20-2-2011 - VII Domenica del tempo ordinario - anno A
Lev 19,1-2.17-18; Sal 102; 1Cor 3,16-23; Mt 5,38-48
Omelia
Non coverai nel tuo cuore odio contro il tuo fratello…
Siamo al cuore del Levitico, un libro di difficile lettura, ricco di norme elencate in modo puntuale. La prima parte di questo libro indica una serie di rituali per eliminare impurità inconsapevoli che implicano l’incapacità da parte degli uomini di accogliere la presenza di Dio e di accostarsi a Lui. Il rituale una volta l’anno, nel giorno dell’espiazione, è sacrificio che elimina tutto quello che ancora è impuro. Dio stesso offre la possibilità di una riconciliazione per lasciar spazio alla sua presenza. Tutte queste norme non sono riconosciute come valide per i cristiani, e proprio in questo sta la difficoltà di questo testo. Ma esso può essere letto con la disponibilità a scoprire nelle osservanze rituali e di purità l’importanza di vivere un rapporto con Dio che segna la totalità e l’ordinarietà della vita. Le regole sul sacro e profano e le norme sul puro e sull’impuro sorte in un ambito sacerdotale ebraico mantengono un loro significato nell’orizzonte della fondamentale intuizione espressa in Es 29,45: “abiterò in mezzo ai figli d’Israele e sarò il loro Dio”.
Al cap. 19 il testo offre alcune indicazioni morali nell’orizzonte di essere ‘santi come Dio è santo’. Essere santi ha come significato il lasciarsi orientare da Dio nelle vicende del quotidiano. Ma è in particolare la parola sul rapporto con il prossimo che apre uno squarcio di novità: “Non coverai odio nel tuo cuore… amerai il tuo prossimo come te stesso”. Gesù riprenderà queste parole unendo questo precetto del Levitico con le parole del Deuteronomio (6,5): ‘amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore’.
I due momenti vanno sempre insieme, amare Dio e riconoscere il prossimo: scambiare Dio con idoli vani è orientamento che equivale a non vivere rapporti giusto con l’altro, con il prossimo.
Non è possibile – ci dicono questi testi – alcun rapporto con Dio senza riconoscimento e cura dell’altro. Laddove vi sia un covare odio nel cuore c’è lontananza e incomprensione del Dio che vuole l’incontro tra diversi. Dio è colui che tiene sempre conto del prossimo. Sta qui la radice del precetto al cuore del Primo testamento ‘Amerai il prossimo tuo come te stesso’. Una lettura ebraica suggerisce l’interpretazione: “Amerai il prossimo tuo. E’ come te stesso”: una interpretazione possibile dalle molteplici conseguenze.
La concretezza di queste parole si traduce nell’imperativo “tu amerai il forestiero, cioè l’immigrato residente, come te stesso…” Quando un forestiero dimorerà presso di voi nella vostra terra, non lo opprimerete. … tu l’amerai come te stesso perché anche voi siete stati forestieri in terra d’Egitto. Io sono il Signore vostro Dio”.
se amate quelli che vi amano, quale ricompensa ne avete? non fanno così anche i pubblicani?
Gesù non invita ad una perfezione che appare un ideale che genera ipocrisia nella vita e incapacità di riconoscere la fatica e il cammino, proprio e degli altri. L’invito ad essere perfetti è – come nel Levitico – apertura a lasciare spazio nella propria esistenza all’opera di Dio. E’ il suo amore che, solo, poco alla volta ci cambia e rende capaci di accettarci con le nostre imperfezioni e fatiche. E le rende luogo di crescita, di riconciliazione, e soprattutto di uno sguardo nuovo su di sé e sugli altri. Non covare odio, ma covare quanto si oppone all’odio, accoglienza, comprensione, dedizione concreta.
