28-3-10 - Domenica delle Palme - Anno C
Lc 19,28-40; Is 50,4-7; Sal 21; Fil 2,6-11; Lc 22,14-23,56
Omelia
“Andate nel villaggio di fronte; entrando, troverete un puledro legato, sul quale non è mai salito nessuno. Slegatelo e conducetelo qui. E se qualcuno vi domanda ‘perché lo slegate?’, risponderete così: ‘il Signore ne ha bisogno’”.
Un puledro legato, da sciogliere perché il Signore ne ha bisogno. Gesù camminava davanti a tutti salendo verso Gerusalemme. Davanti è Gerusalemme, la città del tempio, della classe sacerdotale e del potere politico di cui Gesù conosce l’ostilità e la distanza. E’ la Gerusalemme della presenza e del nascondimento di Dio nel segno dell’arca, nel silenzio del ‘santo dei santi’. Gesù camminava: il suo cammino segna la sua vita e ad un certo punto diviene decisione coraggiosa, faticosa: “mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato elevato in alto, egli prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme” (Lc 9,51). “Indurì il suo volto e si diresse verso…”: è un salire che muove da una scelta. E’ un camminare davanti in una fedeltà a quel rapporto che è la profondità insondabile dell’esistenza umana di Gesù: il suo ‘stare nelle cose’ del Padre. Ma qual è il senso di quel puledro da sciogliere per entrare a Gerusalemme?
Anche Davide aveva compiuto tra le lacrime quella salita dell’erta degli ulivi: fu il momento più drammatico e umiliante della sua vicenda come re in Israele (2Sam 15,30). Gesù conosceva le attese che rinviavano ad un re come Davide, un messia atteso che avrebbe ristabilito il benessere del tempo di Davide. In Geremia si legge: “Fuggite, salvate la vostra vita! Siate come l’asino selvatico nel deserto” (Ger 48,6). Il puledro di cui Gesù ha bisogno è come l’asino selvatico che una volta sciolto fugge verso il deserto, per salvare la propria vita. Ma Gesù ne ha bisogno per andare a Gerusalemme là dove, nel momento del suo morire come condannato, le voci che lo accompagneranno sono di sfida: “salva te stesso” (Lc 23,37). E lui, che ha salvato altri, non salva se stesso, si lascia consegnare.
Gesù ha bisogno di un puledro per affrontare l’ostilità, la condanna e la morte: “Sarà sepolto come si seppellisce un asino, lo trascineranno e lo getteranno al di là delle porte di Gerusalemme” (Ger 22,19)
Zaccaria parlando di un giorno alla fine del tempo scriveva: “In quel giorno i suoi piedi si poseranno sul monte degli ulivi, che sta di fronte a Gerusalemme” (Zac 14,4) e descrive la venuta di un re che giunge a Gersualemme sul dorso di un asino, la cavalcatura non dei potenti ma dei poveri: “Esulta grandemente figlia di Sion, giubila, figlia di Gerusalemme. Ecco a te viene il tuo re. Egli è giusto e vitorioso, umile, cavalca un asino, sopra un puledro, figlio di asina” (Zac 9,9).
Il puledro serve come cavalcatura di un re. E così come venivano accolti i re alla loro acclamazione, si stendono i mantelli sulla strada. Ma si tratta di un re con tratti particolari: è un re che si pone sulla linea di Davide, re e pastore, ma anche diverso da Davide. Il suo camminare verso Gerusalemme è di fatto un discendere ‘facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce’. E’ un re umile: è un re che serve. Il suo regnare si è espresso nel suo farsi racconto del volto misericrodioso dell’Abba e si compie a gerusalemme nel consegnare la sua vita, nel non salvare se stesso. Un re che non salva se stesso è un anti-re, un anti-messia rispetto a tutte le attese di un messia della potenza e della affermazione politica e religiosa. Gesù è re umile che porta la pace e così viene salutato.
