4-4-2010 - Domenica di Pasqua – Anno C
At 10,34a.37-43; 1Cor 5,6b-8; Gv 20,1-9
Omelia
“Non sapete che un po’ di lievito fa fermentare tutta la pasta? Togliete via il lievito vecchio, per essere pasta nuova, poiché siete azzimi”.
La Pasqua si colloca tra levito vecchio e lievito nuovo. Lievito vecchio rinvia a quel gioco familiare tutt’ora in uso nelle famiglie ebraiche nell’approssimarsi della primavera, il tempo della pasqua. Quando la pasqua si avvicina è il momento delle pulizie per la festa e ai bambini si dà il compito di trovare, quasi come in una caccia al tesoro tra le mura e gli angoli di casa, frammenti di lievito nascosti che devono essere poi eliminati. Perché a pasqua il pane non lievitato, cotto in fretta, prima della partenza è segno e memoria del partire in fretta al momento dell’esodo. E’ ricordo del pane di chi parte senza altra sicurezza se non la promessa di Dio che ha ascoltato il grido del suo popolo dalla schiavitù ed è sceso a liberarlo.
Il lievito vecchio è ciò che può far fermentare tutto in modo sbagliato, può far dimenticare la novità racchiusa nel passaggio della pasqua, passaggio dalla schiavitù alla libertà, dalla disgregazione alla scoperta di essere popolo, dall’anonimato di chi è schiavo senza nome al riconoscimento di essere guardati con amore e cura, chiamati ad un cammino di alleanza per tutti i popoli.
Ma c’è anche un lievito nuovo: è lievito di una pasta nuova: “Il regno dei cieli si può paragonare al lievito che una donna ha preso e impastato con tre misure di farina perché tutta si fermenti”. Il regno dei cieli, quel regno che non sta nei cieli ma è iniziato qui sulla terra è come lievito: è dentro alla pasta della nostra storia, è presente nei cuori e nelle attese, soprattutto dei poveri. Questo lievito sono tutte le scelte, le parole, le azioni di chi vive nell’orizzonte indicato da Gesù, secondo una vita che si fa spazio per gli altri, attenzione ai più deboli, accoglienza piena della volontà del Padre, critica e contrapposizione alle ingiustizie generate da una religiosità falsa che si fa politica e da una politica che s’identifica in una fede assoluta e rende schiavi. Lievito è ogni affidamento nella sventura e speranza che la vita abbia un senso custodito da Dio oltre la morte stessa e che tutto ciò che è stato compiuto qui sulla terra nella prospettiva di un amore che si dà e si fa pane spezzato per gli amici non va perduto, ma rimane per sempre.
Festeggiare la pasqua sta tra in questa tensione: tra lievito vecchio e lievito nuovo, tra pasta vecchia e pasta nuova, tra pane rinsecchito dell’egoismo e del ripiegamento e pane fragrante che può essere spezzato e condiviso.
“In quello stesso giorno, due dei discepoli erano in cammino per un villaggio di nome Emmaus… e conversavano tra loro di tutto quello che era accaduto…”
Emmaus è villaggio dell’incontro, e di incontri diversi. Due erano in cammino, in un cammino di delusione, di sfiducia e di allontanamento. E’ avvenuta la rottura della morte di Gesù: il sogno di seguirlo si è infranto. Davanti si ripresenta una quotidianità senza luce e senza sogni. Eppure almeno quei due si incontrano e camminano insieme. Emmaus è il cammino del conversare: erano due e si interrogavano. C’è una lieve luce nella loro tristezza: la portavano insieme. Ne parlavano. Ed in questo loro discorrere uno sconosciuto si fa compagno del loro interrogarsi, si fa presenza tra le loro parole, quasi a dire che là dove c’è un dialogo la Parola si rende presente. Non lo conoscono: diviene terzo di un percorso in cui solo fa domande, e richiama a far memoria. E ne nasce un racconto. Fa emergere una fiducia ed una vita per il momento solo ricordata con passione che si rinnova, ed è espressa con rimpianto, come cosa conclusa, per sempre, da lasciare nell’armadio dei ricordi e dei sogni falliti. Il racconto fa riporre al loro posto i tasselli della speranza, uno accanto all’altro, e le attese e le parole delle donne e quelle parole dei messaggeri, testimoni che affermano che egli è vivo. Sulle labbra dei due pellegrini tristi, inconsapevolmente, si fa spazio l’annuncio incredibile e che può aprire ad una vita nuova: egli è vivo, colui che hanno condannato a morte e hanno crocifisso. Il medesimo, egli è vivo. Ed il loro compagno li guida allora a