell’orizzonte di essere ‘santi come Dio è santo’. Essere santi ha come significato il lasciarsi orientare da Dio nelle vicende del quotidiano. Ma è in particolare la parola sul rapporto con il prossimo che apre uno squarcio di novità: “Non coverai odio nel tuo cuore… amerai il tuo prossimo come te stesso”. Gesù riprenderà queste parole unendo questo precetto del Levitico con le parole del Deuteronomio (6,5): ‘amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore’.

I due momenti vanno sempre insieme, amare Dio e riconoscere il prossimo: scambiare Dio con idoli vani è orientamento che equivale a non vivere rapporti giusto con l’altro, con il prossimo.

Non è possibile – ci dicono questi testi – alcun rapporto con Dio senza riconoscimento e cura dell’altro. Laddove vi sia un covare odio nel cuore c’è lontananza e incomprensione del Dio che vuole l’incontro tra diversi. Dio è colui che tiene sempre conto del prossimo. Sta qui la radice del precetto al cuore del Primo testamento ‘Amerai il prossimo tuo come te stesso’. Una lettura ebraica suggerisce l’interpretazione: “Amerai il prossimo tuo. E’ come te stesso”: una interpretazione possibile dalle molteplici conseguenze.

La concretezza di queste parole si traduce nell’imperativo “tu amerai il forestiero, cioè l’immigrato residente, come te stesso…” Quando un forestiero dimorerà presso di voi nella vostra terra, non lo opprimerete. … tu l’amerai come te stesso perché anche voi siete stati forestieri in terra d’Egitto. Io sono il Signore vostro Dio”.

se amate quelli che vi amano, quale ricompensa ne avete? non fanno così anche i pubblicani?

Gesù non invita ad una perfezione che appare un ideale che genera ipocrisia nella vita e incapacità di riconoscere la fatica e il cammino, proprio e degli altri. L’invito ad essere perfetti è – come nel Levitico – apertura a lasciare spazio nella propria esistenza all’opera di Dio. E’ il suo amore che, solo, poco alla volta ci cambia e rende capaci di accettarci con le nostre imperfezioni e fatiche. E le rende luogo di crescita, di riconciliazione, e soprattutto di uno sguardo nuovo su di sé e sugli altri. Non covare odio, ma covare quanto si oppone all’odio, accoglienza, comprensione, dedizione concreta.

C’è un covare che fa rimanere nella sterilità, in se stessi e nel rapporto con gli altri. C’è un altro covare, che significa custodia e cura: è coltivare ciò che apre alla vita e si fa possibilità di accettare se stessi e gli altri. Certo, ciò non va confuso con quel moderatismo per cui non esiste capacità di giudizio, si scambia il bene con il male, non si prende mai parte in modo chiaro facendosi così complici dell’ingiustizia. Amare il nemico non è via per non reagire di fronte all’ingiustizia e alla sopraffazione, non è invito a non disturbare i potenti. L’amore non può essere scambiato con l’assuefazione e la sottomissione ai potenti. C’è un amore esigente che affronta il conflitto sa opporsi in modo radicale al male dentro di noi e fuori di noi. Non il quieto vivere senza conflitti è stata la via di Gesù, ma la coerenza fino in fondo ad uno stile di vita come accoglienza gratuità e servizio che ha suscitato l’opposizione e la reazione violenta. Gesù ha amato non perché si è piegato ad accettare la logica dei poteri, politico e religioso, che l’hanno condannato, ma ha amato conducendo fino alla fine la sua testimonianza.

Dalla parola alla preghiera

Donaci Signore di non covare odio, ma di lasciare spazio nel cuore a coltivare uno sguardo di solidarietà verso gli altri…

In un tempo di razzismo crescente aiutaci Signore ad essere testimoni che ogni uomo e donna è immagine di Dio e va guardata nella sua dignità e nella sua originalità…

Amare anche il nemico per trasformarlo in amico è la grande sfida dell’incontro: aiutaci Signore a vincere tutto quello che ci fa guardare l’altro come nemico e a coltivare i percorsi del dialogo…