“gettati i loro mantelli sul puledro vi fecero salire Gesù”: il mantello era abito, protezione rifugio, sicurezza. Gettare i mantelli è il gesto che dice affidamento di tutta la vita al cammino di Gesù. Stendere il mantello è accettazione di seguirlo sulla sua strada. Sapremo stendere i nostri mantelli, perché ‘il Signore ne ha bisogno’?
Commento
Traccia di lettura del racconto della passione secondo Luca
Il racconto della passione secondo Luca è una rilettura degli eventi storici degli ultimi giorni di Gesù, profeta della Galilea, compiuta alla luce dell’incontro con il risorto, in cui traspaiono elementi propri della sensibilità di Luca e della sua comunità. Si può quindi leggere la lunga narrazione della passione comune a tutti i vangeli tentando di cogliere i tratti propri del terzo vangelo.
Il primo elemento caro a Luca è quello della via: la via della croce percorsa da Gesù fino a Gerusalemme è la medesima via che anche il discepolo è chiamato a percorrere nel seguire l’esempio di Gesù: lo stesso Gesù è infatti presentato come il ‘grande testimone’. Sulla via verso il luogo della crocifissione a Simone di Cirene viene dato di prendere la croce di Gesù ed egli si trova a portarla dietro a lui (23,26), sottolineatura tipicamente lucana circa il ‘seguire Gesù’, che indica la via del discepolo nella quotidianità della vita: ‘Se qualcuno vuol venire dietro a me rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua’ (9,23). La croce è simbolo in riferimento alle scelte di Gesù per una vita spesa in dono come bella notizia per i poveri.
Anche nel quadro della passione Luca insiste particolarmente sulle caratteristiche di mitezza e di fedeltà, di rifiuto della violenza da parte di Gesù in un contesto di ingiustizia che sempre più si stringe contro di lui. Nel terzo vangelo Gesù ha i tratti del ‘servo di Jahwè’ perseguitato ingiustamente che fino alla fine mantiene la solidarietà con tutti, vivendo il perdono nel momento estremo (23,34).
Comunica l’abbraccio di misericordia del Padre quando, con il suo sguardo, rinvia Pietro a ‘ricordare le parole’ che lui stesso gli aveva detto (22,54-61): gli apre un futuro di perdono e gli dà coraggio rinviandolo alle sue parole.
Tutta la narrazione è posta nel contesto della Pasqua: “Si avvicinava la festa degli azzimi, chiamata Pasqua…” (22,1.7).
Luca sottolinea l’avvicinarsi della festa di Pasqua non solo come elemento della cronologia, ma come quadro per cogliere il senso degli avvenimenti della passione: l’agnello stava al centro della celebrazione ebraica di Pesah, e Luca pone la presenza di Gesù al centro in riferimento all’agnello. Pesah era inoltre festa memoriale di liberazione e di alleanza che faceva rivivere l’esperienza del passaggio di Dio e del passaggio dell’uomo, dalla schiavitù alla libertà (cfr. 22,15-20).
Anche il complotto per uccidere Gesù è approfondito con sguardo teologico: ad un primo livello certamente c’è il convergere e l’accordarsi del potere religioso e di quello politico per eliminare Gesù, un accordo che approfitta di un tradimento e di una serie di ‘consegne’: ‘…egli (Giuda) andò a discutere con i sommi sacerdoti e i capi delle guardie sul modo di consegnarlo nelle loro mani’ (22,4). Luca legge la passione, alla luce di tutta al vicenda di Gesù, come il suo libero consegnarsi nelle mani degli uomini e il suo rimettersi nelle mani del Padre proprio nel momento della morte: ‘questo è il mio corpo dato per voi’ (22,19), ‘Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito’ (23,46).
Nei fatti dell’arresto, e nel suo comparire davanti al sinedrio, a Erode e a Pilato, Luca riscontra la ripresa di un grande scontro tra Gesù e le forze del male e fa accenno a ‘colui che separa’, satana, che ritorna in quello che Luca vede come il tempo fissato per lo scontro definitivo (cfr. 4,11). E’ questa la lotta che attraversa l’intera esistenza di Gesù, mandato per rimettere in libertà gli oppressi e per inaugurare un tempo di liberazione da ogni male (cfr. 4,18-19).