C’è un covare che fa rimanere nella sterilità, in se stessi e nel rapporto con gli altri. C’è un altro covare, che significa custodia e cura: è coltivare ciò che apre alla vita e si fa possibilità di accettare se stessi e gli altri. Certo, ciò non va confuso con quel moderatismo per cui non esiste capacità di giudizio, si scambia il bene con il male, non si prende mai parte in modo chiaro facendosi così complici dell’ingiustizia. Amare il nemico non è via per non reagire di fronte all’ingiustizia e alla sopraffazione, non è invito a non disturbare i potenti. L’amore non può essere scambiato con l’assuefazione e la sottomissione ai potenti. C’è un amore esigente che affronta il conflitto sa opporsi in modo radicale al male dentro di noi e fuori di noi. Non il quieto vivere senza conflitti è stata la via di Gesù, ma la coerenza fino in fondo ad uno stile di vita come accoglienza gratuità e servizio che ha suscitato l’opposizione e la reazione violenta. Gesù ha amato non perché si è piegato ad accettare la logica dei poteri, politico e religioso, che l’hanno condannato, ma ha amato conducendo fino alla fine la sua testimonianza.
Dalla parola alla preghiera
Donaci Signore di non covare odio, ma di lasciare spazio nel cuore a coltivare uno sguardo di solidarietà verso gli altri…
In un tempo di razzismo crescente aiutaci Signore ad essere testimoni che ogni uomo e donna è immagine di Dio e va guardata nella sua dignità e nella sua originalità…
Amare anche il nemico per trasformarlo in amico è la grande sfida dell’incontro: aiutaci Signore a vincere tutto quello che ci fa guardare l’altro come nemico e a coltivare i percorsi del dialogo…
Donaci Signore di vivere un amore capace di coraggio…
La Parola dei Padri
“… la vita solitaria oltre agli inconvenienti che abbiamo detto, presenta anche dei pericoli. Il primo, e il più grave, è la compiacenza di se stesso. Il solitario non ha chi possa dare un giudizio sul suo modo di agire, e quindi crederà di essere giunto alla perfezione nell'osservanza dei comandamenti. Inoltre, lasciando sempre inesplicate le sue capacità, non potrà conoscere i suoi difetti né constatare i progressi, perché non ha occasione di mettere in pratica i precetti. E infatti, come potrà egli dimostrare di essere umile, se non ha nessuno dinanzi al quale abbassarsi? Come potrà dimostrare la sua compassione verso gli altri, se vive separato dalla società? Come potrà esercitare la pazienza, se non c'è nessuno che si opponga al suo volere? Se poi uno dicesse che, per la riforma dei costumi, gli basta l'insegnamento della Scrittura, io gli risponderei che egli fa come chi impara a edificare, ma non costruisce mai; o impara l'arte del fabbro, ma non mette mai in pratica le norme imparate. A costui l'Apostolo potrebbe dire: "Non coloro che ascoltano la legge sono giusti dinanzi a Dio, ma coloro che la praticano saranno giustificati" (Rom 2,13). Anche il Signore infatti, per la sua grande bontà, non si ritenne pago di ammaestrarci con le parole ma, volendoci dare un esempio sublime di umiltà nella perfezione del suo amore, si cinse i fianchi con un asciugatoio e lavò i piedi dei discepoli. E tu, a chi laverai i piedi? Con chi ti mostrerai servizievole? Di chi ti farai ultimo se vivi da solo? Del resto, come si potrebbe, nella vita solitaria, realizzare la bellezza e la gioia del coabitare con i fratelli nella stessa dimora, cosa che lo Spirito Santo paragona all'unguento che esala profumo dal capo del gran sacerdote? (cfr. Sal 132/133,2). La coabitazione di più fratelli riuniti insieme costituisce dunque un campo di prova, una bella via di progresso, un continuo esercizio, una ininterrotta meditazione dei precetti del Signore. E lo scopo di questa vita in comune è la gloria di Dio, secondo il precetto del Signore nostro Gesù Cristo, che dice: "Risplenda la vostra luce dinanzi agli uomini, in modo che vedano le vostre opere buone, e diano gloria al Padre vostro che è nei cieli" (Mt 5,16)” (Basilio di Cesarea, Le Regole più ampie, Settima regola in forma estesa, tr. it. in Opere ascetiche, I, a cura di U. Neri, UTET, Torino 1980).
