11-4-10 - II Domenica di Pasqua
At 5,12-16; Ap 1,9-11.12-13.17-19; Gv 20,19-31
Omelia
“perché hai veduto hai creduto: beati quelli che pur non avendo visto crederanno”
Il cammino di Tommaso è il cammino di ogni credente. Non è un cammino lineare, è percorso fatto di dubbi, di incertezze, di domande. E’ vicenda che mette insieme passi personali e rapporti comunitari soprattutto vive di un rapporto personale con il Risorto che si dà ad incontrare e accompagna a riconoscerlo non in visioni di tipo magico, ma in un ‘vedere’ profondo, di tipo nuovo. E’ un percorso che passa dalla pretesa di ‘vedere’ all’arrendersi di fronte ad un credere che non si fonda sui segni ma si apre alla condivisione e all’accoglienza della testimonianza, di chi ha sperimentato la presenza di Gesù vivente che ha vinto la morte. C’è vedere e vedere. C’è un vedere che non porta a credere, ma che si ferma alla superficie e non si apre a leggere i segni. E c’è un vedere che si apre al credere fino a non aver bisogno dei segni ma fondandosi unicamente sulla testimonianza, lasciandosi avvolgere da una luce che illumina gli occhi e si ripropone come possiblità di incontro personale nell’affidamento. Il credere stesso, l’affidarsi a lui diviene allora vedere se stessi, gli altri le cose in modo nuovo. Nulla cambia eppure tutto è visto con una luce nuova che fa scorgere dimensioni inesplorate della vita. C’è vedere e vedere. L’incontro con il risorto non si connota come evidenza che sospende la libertà degli apostoli o che supera l’esigenza fondamentale dell’amore, l’affidamento proprio del credere la fatica e la prova. Credere nel risorto passa attraverso una faticosa ricerca, ha bisogno di essere condotto da Gesù stesso che si dà a vedere, o meglio, si dà ad incontrare. C’è un vedere che richiede continue verifiche e misure. Gesù non rifiuta di offrire a vedere dei segni: sono i segni dei chiodi, i segni della sofferenza e della croce. E’ il crocifisso che è risorto. I segni da rintracciare e che a lui rinviano sono i segni della sue piaghe: è una vita nuova che reca traccia di una vita spesa e passata non sopra o al di là ma al di dentro del dramma della morte, della violenza subita, dell’ingiustizia, trasfigurando il patibolo di morte in luogo di amore. Tommaso, il gemello - forse, di ogni uomo e donna - si apre ad un riconoscimento di fede personale avvertito come proprio ed unico - ‘Mio Signore e mio Dio’. Ma la beatitudine del credere senza vedere costituisce la felicità possibile per chi potrà incontrare Cristo risorto ‘vedendo’ in modo nuovo, in uno scorgere la sua presenza personale nell’accogliere la testimonianza di quella comunità che l’ha sperimentato come vivente, nel vedere i segni da rintracciare nei segni della sofferenza di tutti i crocifissi della storia.
“Appena lo vidi caddi ai suoi piedi come morto. Ma egli, posando su di me la sua destra disse: ‘Non temere, io sono il Primo e l’Ultimo, e il Vivente. Ero morto, ma ora vivo per sempre e ho le chiavi della morte e degli inferi’”
Il Primo e l’Ultimo: l’Aocalisse così chiama il Risorto e lo presenta come colui che tiene in mano le chiavi della morte e degli inferi. E’ il ‘primo’ perché tutta la creazione viene da lui. Guardando alla sua risurrezione tutto appare in una luce nuova. La storia dell’umanità, ma anche la storia della creazione. Cristo risorto è quella vera immagine di Dio che compie la prima immagine: è il primo. Apocalisse pone insieme una profonda profezia radicata nella sensibilità ebraica alla storia che si allarga a comprendere la vicenda di tutta la creazione ed il destino del cosmo intero. Così pure Cristo risorto è ‘l’ultimo’ perché in Lui tutta la creazione è ricapitolata. Non vi sono solamente dimensioni storiche della Parola di Dio, della Parola che si è fatta carne, ma Cristo avvolge con la sua presenza tutto il cosmo e lo rivela non come oggetto che sta davanti ad un soggetto, suo padrone, ma come luogo della presenza e dell’immanenza dello Spirito che dà la vita.
Primo, ultimo, il vivente, colui che vive e partecipa della sua vita e dà vita ad mondo in trasformazione che attende, che soffre come nelle doglie del parto. E’ lui che ha le chiavi della morte e degli inferi perché ha sconfitto la morte e indica l’orizzonte a cui tutta la creazione e la storia sono dirette. E’ un’esperienza di incontro di Giovanni, compagno e fratello nella tribolazione, a Patmos a causa della parola di Dio e della testimonianza di Gesù. L’incontro con il risorto irrompe nella quotidianità fatta di fatica e di prova e si ripropone nei termini dell’annuncio pasquale alle donne: ‘non cercate il vivente tra i morti’. Colui che è simile a un Figlio d’uomo lo spinge a scrivere: “scrivi dunque le cose che hai visto”… E il veggente di Patmos scrive perché la sua esperienza si faccia profezia condivisa.
