19-12-2010 - IV Domenica di Avvento - Anno A
Is 7,10-14; Sal 23; Rom 1,1-7 Mt 1,18-24
Omelia
“… il Signore stesso vi darà un segno…”
Aprirsi al linguaggio dei segni è scoprire uno spazio nuovo. I segni non chiudono ma aprono, sono indici puntati e guidano lo sguardo a non fermarsi. I segni rinviano oltre, spingono ad una fatica di ricerca e di incerto movimento. Lo spazio che i segni aprono non è quello dell’evidenza e della chiarezza, ma quello dello scrutare oltre e della relazione. I segni esigono l’avventura dell’interpretazione e soprattutto pongono in comunicazione. Il segno è sempre segno dell’altro che fa irruzione nella nostra vita e rinvio ad altro che non si conosce già, che interroga e si propone provocando una uscita da sé, dall’isolamento e dalla chiusura.
Quanti segni nelle nostre vite quotidiane rimangono inascoltati e inesplorati. Quanti segni sono equivocati per la pretesa di sapere già, per l’incapacità a chinarsi a guardare, per la presunzione di non dover imparare e di non attendere.
I segni peraltro popolano le forme di religiosità che ruotano attorno alla richiesta del miracolo, e della magia. Sono allora pretesi come manifestazione eclatanti, sono pensati come la risposta ad una sfida verso un Dio che deve dare segni evidenti della sua presenza. Un certo revival di religioso oggi spinge alla ricerca di segni appariscenti, prodigiosi, che suscitano l’accorrere di molti, e genera il diffondersi di pifferai che agitano promesse di segni grandiosi. Ma questa è anche storia antica legata ad una religione che chiede segni.
“… Il Signore stesso vi darà un segno”: contro le pretese di segni grandiosi che rispondano a esigenza di evidenza, i segni che il Signore offre sono segni problematici, sono soprattutto segni piccoli: la giovane donna partorirà un figlio. Il segno di una nascita è segno di contraddizione rispetto all’idea di un Dio dei prodigi e delle potenze. E’ un segno di vita: è soprattutto un segno di presenza, di compagnia. Una nascita ed un piccolo bambino che ha un nome come promessa Emmanuele: Dio con noi. Se imparassimo a leggere i piccoli segni, le nascite che segnano il quotidiano, l’inermità di presenze che chiedono e offrono segni di compagnia e di relazione nella vita…
“Giuseppe suo sposo, poiché era uomo giusto e non voleva accusarla pubblicamente, pensò di ripudiarla in segreto”
Giuseppe è uomo giusto e uomo capace di ascoltare i sogni. E’ giusto, cioè attento all’altro, capace di rapporti di fedeltà. Per lui Maria è importante, più della legge, più dell’amore di se stesso, più della sua reputazione. Giusto è Giuseppe perché si fida, ed è capace di amore come uscita da sé, come sguardo a chi gli sta di fronte senza sospetto. Giuseppe è giusto perché capace di umanità piena. E’ un uomo attento ai segni: ascolta quanto gli si fa incontro e per questo è anche capace di ascolto delle chiamate di Dio. Nel sogno gli si fa incontro una chiamata. Il sogno è spazio creativo della chiamata di Dio, come il sonno di Adamo è luogo in cui opera Dio creatore e come nel sogno dei magi si attua la guida di Dio vicino e provvidente. Giuseppe è presentato da Matteo come uomo di fede, esempio del credente. Il suo percorso è faticoso, sperimenta la fatica del dubbio ma vive l’abbandono della fede. Trova nell’invito a ‘non temere’ la ragione per rendersi disponibile nuovamente ad una duplice fedeltà che lo coinvolge, di fronte a Dio per chi Dio gli affida. Giuseppe è affidato il compito di dare il nome a Gesù: ‘Tu lo chiamerai Gesù’, un nome che racchiude un’indicazione ed una identità: ‘il Signore salva’. “In nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale è stabilito che possiamo essere salvati” (At 4,12). La salvezza ha un nome, è dono, è un volto, è incontro personale. A Giuseppe è affidato di pronunciare quel nome rendendosi così presenza disponibile al disegno di Dio.