Uno spunto da…
“I padroni dell’iperimpero saranno le vedettes dei ‘circhi’ e delle ‘compagnie teatrali’: detentori del capitale delle ‘imprese-circo’ e dell’attivo nomade, strateghi finanziari o di impresa, a capo delle compagnie di assicurazioni e del tempo libero, architetti di software, creativi, giuristi, operatori di finanza, autori, designer, artisti, forgiatori di oggetti nomadi, li definisco qui ‘ipernomadi’. Saranno alcune decine di milioni, donne e uomini, dipendenti di se stessi, andranno vagando da ‘teatro’ a ‘circo’, concorrenti spietati, né impiegati né datori di lavoro, ma a volte esercitando più di un lavoro alla volta, gestendo la vita come un portafoglio di azioni. Attraverso una competizione molto selettiva, costituiranno una nuova classe creativa, un’’iperclasse’ che dirigerà l’iperimpero (…) Vorranno diventare più vecchi di tutti gli altri e per questo sperimenteranno tecniche che offriranno loro la speranza di raddoppiare la durata della vita. Si daranno a tutte le ricette di meditazione, di rilassamento e di apprendimento dell’amore di sé.
(…) non saranno fedeli che a se stessi, si interesseranno innanzitutto alle proprie conquiste, alle proprie cantine, ai propri autosorveglianti, alle proprie collezioni di opere d’arte, all’organizzazione della propria vita erotica e del proprio suicidio, piuttosto che all’avvenire della progenie, alla quale non trasmetteranno né fortuna né potere”.
(Jacques Attali, Breve storia del futuro, ed. Fazi 2007, 157-159)
Jacques Attali - consigliere di Mitterrand e primo presidente della Banca Europea per la ricostruzione e lo sviluppo, incaricato da Sarkozy di presiedere la commissione per i freni alla crescita - parte dalla domanda cosa accadrà nel 2060 e che cosa sta per accadere nei prossimi cinquant’anni. Legge i fenomeni già in sviluppo nel presente: il terrorismo e la globalizzazione, l’emergenza ambientale e l’esaurimento delle risorse energetiche. Ma il futuro si svilupperà secondo varie ondate: la prima ondata sarà caratterizzata dal sorgere dell’iperimpero, in cui la diffusione al mondo intero del mercato. Regioni ricche vorranno sbarazzarsi di regioni povere, gli Stati subiranno un processo di decostruzione: “quando le imprese – comprese quelle delle nazioni divenute padrone dell’ordine policentrico – riterranno che il sistema fiscale e il diritto loro applicabili non siano i migliori a cui possano aspirare trasferiranno i loro centri di decisione fuori dal proprio paese d’origine (…) A causa dell’assenza dello Stato, le imprese favoriranno pertanto sempre più i consumatori a discapito dei lavoratori, i cui redditi diminuiranno”. Nelle condizioni di ubiquità l’uomo di domani, nella condizione di nomade senza nessun tipo di contratto sociale vedrà l’altro solo come strumento per la propria felicità, un mero strumento in vista di denaro o piacere. “Ogni azione collettiva sembrerà impensabile, ogni cambiamento politico inconcepibile. La solitudine comincerà dall’infanzia”. Le vittime di questo ‘iperimpero’ saranno gli ‘infranomadi’ ed essi costituiranno anche le prime vittime della seconda ondata del futuro segnata dall’iperconflitto. Un conflitto che Attali vede generato contro l’ordine mercantile da parte dei laici che si rivolteranno contro la globalizzazione e la democrazia di mercato, ma anche suscitato dalla collera dei credenti che vedrà al centro di questa battaglia le due grandi ‘religioni proselitiste’ il cristianesimo e l’islam. Guerre di tipi diversi si svilupperanno con nuove e sofisticate armi frutto della tecnologia più avanzata
“Non ci sarà niente di impossibile: la tragedia dell’uomo è che, quando può fare qualcosa, finisce sempre per farla. Tuttavia, molto prima che l’umanità abbia in questo modo posto fine alla propria storia – o almeno vorrei poterlo credere -, il fallimento dell’iperimpero e il rischio dell’iperconflitto porteranno le democrazie a trovare una spinta sufficiente per sconfiggere i pirati e respingere le proprie pulsioni di morte”. Si apre così secondo Attali la terza ondata del futuro, quella dell’iperdemocrazia. Estesa a dimensioni del pianeta, vedrà il convergere di persone di tutte le condizioni nazionalità, culture e credo religiosi interrogarsi insieme sul futuro dell’umanità. Una nuova categoria di persone, i ‘transumani’ che metteranno insieme le loro forze per far sorgere imprese in grado di produrre beni essenziali, il primo dei quali è il ‘buon tempo’ in vista di una emarginazione progressiva della logica del mercato per costruire una economia relazionale e per costruire una intelligenza collettiva, differente dalla somma delle intelligenze dei singoli. L’esperienza dell’homo sapiens giungerebbe quindi non all’annientamento, ma al superamento a differenza delle altre ondate del futuro.