Donaci Signore di vivere un amore capace di coraggio…

La Parola dei Padri

“… la vita solitaria oltre agli inconvenienti che abbiamo detto, presenta anche dei pericoli. Il primo, e il più grave, è la compiacenza di se stesso. Il solitario non ha chi possa dare un giudizio sul suo modo di agire, e quindi crederà di essere giunto alla perfezione nell'osservanza dei comandamenti. Inoltre, lasciando sempre inesplicate le sue capacità, non potrà conoscere i suoi difetti né constatare i progressi, perché non ha occasione di mettere in pratica i precetti. E infatti, come potrà egli dimostrare di essere umile, se non ha nessuno dinanzi al quale abbassarsi? Come potrà dimostrare la sua compassione verso gli altri, se vive separato dalla società? Come potrà esercitare la pazienza, se non c'è nessuno che si opponga al suo volere? Se poi uno dicesse che, per la riforma dei costumi, gli basta l'insegnamento della Scrittura, io gli risponderei che egli fa come chi impara a edificare, ma non costruisce mai; o impara l'arte del fabbro, ma non mette mai in pratica le norme imparate. A costui l'Apostolo potrebbe dire: "Non coloro che ascoltano la legge sono giusti dinanzi a Dio, ma coloro che la praticano saranno giustificati" (Rom 2,13). Anche il Signore infatti, per la sua grande bontà, non si ritenne pago di ammaestrarci con le parole ma, volendoci dare un esempio sublime di umiltà nella perfezione del suo amore, si cinse i fianchi con un asciugatoio e lavò i piedi dei discepoli. E tu, a chi laverai i piedi? Con chi ti mostrerai servizievole? Di chi ti farai ultimo se vivi da solo? Del resto, come si potrebbe, nella vita solitaria, realizzare la bellezza e la gioia del coabitare con i fratelli nella stessa dimora, cosa che lo Spirito Santo paragona all'unguento che esala profumo dal capo del gran sacerdote? (cfr. Sal 132/133,2). La coabitazione di più fratelli riuniti insieme costituisce dunque un campo di prova, una bella via di progresso, un continuo esercizio, una ininterrotta meditazione dei precetti del Signore. E lo scopo di questa vita in comune è la gloria di Dio, secondo il precetto del Signore nostro Gesù Cristo, che dice: "Risplenda la vostra luce dinanzi agli uomini, in modo che vedano le vostre opere buone, e diano gloria al Padre vostro che è nei cieli" (Mt 5,16)” (Basilio di Cesarea, Le Regole più ampie, Settima regola in forma estesa, tr. it. in Opere ascetiche, I, a cura di U. Neri, UTET, Torino 1980).

Uno spunto da…

“I padroni dell’iperimpero saranno le vedettes dei ‘circhi’ e delle ‘compagnie teatrali’: detentori del capitale delle ‘imprese-circo’ e dell’attivo nomade, strateghi finanziari o di impresa, a capo delle compagnie di assicurazioni e del tempo libero, architetti di software, creativi, giuristi, operatori di finanza, autori, designer, artisti, forgiatori di oggetti nomadi, li definisco qui ‘ipernomadi’. Saranno alcune decine di milioni, donne e uomini, dipendenti di se stessi, andranno vagando da ‘teatro’ a ‘circo’, concorrenti spietati, né impiegati né datori di lavoro, ma a volte esercitando più di un lavoro alla volta, gestendo la vita come un portafoglio di azioni. Attraverso una competizione molto selettiva, costituiranno una nuova classe creativa, un’’iperclasse’ che dirigerà l’iperimpero (…) Vorranno diventare più vecchi di tutti gli altri e per questo sperimenteranno tecniche che offriranno loro la speranza di raddoppiare la durata della vita. Si daranno a tutte le ricette di meditazione, di rilassamento e di apprendimento dell’amore di sé.

(…) non saranno fedeli che a se stessi, si interesseranno innanzitutto alle proprie conquiste, alle proprie cantine, ai propri autosorveglianti, alle proprie collezioni di opere d’arte, all’organizzazione della propria vita erotica e del proprio suicidio, piuttosto che all’avvenire della progenie, alla quale non trasmetteranno né fortuna né potere”.