“Paolo, servo di Cristo Gesù, apostolo per chiamata, scelto per annunciare il vangelo di Dio – che egli aveva promesso per mezzo dei suoi profeti nelle sacre Scritture e che riguarda il Figlio suo, nato dal seme di Davide secondo la carne, costituito Figlio di Dio con potenza secondo lo spirito di santità, in virtù della risurrezione dei morti, Gesù Cristo nostro Signore…”
Nelle prime righe della sua grande lettera alla comunità di cristiani di Roma che Paolo progettava di visitare a breve è ripresa una brevissima professione di fede che Paolo stesso forse aveva ascoltato e appreso. E’ un’eco della fede in Gesù risorto che sta all’origine del ritrovarsi della prima comunità cristiana dopo la Pasqua. Paolo presenta queste parole come il vangelo di Dio: la bella notizia si identifica con l’annuncio del Figlio, Gesù riconosciuto come Signore. Gesù nato dal seme di Davide secondo la carne e costituito Figlio di Dio con potenza: i due stadi della vicenda di Gesù aprono uno squarcio sulla sua identità. Partecipe della storia umana ed esaltato nella risurrezione, là dove agisce lo spirito di santità. La risurrezione assume i contorni di un’azione di Dio, in coerenza con l’intera storia della salvezza – attestata nelle Scritture - che innalza l’uomo Gesù che ha vissuto la sua vita nel darsi fino alla croce. La risurrezione assume i confronti di un ‘innalzamento’ di colui che era già il Figlio, ma ora viene manifestato come ‘Figlio nella potenza’ (dynamis) dello spirito. Per questo ogni itinerario di incontro di Gesù dovrà passare attraverso la sua umanità, la sua vicenda umana nelle sue scelte e nello stile del suo agire. E dovrà altresì tenere sempre insieme la sua storia umana il suo venire dal seme di Davide e la sua condizione di risorto, colui che ha vinto la morte, il Signore. Il nome di Gesù è ‘Gesù Cristo signore nostro’: il crocifisso è il risorto. In ciò si sintetizza per Paolo il vangelo di Dio.
Dalla Parola alla preghiera
Aiutaci, Signore, a leggere i segni della tua presenza nella nostra vita…
Donaci di scoprire la tua presenza come Emmanuele Dio con noi, e aiutaci ad accogliere il tuo disegno di comunione nella storia…
Donaci di scoprire i volti dei giusti accanto a noi e donaci coraggio per vivere da giusti nel nostro tempo…
Ti preghiamo perché come Giuseppe siamo disponibili alla chiamata a prendere con noi coloro che ci affidi…
La Parola dei padri
“Ormai dunque non è con i segni né con le figurazioni che siamo condotti alla fede, ma confermati dalla narrazione del vangelo, adoriamo ciò che crediamo già realizzato, col contributo delle testimonianze profetiche determinante per la nostra istruzione. In tal modo non è intaccato da alcun dubbio ciò che sappiamo preannunziato da tanti e tali oracoli. E’ in questo contesto che il Signore disse ad Abramo: ‘Nella tua discendenza saranno benedette tutte le nazioni’. E in tale prospettiva David profeticamente ispirato canta così la promessa di Dio: ‘Il Signore l’ha giurato a David e non lo deluderà: porrò sul mio trono uno uscito dalla tua stirpe’. Il Signore stesso dice per bocca di Isaia: ‘Ecco la vergine concepirà e partorirà un figlio, e il suo nome sarà Emmanuele che significa Dio con noi’. E ancora: ‘Un virgulto spunterà dalla radice di Iesse, e un fiore nascerà dalla sua radice’. Senza dubbio in questo virgulto è preannunciata la beata vergine Maria, che, nata dalla stirpe di Iesse e di David e resa feconda dallo Spirito Santo, ha generato nel seno materno ma con parto verginale un nuovo fiore dell’umana natura.