“I transumani metteranno in piedi, accanto ad un’economia di mercato in cui ciascuno si misura all’altro, un’economia dell’altruismo, della disponibilità gratuita, del dono reciproco, del servizio pubblico, dell’interesse generale. Questa economia, che definisco relazionale, non obbedirà alle leggi della scarsità: dare conoscenza non ne priva colui che ne fa dono”.
Attali nell’edizione italiana del suo libro aggiunge alcune brevi pagine sull’Italia e osserva: “Nel complesso l’Italia ha cessato di essere il ‘cuore’ nel momento in cui il mondo si rovesciava verso l’Atlantico, perché i cuori italiani hanno smesso di aderire alle leggi della storia del futuro che ho qui descritto (…) l’Italia si trova in una posizione geografica cruciale: all’incrocio tra l’Europa, l’Africa e il Medio Oriente mediterraneo, e potrà sviluppare un potenziale di crescita immenso se saprà approfittare di questa triplice appartenenza. Se saprà fondersi in tre insiemi senza disperdersi in minuscole province”.
Attali guarda al futuro cercando di mostrare che l’umanità non è condannata ad autodistruggersi secondo le vie del mercato, della scienza, della guerra o secondo quelle della stupidità.
Forse sarebbe da osservare che questi processi non possono essere pensati come dinamismi spontanei, ma come frutto di una responsabilità che sorga da cuori decisi a rompere la catena dell’odio, del disprezzo dell’altro, disponibili a coltivare non odio ma ospitalità.
Dalla Parola alla vita…
La Parola provoca la vita e la vita interroga la Parola. Tre ambiti di vita questa settimana mi sembrano luoghi in cui la Parola interpella profondamente la storia che stiamo vivendo:
- il rapporto con l’altro si scontra con le varie forme di discriminazione e razzismo, in particolare con i rom, vero capro espiatorio delle nostre società. Non coltivare odio… amare lo straniero appaiono così parole che si caricano di una urgenza e di una attualità unica.
- La manifestazione nelle città d’Italia per la dignità della donna ha riportato in primo piano il rapporto tra diversi, uomo e donna chiamati a riconoscersi nella dignità e non logica della strumentalizzazione o della schiavizzazione.
- Viviamo una stagione in cui si manifestano in modi drammatici gli esiti di una pseudo-cultura, definibile come il berlusconismo, che ha permeato visioni e comportamenti degli italiani. Alcune voci si levano anche per richiamare la responsabilità della chiesa a non essere connivente a tali orientamenti. ‘Amare’ implica anche capacità di reagire con coraggio e con assunzione di responsabilità.
1.
E’ sorprendente la facilità con cui certi messaggi di autentica coltivazione dell’odio trovano oggi diffusione. Lo si è constatato nella vicenda dei quattro fratellini rom morti in un rogo in un campo nomadi a Roma. Non coltivare l’odio del cuore si rivela così indicazione estremamente attuale. Ma dove stanno le radici dell’odio? Affondano in un humus di paura e di non conoscenza. Paura e ignoranza che esigono di essere elaborate e superate. Affondano anche in una serie di stereotipi utilizzati ad arte per barricarsi nel rifiuto ad incontrare l’altro e a lasciarsi provocare a ripensare se stessi nell’incontro.