(Jacques Attali, Breve storia del futuro, ed. Fazi 2007, 157-159)

Jacques Attali - consigliere di Mitterrand e primo presidente della Banca Europea per la ricostruzione e lo sviluppo, incaricato da Sarkozy di presiedere la commissione per i freni alla crescita - parte dalla domanda cosa accadrà nel 2060 e che cosa sta per accadere nei prossimi cinquant’anni. Legge i fenomeni già in sviluppo nel presente: il terrorismo e la globalizzazione, l’emergenza ambientale e l’esaurimento delle risorse energetiche. Ma il futuro si svilupperà secondo varie ondate: la prima ondata sarà caratterizzata dal sorgere dell’iperimpero, in cui la diffusione al mondo intero del mercato. Regioni ricche vorranno sbarazzarsi di regioni povere, gli Stati subiranno un processo di decostruzione: “quando le imprese – comprese quelle delle nazioni divenute padrone dell’ordine policentrico – riterranno che il sistema fiscale e il diritto loro applicabili non siano i migliori a cui possano aspirare trasferiranno i loro centri di decisione fuori dal proprio paese d’origine (…) A causa dell’assenza dello Stato, le imprese favoriranno pertanto sempre più i consumatori a discapito dei lavoratori, i cui redditi diminuiranno”. Nelle condizioni di ubiquità l’uomo di domani, nella condizione di nomade senza nessun tipo di contratto sociale vedrà l’altro solo come strumento per la propria felicità, un mero strumento in vista di denaro o piacere. “Ogni azione collettiva sembrerà impensabile, ogni cambiamento politico inconcepibile. La solitudine comincerà dall’infanzia”. Le vittime di questo ‘iperimpero’ saranno gli ‘infranomadi’ ed essi costituiranno anche le prime vittime della seconda ondata del futuro segnata dall’iperconflitto. Un conflitto che Attali vede generato contro l’ordine mercantile da parte dei laici che si rivolteranno contro la globalizzazione e la democrazia di mercato, ma anche suscitato dalla collera dei credenti che vedrà al centro di questa battaglia le due grandi ‘religioni proselitiste’ il cristianesimo e l’islam. Guerre di tipi diversi si svilupperanno con nuove e sofisticate armi frutto della tecnologia più avanzata

“Non ci sarà niente di impossibile: la tragedia dell’uomo è che, quando può fare qualcosa, finisce sempre per farla. Tuttavia, molto prima che l’umanità abbia in questo modo posto fine alla propria storia – o almeno vorrei poterlo credere -, il fallimento dell’iperimpero e il rischio dell’iperconflitto porteranno le democrazie a trovare una spinta sufficiente per sconfiggere i pirati e respingere le proprie pulsioni di morte”. Si apre così secondo Attali la terza ondata del futuro, quella dell’iperdemocrazia. Estesa a dimensioni del pianeta, vedrà il convergere di persone di tutte le condizioni nazionalità, culture e credo religiosi interrogarsi insieme sul futuro dell’umanità. Una nuova categoria di persone, i ‘transumani’ che metteranno insieme le loro forze per far sorgere imprese in grado di produrre beni essenziali, il primo dei quali è il ‘buon tempo’ in vista di una emarginazione progressiva della logica del mercato per costruire una economia relazionale e per costruire una intelligenza collettiva, differente dalla somma delle intelligenze dei singoli. L’esperienza dell’homo sapiens giungerebbe quindi non all’annientamento, ma al superamento a differenza delle altre ondate del futuro.

“I transumani metteranno in piedi, accanto ad un’economia di mercato in cui ciascuno si misura all’altro, un’economia dell’altruismo, della disponibilità gratuita, del dono reciproco, del servizio pubblico, dell’interesse generale. Questa economia, che definisco relazionale, non obbedirà alle leggi della scarsità: dare conoscenza non ne priva colui che ne fa dono”.

Attali nell’edizione italiana del suo libro aggiunge alcune brevi pagine sull’Italia e osserva: “Nel complesso l’Italia ha cessato di essere il ‘cuore’ nel momento in cui il mondo si rovesciava verso l’Atlantico, perché i cuori italiani hanno smesso di aderire alle leggi della storia del futuro che ho qui descritto (…) l’Italia si trova in una posizione geografica cruciale: all’incrocio tra l’Europa, l’Africa e il Medio Oriente mediterraneo, e potrà sviluppare un potenziale di crescita immenso se saprà approfittare di questa triplice appartenenza. Se saprà fondersi in tre insiemi senza disperdersi in minuscole province”.

Attali guarda al futuro cercando di mostrare che l’umanità non è condannata ad autodistruggersi secondo le vie del mercato, della scienza, della guerra o secondo quelle della stupidità.

Forse sarebbe da osservare che questi processi non possono essere pensati come dinamismi spontanei, ma come frutto di una responsabilità che sorga da cuori decisi a rompere la catena dell’odio, del disprezzo dell’altro, disponibili a coltivare non odio ma ospitalità.