scorgere come quella presenza non appartiene al passato, non è voce incredibile di un’alba ancora buia prima del sorgere del sole: ma è incontro possibile, è storia nuova, al presente, che si fa esperienza di incontro e amicizia. Cominciando da Mosè e dai profeti spiegò loro... Sono tolte le pieghe di una storia che è storia di promessa e di incontro, non una storia di altri ma una storia che diviene la propria, in cui ci si scopre coinvolti. E la sua presenza inizia ad essere avvertita come importante: resta con noi, perché si fa sera. Non solo le Scritture, come luogo in cui ritrovare la gioia dell’incontro, ma anche il gesto: lo spezzare il pane. Quel gesto compiuto tante volte non nella solennità del rito, ma nella quotidianità della condivisione, quando il pane non batsava per tutti e fu spezzato e distribuito, quando il pane era sui tavoli semplici delle case, quel pane spezzato a Gerusalemme nella cena, prima dell’arresto e del processo e della condanna. Allora si aprirono loro gli occhi. Credere che egli è vivo è esperienza di vedere con occhi nuovi: tutto attorno resta uguale ma tutto è visto in modo nuovo. Tutto sta sotto il segno dell’incontro e di una presenza. Ma ancora non basta: perché i due ritornano. Ritornano a quella comunità che aveva camminato con Gesù, il profeta di Nazaret. Ritrovano gli undici e ‘narravano ciò che era accaduto per via e come l’avevano riconosciuto nello spezzare il pane’. E’ un incontro che non rende dei privilegiati, dei rinchiusi, ma spinge ad incontrare altri. Porta a scoprire che anche altri, in modi diversi, hanno vissuto quel ‘darsi ad incontrare del Risorto’ che non è iniziativa loro, ma li ha sorpresi. Ed hanno visto i loro occhi aprirsi, per poter raccontare, per poter dire della via, per poter percorrere d’ora in poi altre e nuove vie. Per poterlo incontrare ancora là dove è spezzato e condiviso il pane, della parola, della vita, della quotidianità.
Uno spunto da…
“Dipinsi in fretta, travolto da uno strano impeto di energia. Per tutto il dolore che hai sofferto, mamma. Per tutto il tormento dei tuoi anni passati e futuri, mamma. Per tutta l’angoscia che questo quadro di dolore ti causerà. Per l’inesprimibile mistero che mette al mondo padri e figli buoni e permette che una madre li veda azzannarsi. Per il Padrone dell’Universo il cui mondo di sofferenza io non capisco. Per i sogni di terrore, per le notti d’attesa, per i ricordi di morte, per l’amore che ho per te, per tutte le cose che ricrodo, per tutte le cose che dovrei ricordare ma che ho dimenticato, per tutte queste cose ho creato questo quadro – io, un ebreo osservante che lavora su una crocefissione perché nella sua tradizione religiosa non esiste alcun modello estetico al quale far risalire un quadro di angoscia e di tormento estremi. Non ricordo quanto tempo mi ci volle a fare quel quadro. Ma in un giorno di pioggia estiva , che rinfrescò le strade e gocciolò in rivoli attraverso la mia finestra, il quadro era finalmente completato. Lo guardai e vidi che era un buon quadro. Lo lasciai sul cavalletto e sotto la pioggia andai alla yeshivah, cenai e pregai.” (Chaim Potok, Il mio nome è Asher Lev, Garzanti, rist. 2009)
Asher Lev è un bambino nato recando in sé un dono, straordinario e inquietante. Il suo talento si fa notare sin dalla sua infanzia. Ha la pittura nel sangue e disegna da quando ha sei anni. Il suo sogno è poter diventare un artista, ed esprimere per mezzo della pittura quanto ha nel cuore, i suoi sentimenti, anche con tutta la loro ambivalenza. Ma ciò che egli prova come energia di vita si scontra con la sua tradizione religiosa e con la famiglia e la comunità da cui proviene. E’ membro infatti di una famiglia che appartiene ad una comunità osservante ebraica chassidica nella Brooklyn negli anni ’50. Si tratta della comunità dei Ladover, proveniente dalla Polonia, profondamente tradizionalista nella sua visione religiosa e nei comportamenti. Asher stesso è figlio di uno dei più stretti collaboratori del Rebbe, il capo religioso della comunità, spesso obbligato a fare lunghi viaggi e ad essere lontano da casa. Quando Asher ha sei anni un suo zio, fratello della mamma, che aiutava gli ebrei Ladover a fuggire dalla Russia, viene ucciso gettando la madre in uno stato di depressione profonda.