Riporto in seguito ampi stralci di due illuminanti interventi di Giovanni Paci (10 febbraio 2011): “‘Anche il mio cane ha imparato a fare la pipì sul muro. Loro no. Ci odiano, non vogliono lavorare e sono sporchi. La loro integrazione è impossibile’. Serata memorabile martedì sera durante la trasmissione radiofonica ‘La zanzara’ su Radio24. Spalleggiata dall’intervento della quasi totalità degli ascoltatori intervenuti, Tiziana Maiolo, politica di lungo corso, ex radicale, ex comunista, ex berlusconiana e ora, a quanto pare, dopo questa straordinaria uscita, ex finiana ha pronunciato queste parole sostenuta da un divertito Cruciani, il conduttore, che ha dichiarato: ‘Vorrei averla qui tutte le sere’. Davanti alla morte di quattro bambini, una parte d’Italia non trova di meglio che riproporre la litania del ‘mandateli a casa loro’ ignorando che, per molti, ‘casa loro’ è il nostro paese e per altri, la casa è il posto disposto ad accoglierli, un posto sempre più raro in questa Europa impaurita e ignorante. La valanga di luoghi comuni e di stereotipi che circonda la popolazione nomade è disarmante. L’odio nei suoi confronti non ha pari nella storia dell’umanità. I nomadi sono il capro espiatorio per eccellenza. Essi ci rappresentano quotidianamente le nostre paure, ce le ricordano agli angoli della strada, le materializzano nel loro stile di vita” (l’intero articolo in http://www.agoravox.it/I-cani-si-integrano-i-nomadi-no.html).
“Nessuna prova di integrazione sposta di un millimetro la considerazione negativa di cui godono tra tutti gli strati sociali, in tutte le aree geografiche. Non importa se non è vero che tutti rubano, non importa se, in molte realtà, politiche sociali serie hanno permesso ad alcuni di affrancarsi dalla miseria e dall’emarginazione trovando un lavoro o conseguendo un titolo di studio. Non importa, sono zingari e questo basta. Nemmeno i corpi carbonizzati di quattro bambini muovono a un gesto di pietà, di dubbio, di compassione: non erano bambini, erano bambini nomadi. Devono andarsene via, questa è l’unica soluzione. Eppure la loro funzione sociale è evidente. Essi catalizzano l’odio provocato dalla paura, dalla nostra solitudine, dalla tristezza delle nostre vite sempre più rinchiuse dentro fragili mura impastate di incapacità di aprirsi all’altro, di capire gli uomini e il mondo. Se i nomadi non ci fossero, qualcuno dovrebbe prendere il loro posto per farci sentire i ‘normali’, i ‘puliti’, ‘gli onesti’. Se loro non ci fossero, dovremmo trovare qualcun altro, qualcuno molto diverso da noi e questo non è semplice. I diversi, i deboli, sono necessari: servono a farci sentire normali e forti. Per questo, se i nomadi non ci fossero sarebbe minata alla base la convivenza nelle nostre “moderne” società. Essi rappresentano quello che non vogliamo essere: non hanno una casa stabile e sicura, non si preoccupano più di tanto del loro futuro, non hanno nel lavoro il centro della loro esistenza, si vestono come non ci vestiremmo mai, vivono dei soldi degli altri. Non importa se questi sono sempre più spesso stereotipi, non importa se molti di loro non sono così, non importa se come tutte le comunità umane hanno al loro interno diversità di idee, ambizioni, sogni. Non importa se corriamo il rischio di cadere nel ridicolo accusandoli di illegalità, di trattare male i bambini, di non voler lavorare; in un paese in buona parte privato della legge dello stato, in cui il lavoro nero e l’evasione sono a livelli sconosciuti nel resto del mondo sviluppato, in cui i più piccoli e le donne sono quotidianamente oggetto di violenze e abusi tra le mura delle villette a schiera delle nostre città pulite e progredite. Noi abbiamo bisogno di crederli così, loro devono essere così perché regga la nostra sempre più fragile costruzione sociale. Se non ci fossero loro a chi toccherebbe essere individuato come diverso?” (intero articolo in http://www.camminandoscalzi.it/wordpress/in-morte-di-quattro-bambini-rom.html)
2.