Dalla Parola alla vita…

La Parola provoca la vita e la vita interroga la Parola. Tre ambiti di vita questa settimana mi sembrano luoghi in cui la Parola interpella profondamente la storia che stiamo vivendo:

- il rapporto con l’altro si scontra con le varie forme di discriminazione e razzismo, in particolare con i rom, vero capro espiatorio delle nostre società. Non coltivare odio… amare lo straniero appaiono così parole che si caricano di una urgenza e di una attualità unica.

- La manifestazione nelle città d’Italia per la dignità della donna ha riportato in primo piano il rapporto tra diversi, uomo e donna chiamati a riconoscersi nella dignità e non logica della strumentalizzazione o della schiavizzazione.

- Viviamo una stagione in cui si manifestano in modi drammatici gli esiti di una pseudo-cultura, definibile come il berlusconismo, che ha permeato visioni e comportamenti degli italiani. Alcune voci si levano anche per richiamare la responsabilità della chiesa a non essere connivente a tali orientamenti. ‘Amare’ implica anche capacità di reagire con coraggio e con assunzione di responsabilità.

1.

E’ sorprendente la facilità con cui certi messaggi di autentica coltivazione dell’odio trovano oggi diffusione. Lo si è constatato nella vicenda dei quattro fratellini rom morti in un rogo in un campo nomadi a Roma. Non coltivare l’odio del cuore si rivela così indicazione estremamente attuale. Ma dove stanno le radici dell’odio? Affondano in un humus di paura e di non conoscenza. Paura e ignoranza che esigono di essere elaborate e superate. Affondano anche in una serie di stereotipi utilizzati ad arte per barricarsi nel rifiuto ad incontrare l’altro e a lasciarsi provocare a ripensare se stessi nell’incontro.

Riporto in seguito ampi stralci di due illuminanti interventi di Giovanni Paci (10 febbraio 2011): “‘Anche il mio cane ha imparato a fare la pipì sul muro. Loro no. Ci odiano, non vogliono lavorare e sono sporchi. La loro integrazione è impossibile’. Serata memorabile martedì sera durante la trasmissione radiofonica ‘La zanzara’ su Radio24. Spalleggiata dall’intervento della quasi totalità degli ascoltatori intervenuti, Tiziana Maiolo, politica di lungo corso, ex radicale, ex comunista, ex berlusconiana e ora, a quanto pare, dopo questa straordinaria uscita, ex finiana ha pronunciato queste parole sostenuta da un divertito Cruciani, il conduttore, che ha dichiarato: ‘Vorrei averla qui tutte le sere’. Davanti alla morte di quattro bambini, una parte d’Italia non trova di meglio che riproporre la litania del ‘mandateli a casa loro’ ignorando che, per molti, ‘casa loro’ è il nostro paese e per altri, la casa è il posto disposto ad accoglierli, un posto sempre più raro in questa Europa impaurita e ignorante. La valanga di luoghi comuni e di stereotipi che circonda la popolazione nomade è disarmante. L’odio nei suoi confronti non ha pari nella storia dell’umanità. I nomadi sono il capro espiatorio per eccellenza. Essi ci rappresentano quotidianamente le nostre paure, ce le ricordano agli angoli della strada, le materializzano nel loro stile di vita” (l’intero articolo in http://www.agoravox.it/I-cani-si-integrano-i-nomadi-no.html).