Davanti al sinedrio le accuse sono di tipo religioso e compare il titolo dato a Gesù di ‘Figlio dell’uomo’, titolo riferito al messia. Davanti ai capi del sinedrio Gesù ha i tratti del Messia e del testimone che conduce sino in fondo la fedeltà alla sua missione: già in questo momento si sta compiendo quella ‘salita’ che è continuazione di tutto il viaggio di Gesù verso Gerusalemme: ‘da questo momento sarà innalzato il figlio dell’uomo seduto alla destra della potenza di Dio’ (22,69 con la citazione del salmo messianico 110,1 unita a Dan 7,13 che parla della venuta alla fine dei tempi di una enigmatica figura di giudice della storia).
Nell’interrogatorio davanti a Pilato la questione posta riguarda la pretesa di Gesù di essere re, la sua regalità: già l’entrata di Gesù a Gerusalemme era stata presentata come un corteo regale (19,20-40) con il saluto ‘benedetto colui che viene, il re, nel nome del Signore! Pace in cielo e gloria nel più alto dei cieli’ (19,40).
Di fronte alla domanda di Pilato Gesù racchiude nel silenzio della sua risposta una distanza profonda: il suo essere re è di tipo diverso dal potere di chi lo accusa. Così pure nel silenzio davanti a Erode.
E’ un re che non salva se stesso ma è venuto per dare la sua vita: al momento della crocifissione si attua il compiersi di quell’ ‘oggi’ di salvezza che attraversa l’intero vangelo. ‘Oggi sarai con me in paradiso’ (23,43) è ripresa di quella parola ‘Oggi la salvezza è entrata in questa casa’ (19,9)e di quell’oggi pronunciato all’inizio della vita pubblica. ‘Oggi si è adempiuta quest Scrittura che voi avete ascoltato…’ (4,21).
‘Stare nelle cose del Padre ‘(2,49) è la prima parola posta in bocca a Gesù nel vangelo ed è anche l’ultima prima della morte: essa racchiude l’abbandono fiducioso a quel padre di misericordia che Gesù aveva tratteggiato nella parabola al capitolo 15, il padre che ha compassione e va in cerca dei suoi figli. Sulla croce Luca vede Gesù come il giusto che dà salvezza, non cerca di salvare se stesso, ma offre vita per tutti. Sarà lui il medesimo che sarà testimoniato come ‘il Vivente’ alle donne al sepolcro nel mattino del primo giorno dopo il sabato (24,5; cfr 24,23).
Ma di fronte alla morte di Gesù tutti i personaggi che Luca presenta stanno pensosi, osservando (23,35) e per tutti c’è possibilità di una storia nuova di fronte a lui: è questa l’attitudine richiesta anche a noi in questi giorni verso la Pasqua.
Gesù è vittima di una condanna che vede responsabilità storiche precise. Ma l’essere vittima di questa violenza è letto da Luca in una dimensione più profonda. Gesù si fa solidale con tutte le vittime della storia. Colui che a Gerusalemme subisce il giudizio, proprio lui diviene giudice del mondo: ma il suo essere giudice, in quanto vittima, porta il medesimo giudizio ad un capovolgimento. L’amore di Dio si manifesta nel volto di Gesù come pura vittima che non scende dalla croce, non salva se stesso. Rompe radicalmente con la logica dell’oppressione, ma anche della condanna. Gesù è giudice di salvezza perché è lui che trasforma il giudizio stesso e fa rivolgere lo sguardo alla vittima. Gesù non lascia fuori nessuno. L’amore di Dio manifestandosi nella pura vittima, si mostra in opposizione ad ogni violenza. Il Dio cristiano non può essere identificato con l’oppressore o in una qualsiasi reazione di violenza. Ogni sofferente, sia nel suo essere ‘innocente’ sia nel suo essere ‘colpevole’, in condizione d’impotenza, vive la condizione della vittima e dall’evento della croce l’amore di Dio si è manifestato dalla parte della vittima.