Asher avverte come la pittura per lui non è solo una attività ma proviene da una forza interiore che gli fa sentire ciò che egli dipinge. Eppure percepisce anche la lacerazione che tale tendenza provoca in lui in contrasto con le idee del padre che vede la pittura come un’attività profana e diabolica, contrapposta alla tensione religiosa che occupa ogni ambito dell’esistenza.
Un giorno Asher visita un museo e la sua immaginazione rimane estasiata a catturata da pitture che raffigurano la crocifissione e la nudità del Cristo sulla croce con cui egli per la prima volta viene a contatto. Tornato a casa chiede con insistenza alla madre di cosa si tratti e incontra l’imbarazzo totale di lei nel rispondergli, anche perché la crocifissione è un tema tabù nella comunità Ladover di Brooklyn. La madre viene così ad assumere la posizione di chi si trova in mezzo al dramma ed alla lacerazione profonda che segna la vita di Asher. Ella per prima si consuma per tenere uniti il figlio e il padre pur avvertendo la drammatica contrapposizione.
Tuttavia il Rebbe della comunità comprende che la propensione artistica di Asher adolescente, che egli avverte come dono di natura, non può essere arginata e lo indirizza, benché contro i desideri del padre, a seguire le lezioni di uno dei più grandi artisti di New York, Jacob Kahn. Questi da subito parla al giovane Asher dicendogli che entrare nel mondo dell’arte è come entrare in una religione chiamata pittura. Studia presso Jacob Kahn per cinque anni ed in questo tempo vive dentro di sé la tensione tra i mondi a cui appartiene, il mondo della tradizione giudaica e il mondo dell’arte, la tradizione e la modernità, la comunità e il suo sentire individuale. Vive la profonda opposizione del padre alla sua arte e nel medesimo tempo sente anche l’incoraggiamento del Rebbe a seguire la sua chiamata. Ha modo di uscire dal mondo della comunità di Brooklyn e si reca in Europa, a Firenze Roma, Parigi, rientrando a Brooklyn ormai con una carriera di pittore affermato e riconosciuto.
Divenuto un grande artista decide di affrontare la sfida di misurarsi con quell’immagine che così fortemente gli era rimasta impressa, quella del crocifisso. Dipinge, in violazione delle determinazioni della comunità dei Ladover, un crocifisso ed anziché ripresentare il volto del crocifisso, dipinge la figura sulla croce con il volto della madre devastata dalla malattia. E’ una raffigurazione che segna la sua scelta di perseguire la sua chiamata artistica e provoca un dissidio profondo con la comunità osservante che chiede ad Asher di allontanarsi da Brooklyn. Ma è anche un’immagine che evidenzia il dramma di Asher ed il suo libero confrontarsi di fronte all’immagine del crocifisso: Asher è eterodosso di fronte alla sua comunità di origine, contrapposto e non compreso nei confronti del padre, ed eterodosso nei confronti di quella stessa immagine del crocifisso. Egli la vede trasfigurarsi nel volto di colei che si è sacrificata per tenere insieme padre e figlio, esigenze della comunità e vocazione dell’individuo. Agli occhi di Asher la madre è sofferenza vivente, si è sacrificata sulle linee di frattura di mondi e di visioni della vita. La sua raffigurazione, che va contro il sospetto, coltivato nella sua comunità, per i percorsi dell’arte, è forse la più fedele attuazione del carattere destabilizzante della croce di Cristo, nei confronti di ogni religione, del cristianesimo stesso, ed il volto di Cristo diviene volto che si fa incontrare vicino, diviene volto di una donna ebrea, madre umana e malata, sofferente sulla croce.
Dalla Parola alla vita
Nelle ultime settimane è emerso in modo eclatante lo scandalo dei numerosi casi di pedofilia all’interno della chiesa e perpetrati da preti, scandalo già venuto alla luce da vari anni negli USA e che ultimamente ha rivelato proporzioni rilevanti anche in molti paesi europei, in particolare in Irlanda e Germania, in parrocchie ed istituti di educazione. Fino alla lettera del Papa alla chiesa d’Irlanda dei giorni scorsi che se da un lato prende posizioni chiare sulla scelta di considerare la gravità della situazione e di favorire scelte non di copertura ma di radicale cambiamento offre una analisi che non aporofondisce le cause e presenta percorsi di superamento estremamente inadeguati di fronte alla gravità e complessità della situazione (http://www.corriere.it/cronache/10_marzo_20/lettera-papa-chiesa-irlanda_351a93bc-340f-11df-95ee-00144f02aabe.shtml ).