Alla manifestazione del 13 febbraio ‘Se non ora quando’, manifestazione organizzata per chiedere di difendere la dignità delle donne in un momento in cui la presenza della donna viene degradata e resa unicamente oggetto di utilizzo da parte di chi detiene soldi e potere, a Roma a piazza del Popolo è intervenuta suor Eugenia Bonetti, missionaria della Consolata, vissuta in Africa per 24 anni, dal 1993 impegnata in un centro Caritas di Torino dove opera per il recupero di tante donne vittime della tratta per la prostituzione e lo sfruttamento:
“Sono qui per dare voce a chi non ha voce, alle nuove schiave, vittime della tratta di esseri umani per sfruttamento lavorativo e sessuale, per lanciare un forte appello affinché sia riconosciuta la loro dignità e ripristinata la loro vera immagine di donne, artefici della propria vita e del proprio futuro. A nome loro e nostro, che ci sentiamo sorelle e madri di queste vittime, diciamo basta a questo indegno e vergognoso mercato del mondo femminile. (…)
Non possiamo più rimanere indifferenti di fronte a quanto oggi accade in Italia nei confronti del mondo femminile. Siamo tutti responsabili del disagio umano e sociale che lacera il Paese.
E’ venuto il momento in cui ciascuno deve fare la sua parte e assumersi le proprie responsabilità.”
E’ stata una voce che però non ha trovato espressioni di sostegno e di accompagnamento in altre voci da parte della gerarchia della chiesa. Così osserva Marco Politi (Il vaticano temporeggia ma i cattolici lo mollano, “Il Fatto quotidiano” 17 febbraio): “Il 13 febbraio la gerarchia ecclesiastica ha mancato un appuntamento, a cui bisognava rispondere con un sì o un no. L’onore della Chiesa è stato salvato da una donna, suor Eugenia Bonetti. Il suo grido contro l’ideologia della donna-usa-e-getta e le “notizie di cronaca, che si susseguono in modo spudorato e ci sgomentano” è stato accolto da boati di applausi in piazza del Popolo a Roma. Ma è riecheggiato nel silenzio tombale della gerarchia ecclesiastica. Non uno dei vescovi e cardinali, sempre pronti a sentenziare sulla moralità della società, ha detto una parola”.
Altre voci che provengono da chi opera sulle frontiere della cura alle persone si sono levate, come quella di un’altra donna, suora, che opera a Caserta e anch’essa portatrice di un impegno condotto in modo nascosto insieme a tante altre, espressione di un amore esigente e coraggioso: “Da anni, insieme a tre mie consorelle (suore Orsoline del S. Cuore di Maria), sono impegnata in un territorio a dire di molti ‘senza speranza’. Un territorio, quello casertano, dove anche la piaga dello sfruttamento sessuale è assai presente (...). Oggi, osservando il volto di Susan chinarsi e illuminarsi in quello del suo piccolo Francis, ripensando alla sua storia - a 16 anni si è trovata sulle nostre strade come merce da comprare - sono stata assalita da un sentimento di profonda vergogna, ma anche di rabbia.
Ho sentito il bisogno, come donna, come consacrata e come cittadina italiana, di chiedere perdono a Susan per l'indecoroso spettacolo a cui tutti stiamo assistendo (...).
Sono sconcertata nell'assistere come da ‘ville’ del potere alcuni rappresentanti del governo, in un momento di cosi grave crisi, offendano, umilino e deturpino l'immagine della donna. Inquieta vedere esercitare un potere in maniera così sfacciata e arrogante che riduce la donna a merce e dove fiumi di denaro e di promesse intrecciano corpi trasformati in oggetti di godimento. L'indignazione è grande!
Come non andare con la mente all'immagine di un altro ‘palazzo’ del potere, dove circa duemila anni fa al potente di turno, re Erode, il Battista gridò: ‘Non ti è lecito, non ti è lecito!’. A nome di Susan, sento di alzare la mia voce e dire ai nostri potenti, agli Erodi di turno, non ti è lecito! Noti ti è lecito offendere e umiliare la ‘bellezza’ della donna; non ti è lecito trasformare le relazioni in merce di scambio; e soprattutto oggi non ti è lecito soffocare il cammino dei giovani nei loro desideri di autenticità, di bellezza, di onestà. Tutto questo è il tradimento del Vangelo, della vita e della speranza!