Uno spunto da…
Da Diego Fabbri, Processo a Gesù, Mondadori Oscar 1977.
“Davide. Precisate in che cosa consisteva, concretamente, questo pericolo. Fatti, però. Lasciate stare il ‘seduttore’.
Caifa. Provocava il disordine, il più pericoloso dei disordini.
Davide. Quali disordini esattamente?
Caifa. Sovvertiva apertamente la legge mosaica: non più dente per dente, ma il perdono delle offese; non più la liberazione dall’oppressore ma dal peccato; non più il castigo per l’adultera, ma la remissione della colpa perché, diceva, chi di voi è senza colpa? E l’uguaglianza! Per la prima volta si sentì annunciare che tutti gli uomini erano eguali! Tutti.
Davide. Sappiamo, tutto questo lo sappiamo – e gli ascoltatori poi, conoscono i vari punti della dottrina anche meglio di noi; però… come poteva provocare disordine tutto questo, se un momento fa avete detto che il popolo, sì, l’ascoltava, ma non l’intendeva affatto?
Caifa. Subiva egualmente il fascino di quelle parole: credeva. Ecco il pericolo nuovo: credere. La fede in altre cose, in altre verità, in un mondo diverso, nuovo. Ecco il disordine.
Elia. Non è comunque a questo disrodine che si riferisce l’imputazione. (Ripete) Attività sovvertitrice…
Caifa. Proprio questa. Voi stessi avete citato il ‘Talmud’: ‘aveva sedotto e sviato il popolo d’Israele con le sue magie’.
Davide. Eppure dovettero esserci anche dei disordini, dei veri, materiali disrodini, se è vero che fu necessario l’intervento del Procuratore romano.
Caifa (sorride). Ci furono certamante anche quei disordini, e nessuno nega che il Procuratore non abbia avuto il suo da fare; ma per la verità, quei disordini non furono provocati direttamente da Gesù; semmai provocati per causa sua, ma non da lui. Qui si deve essere esatti e veritieri.
Davide (spazientito del tono un po’ rotondo di Caifa). Perché non si ascolta il Procuratore romano?
Elia (chiama) Ponzio Pilato!
Pilato, nel gruppo dei testimoni, si sta infatti già infilando una corazza romana; affretta la sua preparazione e si avvia verso il tavolo dei giudici. Mentre passa davanti al suo improvvistao difensore gli dice ammiccando
Pilato. Tenete presente che io non sarei ebreo.
Giudice improvvisato (gli sorride). (Anche il pubblico ride)
Elia (guarda un po’ severamente Ponzio Pilato che è un uomo piuttosto corpulento e nerissimo di capelli). Parlateci dei disordini procurati da Gesù di Nazareth.
Pilato. Non ebbi a lamentare alcun disordine, che gli si dovesse imputare. Si può dire, anzi, che noi ci accorgemmo di questo profeta soltanto negli ultimi giorni. Posso anche aggiungere che le relazioni provenienti dai vari emissari sparsi per il paese, erano tutte improntate a simpatia e ad ammirazione per il Galileo. Che ragione avremmo avuto, noi, di temerlo? Non era certamente lui col suo plotone di povera plebe che avrebbe potuto crearci dei fastidi. Né, del resto, pretendeva di passare per un rivoltoso. Lo diceva schietto: la mia non è una rivolta civile ma interiore. Sotto questo aspetto, anzi, e forse senza volerlo, questo profeta nuovo serviva al nostro scopo ch’era di mantenere l’ordine costituito.
Davide. Che cosa diceva di voi, Gesù di Nazareth?
Pilato. Non mi sono mai curato di saperlo. Però a chi cercò, una volta di metterlo nei guai con una domanda insidiosa, rispose con quel ‘date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio’ che, nella sua chiarezza, mi pare – scusatemi – una risposta più romana che giudaica.