“Nessuna prova di integrazione sposta di un millimetro la considerazione negativa di cui godono tra tutti gli strati sociali, in tutte le aree geografiche. Non importa se non è vero che tutti rubano, non importa se, in molte realtà, politiche sociali serie hanno permesso ad alcuni di affrancarsi dalla miseria e dall’emarginazione trovando un lavoro o conseguendo un titolo di studio. Non importa, sono zingari e questo basta. Nemmeno i corpi carbonizzati di quattro bambini muovono a un gesto di pietà, di dubbio, di compassione: non erano bambini, erano bambini nomadi. Devono andarsene via, questa è l’unica soluzione. Eppure la loro funzione sociale è evidente. Essi catalizzano l’odio provocato dalla paura, dalla nostra solitudine, dalla tristezza delle nostre vite sempre più rinchiuse dentro fragili mura impastate di incapacità di aprirsi all’altro, di capire gli uomini e il mondo. Se i nomadi non ci fossero, qualcuno dovrebbe prendere il loro posto per farci sentire i ‘normali’, i ‘puliti’, ‘gli onesti’. Se loro non ci fossero, dovremmo trovare qualcun altro, qualcuno molto diverso da noi e questo non è semplice. I diversi, i deboli, sono necessari: servono a farci sentire normali e forti. Per questo, se i nomadi non ci fossero sarebbe minata alla base la convivenza nelle nostre “moderne” società. Essi rappresentano quello che non vogliamo essere: non hanno una casa stabile e sicura, non si preoccupano più di tanto del loro futuro, non hanno nel lavoro il centro della loro esistenza, si vestono come non ci vestiremmo mai, vivono dei soldi degli altri. Non importa se questi sono sempre più spesso stereotipi, non importa se molti di loro non sono così, non importa se come tutte le comunità umane hanno al loro interno diversità di idee, ambizioni, sogni. Non importa se corriamo il rischio di cadere nel ridicolo accusandoli di illegalità, di trattare male i bambini, di non voler lavorare; in un paese in buona parte privato della legge dello stato, in cui il lavoro nero e l’evasione sono a livelli sconosciuti nel resto del mondo sviluppato, in cui i più piccoli e le donne sono quotidianamente oggetto di violenze e abusi tra le mura delle villette a schiera delle nostre città pulite e progredite. Noi abbiamo bisogno di crederli così, loro devono essere così perché regga la nostra sempre più fragile costruzione sociale. Se non ci fossero loro a chi toccherebbe essere individuato come diverso?” (intero articolo in http://www.camminandoscalzi.it/wordpress/in-morte-di-quattro-bambini-rom.html)

2.

Alla manifestazione del 13 febbraio ‘Se non ora quando’, manifestazione organizzata per chiedere di difendere la dignità delle donne in un momento in cui la presenza della donna viene degradata e resa unicamente oggetto di utilizzo da parte di chi detiene soldi e potere, a Roma a piazza del Popolo è intervenuta suor Eugenia Bonetti, missionaria della Consolata, vissuta in Africa per 24 anni, dal 1993 impegnata in un centro Caritas di Torino dove opera per il recupero di tante donne vittime della tratta per la prostituzione e lo sfruttamento:

“Sono qui per dare voce a chi non ha voce, alle nuove schiave, vittime della tratta di esseri umani per sfruttamento lavorativo e sessuale, per lanciare un forte appello affinché sia riconosciuta la loro dignità e ripristinata la loro vera immagine di donne, artefici della propria vita e del proprio futuro. A nome loro e nostro, che ci sentiamo sorelle e madri di queste vittime, diciamo basta a questo indegno e vergognoso mercato del mondo femminile. (…)

Non possiamo più rimanere indifferenti di fronte a quanto oggi accade in Italia nei confronti del mondo femminile. Siamo tutti responsabili del disagio umano e sociale che lacera il Paese.

E’ venuto il momento in cui ciascuno deve fare la sua parte e assumersi le proprie responsabilità.”

E’ stata una voce che però non ha trovato espressioni di sostegno e di accompagnamento in altre voci da parte della gerarchia della chiesa. Così osserva Marco Politi (Il vaticano temporeggia ma i cattolici lo mollano, “Il Fatto quotidiano” 17 febbraio): “Il 13 febbraio la gerarchia ecclesiastica ha mancato un appuntamento, a cui bisognava rispondere con un sì o un no. L’onore della Chiesa è stato salvato da una donna, suor Eugenia Bonetti. Il suo grido contro l’ideologia della donna-usa-e-getta e le “notizie di cronaca, che si susseguono in modo spudorato e ci sgomentano” è stato accolto da boati di applausi in piazza del Popolo a Roma. Ma è riecheggiato nel silenzio tombale della gerarchia ecclesiastica. Non uno dei vescovi e cardinali, sempre pronti a sentenziare sulla moralità della società, ha detto una parola”.

Altre voci che provengono da chi opera sulle frontiere della cura alle persone si sono levate, come quella di un’altra donna, suora, che opera a Caserta e anch’essa portatrice di un impegno condotto in modo nascosto insieme a tante altre, espressione di un amore esigente e coraggioso: “Da anni, insieme a tre mie consorelle (suore Orsoline del S. Cuore di Maria), sono impegnata in un territorio a dire di molti ‘senza speranza’. Un territorio, quello casertano, dove anche la piaga dello sfruttamento sessuale è assai presente (...). Oggi, osservando il volto di Susan chinarsi e illuminarsi in quello del suo piccolo Francis, ripensando alla sua storia - a 16 anni si è trovata sulle nostre strade come merce da comprare - sono stata assalita da un sentimento di profonda vergogna, ma anche di rabbia.