Ma davanti a questo spettacolo una domanda mi rode dentro: dove sono gli uomini, dove sono i maschi? Poche sono le loro voci, anche dei credenti, che si alzano chiare e forti. Nei loro silenzi c'è ancora troppa omertà, nascosta compiacenza e forse sottile invidia. Credo che dentro questo mondo maschile, dove le relazioni e i rapporti sono spesso esercitati nel segno del potere, c'è un grande bisogno di liberazione. E allora grazie a te, Susan, sorella e amica, per aver dato voce alla mia e nostra indignazione, ora posso, come donna consacrata e come cittadina, guardarti negli occhi e insieme al piccolo Francis respirare il profumo della dignità e della libertà” (Suor Rita Giarretta, della comunità di accoglienza Rut di Caserta – ‘La Repubblica’ 31.01.2011)
3.
Barbara Spinelli (La fattoria degli italiani, “La Repubblica” 16 febbraio 2011) richiama alla fondamentale questione del rispetto della separazione dei poteri e di non intendere il potere svincolato da controlli e illimitato, ma richiama anche al silenzio della chiesa sui temi dell’etica pubblica: “Quando Berlusconi decreta che la sua condizione di indagato è decisa solo dalle urne dice qualcosa di affatto indigesto per i liberali, perché la sovranità popolare senza separazione dei poteri e sottomissione alla legge di ciascuno (popolo, governi, chiese) è la volontà della maggioranza, e di poteri che pretendendo rappresentare un tutto diventano paralleli, rivali dello Stato. Tocqueville li riteneva letali, in democrazia: "Esiste una sorta di libertà corrotta, il cui uso è comune agli animali e all'uomo, e che consiste nel fare tutto quel che piace. Questa libertà è nemica di ogni autorità: sopporta con impazienza ogni regola. Con essa, diventiamo inferiori a noi stessi, nemici della verità e della pace". Sono anni che discutiamo di questo in Italia: se la legge abbia ancora un significato, se la morale pubblica sia una bussola o una contingenza. È ora di deciderlo e chiudere la discussione.
Il bersaglio di chi si ribella a simili vincoli è la morale (per i poteri ecclesiastici è la laicità), descritta come sovversiva, giacobina. Ma anche qui l'equivoco è palese: nello stesso momento in cui si atteggiano a anticonformisti minoritari, i ribelli si riscoprono giacobini tutori di valori morali non negoziabili, e con tutta la forza della maggioranza negano al singolo la libertà di morire naturalmente, non attaccato alle macchine. Tanto più grave il silenzio della Chiesa sull'etica pubblica. In fondo questa dovrebbe essere l'occasione di far vedere che il suo spazio nella pòlis non è paragonabile a quello di cricche e cose nostre. Se vuol rinascere, la Chiesa non può non rompere con Berlusconi, a meno di non divenire anch'essa potere sfrenato e parallelo. L'appello di Bagnasco a ‘più trasparenza’ è tardivo e inadeguato”.
Altre voci, dalle periferie, si levano con lucidità di analisi e proposta: tra altre la voce di una comunità di Longuelo insieme al suo parroco già vice caporedattore dell’Eco di Bergamo, don Massimo Maffioletti. Una lunga lettera nel periodico della comunità: “Insofferenze per la legalità, le regole, le istituzioni. Confusione tra privato e pubblico, populismo come guida per le scelte politiche e stravolgimento del rapporto tra fede e politica” sono una serie di accuse precise contro Berlusconi e il berlusconismo. "L'eredità pesante che ci troviamo addosso da questa immagine a volte colta con un sorriso stupito è la diminuita capacità di comprendere la fondamentale distinzione tra i poteri dello Stato, cardine della democrazia occidentale e la necessità di un sistema delicato di equilibri e contrappesi tra il ruolo legislativo, esecutivo e giudiziario". La lettera così continua: “Mentre il cattolico dovrebbe mostrare per intero la propria appartenenza religiosa-etica nella sua testimonianza personale ed essere più indulgente verso gli altri cittadini e cercare una mediazione nella costruzione della legge che deve salvaguardare un bene di tutti, si ha nel berlusconismo la richiesta di una legislazione esigente e dura per la città di tutti (sullo stato terminale della vita e sull'accanimento terapeutico, sulle relazioni familiari, sulla prostituzione, sul consumo di coca...) e una pretesa indulgenza verso se stessi e la propria libertà personale. Le scelte di vita non sembrano per nulla interrogare il nostro rapporto con la religione”.
Alessandro Cortesi op