Il giudice improvvisato (non sa trattenere una risata).
Davide (mordace). Non sembra però che questa simpatia gli abba giovato gran che! Foset proprio voi a metterlo a morte
Sara. Non vorrei essere difesa dalle vostre leggi!
Pilato. Non tocchaimo questo argomento delle leggi. Ormai il gioco è stato fatto e non ho che da riconoscere la vostra scaltrezza; però dal momento che qui si cerca di ricostruire una verità piuttosto controversa, prego che si domandi a Caifa chi provocò la sommossa intimidatoria di piazza. Chi mi forzò la mano portandomi a convalidare con i miei poteri esecutivi una condanna di morte pronunciata dal Sinedrio? Chi? Risponda su questo punto, e lealmente, se può, il Gran Sacerdote.
Il Processo a Gesù di Diego Fabbri (1911-1980), rappresentato per la prima volta nel 1955, è testimonianza una forma di teatro ‘aperto’, corale, capace di creare l’intensa dinamica, tipica di Pirandello, del ‘teatro nel teatro’, non solo nel coinvolgimento del pubblico ma anche nell’intersecare la questione rappresentata con le domande e i drammi del presente.
Una famiglia di ebrei inquieti, dopo la Shoah si interroga sulla figura di Gesù, sulla sua innocenza ed intende impostare nuovamente un processo di natura squisitamente giuridica. Elia è il capo di questa compagnia che gira i teatri nell’inscenare nuovamente il processo e proponendo al pubblico le domande tormentose: “Rispettabili ascoltatori: quella a cui assisterete, stasera, sarà una rappresnetazione insolita. Noi celebreremo ancora il processo a Gesù di Nazareth. Ci domanderemo: Gesù di Nazaerth era innocente o colpevole secondo la legge giudaica? Fu o no condannato ingiustamente? Discuteremo pubblicamente, a cuore aperto”. Con lui Rebecca, sua moglie, e Sara la loro figlia, vedova di Daniele, il giudice mancante, ucciso dai nazisti, e Davide, che nel corso della rappresentazione si saprà che aveva avuto una storia d'amore con Sara quando era ancora vivo Daniele, ed aveva denunciato ai nazisti il marito di Sara. Attorno ai componenti della troupe che interpretano la parte dei giudici con ruoli ogni sera diversi scelti con il metodo del sorteggio, viene affiancato un giudice improvvisato che prende la parte di Daniele. Ma la sera in cui il processo viene messo in scena, Sara, stanca della solita struttura, propone che si sentano altri testimoni, oltre ai membri del Sinedrio. Intervengono così, oltre a Caifa e Pilato, testimoni che conobbero Gesù da vicino, alcuni della troupe ma che interpretano ruoli improvvisati: gli apostoli, Maria, Giuseppe e la Maddalena. Nel secondo atto il dibattito si apre alla platea e coinvolge il pubblico da cui emergono voci di spettatori che diventano attori, un intellettuale, un prete, un giovane che ha lasciato la casa e si è perduto, una prostituta, una donna delle pulizie. Ognuno si riconosce in qualcuno dei personaggi del primo atto. Si attua così non solo una celebrazione di un processo a Gesù, ma anche un processo che coinvolge la vicenda dei cristiani nella storia e l’umanità. Fino alla sentenza finale. Elia dirà: “Io debbo orami proclamare… alto… al cospetto di tutti.. che non so ancora se Gesù di Nazareth sia stato veramente quel Messia che noi aspettavamo… non lo so… ma è certo che Lui, Lui solo, alimenta e sostiene da quel giorno tutte le speranze del mondo! E io lo proclamo innocente .. e martire … e guida…”.
“Bionda. Ci passa vicino… non visto…
Sara. Allora bisogna mettersi a spiare il suo passaggio.
Rebecca. Continua cercarci in questo nostro mondo.
Bionda: Nel nostro mondo marcio! Mondaccio sporco, ma forse benedetto…“.