Ho sentito il bisogno, come donna, come consacrata e come cittadina italiana, di chiedere perdono a Susan per l'indecoroso spettacolo a cui tutti stiamo assistendo (...).

Sono sconcertata nell'assistere come da ‘ville’ del potere alcuni rappresentanti del governo, in un momento di cosi grave crisi, offendano, umilino e deturpino l'immagine della donna. Inquieta vedere esercitare un potere in maniera così sfacciata e arrogante che riduce la donna a merce e dove fiumi di denaro e di promesse intrecciano corpi trasformati in oggetti di godimento. L'indignazione è grande!

Come non andare con la mente all'immagine di un altro ‘palazzo’ del potere, dove circa duemila anni fa al potente di turno, re Erode, il Battista gridò: ‘Non ti è lecito, non ti è lecito!’. A nome di Susan, sento di alzare la mia voce e dire ai nostri potenti, agli Erodi di turno, non ti è lecito! Noti ti è lecito offendere e umiliare la ‘bellezza’ della donna; non ti è lecito trasformare le relazioni in merce di scambio; e soprattutto oggi non ti è lecito soffocare il cammino dei giovani nei loro desideri di autenticità, di bellezza, di onestà. Tutto questo è il tradimento del Vangelo, della vita e della speranza!

Ma davanti a questo spettacolo una domanda mi rode dentro: dove sono gli uomini, dove sono i maschi? Poche sono le loro voci, anche dei credenti, che si alzano chiare e forti. Nei loro silenzi c'è ancora troppa omertà, na­scosta compiacenza e forse sottile invidia. Credo che dentro questo mondo maschile, dove le relazioni e i rapporti sono spesso esercitati nel segno del potere, c'è un grande bisogno di liberazione. E allora grazie a te, Susan, sorella e amica, per aver dato voce alla mia e nostra indignazione, ora posso, co­me donna consacrata e come citta­dina, guardarti negli occhi e insieme al piccolo Francis respirare il profu­mo della dignità e della libertà” (Suor Rita Giarretta, della comunità di accoglienza Rut di Caserta – ‘La Repubblica’ 31.01.2011)

3.

Barbara Spinelli (La fattoria degli italiani, “La Repubblica” 16 febbraio 2011) richiama alla fondamentale questione del rispetto della separazione dei poteri e di non intendere il potere svincolato da controlli e illimitato, ma richiama anche al silenzio della chiesa sui temi dell’etica pubblica: “Quando Berlusconi decreta che la sua condizione di indagato è decisa solo dalle urne dice qualcosa di affatto indigesto per i liberali, perché la sovranità popolare senza separazione dei poteri e sottomissione alla legge di ciascuno (popolo, governi, chiese) è la volontà della maggioranza, e di poteri che pretendendo rappresentare un tutto diventano paralleli, rivali dello Stato. Tocqueville li riteneva letali, in democrazia: "Esiste una sorta di libertà corrotta, il cui uso è comune agli animali e all'uomo, e che consiste nel fare tutto quel che piace. Questa libertà è nemica di ogni autorità: sopporta con impazienza ogni regola. Con essa, diventiamo inferiori a noi stessi, nemici della verità e della pace". Sono anni che discutiamo di questo in Italia: se la legge abbia ancora un significato, se la morale pubblica sia una bussola o una contingenza. È ora di deciderlo e chiudere la discussione.

Il bersaglio di chi si ribella a simili vincoli è la morale (per i poteri ecclesiastici è la laicità), descritta come sovversiva, giacobina. Ma anche qui l'equivoco è palese: nello stesso momento in cui si atteggiano a anticonformisti minoritari, i ribelli si riscoprono giacobini tutori di valori morali non negoziabili, e con tutta la forza della maggioranza negano al singolo la libertà di morire naturalmente, non attaccato alle macchine. Tanto più grave il silenzio della Chiesa sull'etica pubblica. In fondo questa dovrebbe essere l'occasione di far vedere che il suo spazio nella pòlis non è paragonabile a quello di cricche e cose nostre. Se vuol rinascere, la Chiesa non può non rompere con Berlusconi, a meno di non divenire anch'essa potere sfrenato e parallelo. L'appello di Bagnasco a ‘più trasparenza’ è tardivo e inadeguato”.