Uno spunto da…
Mario Pomilio, Il quinto evangelio, Bompiani 2006
“AVVOCATO SCHIMMELL – No, no, mi lasci dire. Tutta questa confusione! Quattro libercoli raccogliticci, quattro diversi deliramenti, e non uno che naturalmente ci dica chiaro chi era Gesù.
QUINTO EVANGELISTA – E come potevano? La questione non è questa. La questione sta più indietro, nella persona stessa di Gesù: una persona, questo intendo, di tale complesssità, che quattro testimonianze diverse non potevano non dico esaurirlo, ma nemmeno farci comprendere chi egli fosse effettivamente. Un uomo oppure un Dio? Oppure ambedue le cose insieme? E oltre a ciò le altre cose che lei, avvocato Schimmell, ha dette poco fa. Ma come pretendere dagli evangelisti una risposta precisa, quando essi stessi non fanno che domandarselo? Ne avevate incominciato a discutere anche voi. Per Matteo parrebbe essere anzitutto il Messia, colui che era stato profetizzato e promesso. Marco sembra colpito dalla potenza dei suoi miracoli. Per Luca il Cristo Gesù è in primo luogo il salvatore, agli occhi di Giovanni il figlio di Dio, la verità che s’incarna. Ma possono ciascuno, e perfino tutti e quattro insieme, pretendere d’affermare d’averlo definito, quando ognuno poi deborda, esplora altre possibilità, l’immagine del Cristo gli si moltiplica tra le mani, s’è appena provato a fissarla ed ecco, gli è sfuggita? E non basta. Perché è venuto? Perché predica? E per chi predica? E perché converte? E perché muore? E perché ha scelto, per salvare gli uomini, una via così assurda? E l’ha scelta di sua volontà oppure gli è stata imposta? E voleva il Regno? E quale Regno? E dove? Su questa terra? E voleva una Chiesa? E quale doveva essere? E che voleva dire allorché pronunziò: «io distruggerò questo tempio di mano d’uomo e ne riedificherò uno non fatto di mano d’uomo »? Voleva una Chiesa solo spirituale? Senza templi? Senza culto? E ancora non basta, guardiamo al suo carattere: tenero e forte, delicato e fiero, dignitoso e sofferente, imperioso e insicuro, umano e più che umano: e potremmo continuare. E in tutto una vita abbandonata al suo movimento, al suo continuo diversificarsi e perfino contraddirsi. E contraddittoria comunque, agli occhi umani, l’esistenza d’un uomo che si dice Dio e viene per morire. E tale dunque che se ne può offrire testimonianza, ma senza riusciire a esaurirne il significato. Si possono moltiplicare i punti di vista intorno a lui, come appunto hanno fatto costoro, ma col risultato che immancabilmente ne emerge solo l’indecifrabilità.
AVVOCATO SCHIMMELL – Il fatto è, dunque, che non riusciremo mai a stabilirne l’identità …
QUINTO EVANGELISTA – Il fatto è (ma anche questo, se non sbaglio, l’avete detto) che, per come si è manifestato, il Cristo ci ha collocati di fronte al mistero, ci ha posti indefinitamente nella situazione dei suoi discepoli di fronte alla domanda: «Ma voi chi dite che io sia? ». E ognuno risponde come può, come noialtri del resto, come ciascuno dei cristiani. Ecco perché non ci sono gerarchie tra le quattro testimonianze che si tramandano di lui. Se Giovanni lo spiritualizza e Luca lo rende mite, se Matteo ce lo mostra nelle vesti del docente e Marco di preferenza in quelle del potente, non significa affatto che questo o quello siano più vicini alla verità. Tanto meno che abbiano presunto di dirci tutta la verità entrando a gara tra di loro, contraddicendosi o smentendosi. Significa solo che da quel nodo d’indefinite possibilità che fu, nel suo insieme, la persona di Gesù, ciascuno ha desunto quel tanto che poteva secondo il suo talento o il compito cui era eletto.”