Tra tante analisi e osservazioni riporto tre brani di due recenti articoli che mi sembrano evidenzino alcuni aspetti importnati da considreare in una riflessione che dovrebbe far assumere un atteggiamento di richiesta di perdono innanzitutto, di ripensamento di tanti aspetti della formazione e dei modelli di vita dei preti e delle modalità in cui la gerarchia ecclesiastica si pone oggi nel contesto sociale.
Franco Barbero, Pedofilia nella chiesa: tamponare o convertirsi?“Adista” - Notizie – n. 28, 3 aprile 2010
“La cronaca continua a disseppellire questi episodi di pedofilia. L’elenco si allunga giorno dopo
giorno e noi riusciamo a stento a percepire adeguatamente i danni, le angosce, le sofferenze inflitte
alle vittime di queste violenze.
(…)
1) In queste settimane, mentre si cerca di ristabilire verità e giustizia, molti membri della gerarchia si sono posti in un atteggiamento difensivo che potrebbe nascondere la volontà di minimizzare quanto è accaduto. È una "liturgia" consunta prendersela con la liberazione sessuale, tirare in ballo una presunta campagna diffamatoria, una strategia pianificata ai danni della Chiesa cattolica, cercare le trame oscure del complotto. Non mancano, in verità, gesti e voci che nel popolo di Dio invitano a cambiare strada dimostrando di aver capito che il bene delle persone è più importante della reputazione dell’istituzione ecclesiastica. È chiaro però che la regola romana della segretezza, confermata da papa Ratzinger per molti anni, ha favorito l’irresponsabilità e la copertura di questi abusi.
2) Temo che le gerarchie cattoliche vogliano "fare pulizia" e "passare ad altro", cioè chiudere il più presto possibile "l’incidente" con qualche documento e qualche provvedimento d’urgenza. Non sto negando la necessità e l’utilità di alcune dichiarazioni e di provvedimenti immediati. Ma si può rischiare di perdere in tal modo un’altra occasione per un ripensamento ben più ampio e radicale. L’intero "capitolo" della sessualità, dei sentimenti, della corporeità, del celibato obbligatorio dei preti, del posto della donna nella Chiesa e della bioetica va ripensato. Senza questo coraggio di guardarsi dentro, violentati i minori e abbandonati i "mostri" alla loro disperazione e alla loro malattia, l’istituzione Chiesa potrebbe solo presumere di presentarsi come pulita e sana. Ma sarebbe illusorio, ipocrita e devastante, perché non farebbe che fotografare una realtà ecclesiale incapace di rigenerarsi. È la percezione di questo stile ecclesiastico che lascia insoddisfatti quanti esigono dalle gerarchie cattoliche una piena ammissione delle loro connivenze e delle loro complicità. (…)
Francesco Paolo Casavola, La forza della verità, “il Messaggero” 26 marzo 2010
“(…) Lo scandalo dei preti pedofili, che sta attraendo l’attenzione dell’opinione pubblica internazionale, va presentando diversi profili quanto ai suoi effetti. Il primo è quello di suscitare indignazione e allarme generale per la sorta di minori, che portano poi nell’età adulta e fino alla fine della vita il marchio indelebile di una esperienza subita di depravazione e di violenza. La pietà qui si combina con la richiesta della massima possibile tutela della integrità dei minori. La punizione dei colpevoli perché eserciti una funzione preventiva di deterrenza deve essere tempestiva, e considerata credibile ed affidabile solo se realizzata dall’autorità civile. (…) Quando si violano diritti nella persona di cittadini deve intervenire l’autorità civile. La Chiesa dovrebbe ritrarsi dinanzi ad una competenza altrui. Quanto ai sacerdoti colpevoli, fermo restando che trasferimenti, isolamenti, esoneri dalle funzioni sono misure motivate dall’intento di preservare con il segreto la dignità del sacerdozio, parti non minime dell’opinione pubblica, raggiunta sia dalla cultura laica che libera, sia da quella maturata nella tradizione cristiana, ritengono che essi siano sconfessati dai loro propri comportamenti, di cui devono render conto fuori della comunità da cui non sono più degni di ricevere ulteriore tutela. Forse occorreranno predisposizioni di nuove norme canoniche o di governo pastorale, forse no. La Chiesa è vissuta, lungo i millenni del suo cammino, anche di persuasioni morali delle moltitudini che hanno in lei creduto. Le società del mondo contemporaneo sono le meno idonee a rispettare i segreti. La verità non può nascondere la realtà. Se taluno immagina di servire la verità, tacendo la realtà, si rende responsabile di un errore contro la verità, esponendosi ad un giudizio di riprovazione della comunità di fede, senza appello. Svilendo nel contempo l’autorità della Chiesa come maestra di verità e di vita, anche nelle coscienze dei non credenti.”
Alessandro Cortesi op