Altre voci, dalle periferie, si levano con lucidità di analisi e proposta: tra altre la voce di una comunità di Longuelo insieme al suo parroco già vice caporedattore dell’Eco di Bergamo, don Massimo Maffioletti. Una lunga lettera nel periodico della comunità: “Insofferenze per la legalità, le regole, le istituzioni. Confusione tra privato e pubblico, populismo come guida per le scelte politiche e stravolgimento del rapporto tra fede e politica” sono una serie di accuse precise contro Berlusconi e il berlusconismo. "L'eredità pesante che ci troviamo addosso da questa immagine a volte colta con un sorriso stupito è la diminuita capacità di comprendere la fondamentale distinzione tra i poteri dello Stato, cardine della democrazia occidentale e la necessità di un sistema delicato di equilibri e contrappesi tra il ruolo legislativo, esecutivo e giudiziario". La lettera così continua: “Mentre il cattolico dovrebbe mostrare per intero la propria appartenenza religiosa-etica nella sua testimonianza personale ed essere più indulgente verso gli altri cittadini e cercare una mediazione nella costruzione della legge che deve salvaguardare un bene di tutti, si ha nel berlusconismo la richiesta di una legislazione esigente e dura per la città di tutti (sullo stato terminale della vita e sull'accanimento terapeutico, sulle relazioni familiari, sulla prostituzione, sul consumo di coca...) e una pretesa indulgenza verso se stessi e la propria libertà personale. Le scelte di vita non sembrano per nulla interrogare il nostro rapporto con la religione”.

Alessandro Cortesi op

I DOMENICANI del Meridione E LE SFIDE di oggi (Giustizia e Pace)

Al link sotto indicato si può trovare il recente comunicato di Giustizia e Pace, formulato dai Frati Domenicani del Meridione d'Italia sulle urgenze del nostro Paese.

Palermo, 10 Agosto 2009

http://groups.google.it/group/giustizia-pace-integrita-del-creato/browse_thread/thread/983c4859fa3e215b?hl=it
__________________________________________________________________

IL POVERO NON E' UN CRIMINALE

Leggi qui http://www.giustiziaepace.it/index.php?option=com_content&view=article&id=63:il-povero-non-e-un-criminale&catid=9:relazioni-interne&Itemid=4 il comunicato che
, quali cittadini e cristiani,
abbiamo emesso in relazione a talune norme del disegno di legge c.d. sulla sicurezza, da poco approvato dal Senato della Repubblica.

Palermo, 7 Febbraio 2009

- Fra' Graziano Bruno o.f.m. , Moderatore di Giustizia e Pace per la Sicilia dei Frati Minori
- Francesco Lo Cascio, Movimento Internazionale per la Riconciliazione
- Salvatore Scaglia
, componente della Commissione nazionale di Giustizia e Pace della Famiglia Domenicana

__________________________________________________________

PETIZIONE contro la PEDOFILIA

Già i Romani avvertivano che "debetur puero maxima reverentia". Gesù Cristo, poi, è perentorio: "chi avrà scandalizzato uno di questi piccoli [...], meglio per lui sarebbe che gli fosse appesa al collo una macina da mulino e fosse gettato in fondo al mare" (Matteo 18, 6).

Firmiamo dunque in massa la petizione internazionale contro la pedofilia (sul sito sotto indicato), promossa dall'associazione Meter di Fortunato Di Noto, sacerdote di Avola (SR), da anni impegnato sul fronte della tutela dei bambini.

http://www.associazionemeter.org/index.php?option=com_content&task=view&id=63&Itemid=68

Palermo, 28 Settembre 2008
__________________________________________________________________

La chiesa di san Domenico a Palermo (pantheon dei siciliani illustri): nell'annesso convento - sul retro - si incontra la F.L.S.D.

L'obelisco dell'Immacolata, davanti alla chiesa, e il simulacro della Madonna del Rosario, all'interno, attribuito a Girolamo Bagnasco (prima metà XIX sec.)

Laici domenicani di Palermo e Catania a Caltanissetta, con la calotta cranica di San Domenico, nel Maggio 2009

AVVERTENZA

I blog che seguono (cui si può accedere col comando - in alto al centro - "blog successivo") non sono legati a questo sito, che rimane autonomo e indipendente quanto ai suoi contenuti.