Il quinto evangelio di Mario Pomilio (Orsogna 1921- Napoli 1990), si apre con una lettera inviata da un ex ufficiale americano Peter Bergin al segretario della Pontificia Commissione Biblica che narra di una sua sorprendente scoperta. Nel 1945 aveva alloggiato in una canonica presso una chiesa bombardata e lì aveva fatto il ritrovamento di alcuni scritti d’un antico sacerdote che parlavano di un quinto vangelo apocrifo e inedito dai tratti misteriosi. Peter è agnostico, ma da quella scoperta inizia per lui una vicenda di ricerca e di passione che investe la sua vita di professore universitario: si dedica a trovare le tracce del quinto evangelio, ma anche si incrocia con tutti coloro che erano stati prima di lui alla ricerca di quell’antico prete. E’ tentato di abbandonare tutto al suo ritorno in America ma non ci riesce e si tuffa ancora in una vicenda che diviene per lui ragione di vita ed una missione che coinvolgerà accanto a lui i suoi allievi. Il quinto vangelo non è uno dei testi apocrifi, ma si connota come il più alto, quasi la metafora di quella attesa di ogni generazione di avere un supplemento di rivelazione. Alla fine del libro sono riportate alcune lettere dei discepoli di Bergin. Le ricerche del quinto evangelio sono come il rincorrersi di una Parola che attraversa il tempo e che viene letta in modi diversi. E poi c’è la lettera della segretaria alla Commissione biblica in cui si narra come alla morte del professore sia stato ritrovato tra le sue carte un dramma teatrale da lui scritto, che vede un dibattito serrato sulla vicenda di Gesù fino all’intervento del quinto evangelista: “Sono gli apocrifi, sono tutti coloro che si sono ripiegati sulla Parola per meditarla e commentarla, sono l’insieme dei cristiani che nel corso dei secoli si sono interrogati intorno a chi fosse il Cristo, sono la somma della tradizione e il simbolo della ricerca. Fuori dal paradosso, rappresento la tensione che voi quattro avete suscitata scrivendo di Gesù. Se preferite, esprimo l’ansia di prolungare l’evangelio – o di portarlo a compimento. L’evangelio non è finito, questa è la verità”.
Gli evangelisti, pur essendo quattro, non hanno esaurito l’incontro con Gesù, per ogni tempo si apre una ricerca a riscrivere un vangelo per la propria epoca, a ‘vedere’ e credere in modo sempre nuovo.
La chiave di lettura del quinto evangelio sta forse in una novelletta che la segretaria di Bergin, Anne Lee, riporta nella sua lettera alla Commissione biblica: “Un uomo andava pellegrino cercando il quinto evangelio. Lo venne a sapere un santo vescovo e, per l'affetto d'averlo veduto vecchio e stanco, gli mandò a dire queste parole: ‘Procura d'incontrare il Cristo e avrai trovato il quinto evangelio’”.
Dalla Parola alla vita
L’annuncio di Cristo come primo e ultimo rinvia alla considerazione del rapporto della fede con la vicenda della creazione ed in particolare nell’attuale crisi ecologica. Tra i vari autori che hanno offerto un ripensamento della fede cristiana proprio in rapporto alle questioni sollevate dalla crisi ecologica Jürgen Moltmann (Dio nella creazione, ed. Queriniana 1992 2ed.) ha suggerito l’urgenza di un cambio di paradigma fondamentale non solo dal punto di vista etico ma come visione di fondo che guida l’esistenza umana e di consgeuenza le scelte di azione, in particolare nel mondo occidentale:
Moltmann suggerisce di passare da una dottrina della creazione che ha sottolineato i sei giorni della creazione - per cui all'immagine del Dio faber corrisponde l'esaltazione dell'homo faber - ad una prospettiva in cui centrale è il sabato (cfr A.Heschel). Recuperare la teologia del sabato significa cogliere il senso profondo della creazione e come il sabato, e non l’uomo, sia l’autentico compimento della creazione: non è l'individuo isolato il vertice e il compimento della creazione a cui tutto deve essere indirizzato, ma il compimento della creazione è il riposo di Dio, in una imago Dei che vede l'umanità sempre in relazione e nel rapporto con il creato. L'uomo allora è creatura vertice ma prima del sabato e anch'essa orientata al sabato: nell'ottica del sabato come compimento della creazione la vita umana è finalizzata ad una comunione con Dio e con la creazione stessa. E’ allora una prospettiva che non pone l’uomo al centro, ma Dio stesso e l’uomo come responsabile in rapporto al Cristo risorto. L'esecuzione del mandato di prendere residenza sulla terra e di essere custodi e pastori (Gen 1,28-29), deve essere considerata alla luce del potere dato al Cristo risorto. Il vero dominio della terra è quello del messia crocifisso e risorto, dell'agnello: si tratta di un 'dominio' capovolto, svuotato delle dimensioni del potere e che si può attuare solamente nel senso del servizio e del dono.
I rapporti di Dio con la creazione e dell’uomo all’interno con la natura di cui è parte vanno allora pensati in termini di immagine dei rapporti di comunione e di reciproca immanenza propri di Dio Trinità (pericoresi):
“Comprendere la creazione nello Spirito di Dio non solo contrappone il creato a Dio stesso, ma lo inserisce al medesimo tempo in lui, senza divinizzarlo. Con le forze creatrici e vivificanti dello Spirito Dio permea la sua creazione. Nel riposo sabbatico egli accetta che le creature esercitino influenza su di lui. Se ci muoviamo nella prospettiva dello Spirito presente nella creazione anche il rapporto tra Dio e mondo andrà considerato come un rapporto di tipo pericoretico” (299).
E’ una prospettiva profonda che può generare scelte e azioni quotidiane nel senso di cogliere la responsabilità di vivere la fede in una creazione che ha subito e subisce la devastazione, la deprivazione, l’inquinamento, in cui il grido della terra si confonde con il grido dei poveri.
Alessandro Cortesi op