Esultino dunque, lodando Dio i cuori dei fedeli, e i figli degli uomini proclamino le sue meraviglie, perché soprattutto in questa opera di Dio la nostra piccolezza viene a conoscere quanto l’abbia stimata il suo Creatore. Egli, che già all’origine aveva molto beneficato il genere umano creandoci a sua immagine, un dono ben più grande ci ha fatto per la nostra rigenerazione quanto Lui, il Signore stesso, si è unito alla natura del servo. Benché infatti una e identica sia la bontà da cui proviene ogni dono del Creatore alla creatura, tuttavia stupisce di meno il fatto che l’uomo si elevi fino al divinodi quanto non stupisca la discesa di Dio fino all’uomo” (Leone Magno, Sermone Sul natale del Signore 4 (XXIV), 1,3-2,2).
Uno spunto da…
Paul Gauguin lasciò nel 1891 il mondo di Parigi e l’ambiente dei pittori simbolisti cui era legato per recarsi a Tahiti. Visse questo viaggio come distacco da tutto ciò che percepiva come convenzionale, artificiale e abitudinario. Scelse così di vivere non nella capitale di Tahiti, ma in un villaggio a contatto con i nativi e con la natura. E scrive un testo ‘Noa Noa’ in cui narra la sua esperienza di quel periodo, che accanto ai suoi quadri è indicazione del suo percorso. In questo periodo dipinge un quadro che intitola in lingua maori, ‘Ia Orana Maria’. La scena è immersa in una panorama di natura lussureggiante: in primo piano banane e frutti tropicali, sullo sfondo alberi fioriti palme e banani, su un terreno dove sorgono capanne. E’ una interpretazione che unisce insieme diversi motivi presenti nella storia della pittura occidentale, l’annunciazione a Maria e l’adorazione dei pastori. Gauguin però ritrae questi eventi mescolandoli insieme ed in modalità del tutto originali, sfidando ogni convenzione: Maria ha i tratti di una donna tahitiana, di una ‘vahine’, che ricalca per certi aspetti il ritratto della ‘vahine no te tiare’ che in tahitiano significa ‘donna con fiore’. E’ vestita con un pareo rosso e tiene il bambino nudo a cavalcioni sulla sua spalla sinistra in un gesto di abbandono e di tenerezza. Sono esclusi personaggi maschili da questa raffigurazione che unisce insieme senso della fecondità della natura ed evocazioni ad una presenza religiosa riscontrabile nei tratti delle aureole sulla testa di Maria e del bambino.
Verso di lei si avvicinano due giovani tahitiane con passo di danza, rinvio a figure di danzatrici in un tempio buddista dell’isola di Giava che Gauguin conosceva. Hanno le mani giunte, un gesto che nel mondo orientale esprime il benvenuto ed il saluto accogliente. Alle loro spalle il profilo di due ali dorate fanno intravedere dietro ad un albero fiorito la figura di un angelo, lontano riferimento all’angelo delle annunciazione dell’arte europea.
Lo sguardo di Maria e quello del bambino fissato mentre si volge lasciando pesare il capo nel gesto del suo appoggiarsi, sono pieni di dolcezza e rivolti a chi guarda. Lo sguardo della madre che risalta all’interno del profilo del volto segnato dai capelli nerissimi, si unisce quasi al gesto di custodia che trattiene con le due mani il piede del bambino stretto al suo seno, a sostenerlo in equilibrio, ma anche forse nel reggersi a lui. L’intensa umanità, il senso di immersione nella natura, il movimento di danza ospitale, sono tutti elementi che rinviano al titolo che può farsi preghiera: ‘Ave Maria’ (Ia Orana Maria), una preghiera che trattiene in sé tutto il movimento della danza di benvenuto e di saluto, e reca anche il senso di dolcezza e di abbandono espressi da una corporeità che comunica affetto. (cfr. Anna Mazzanti - Eliana Princi, Gauguin e la scuola di Pont- Aven, Gruppo Editoriale L’Espresso 2010).
Dalla parola alla vita
Giuseppe è colui che prende con sé, vive nella sua vita una logica della responsabilità, il prendere con sé, il pagare di persona… Potrebbe essere importante leggere oggi alcune dinamiche del panorama politico che fanno leggere invece una diffusa logica dell’irresponsabilità. Qui di seguito alcuni stralci della lettura di Ilvo Diamanti sulle recenti vicende: La democrazia dell'irresponsabilità (“La Repubblica”, 13 dicembre 2010):
“…nella democrazia rappresentativa il principio dell’autonomia degli eletti deve essere bilanciato da quello della «responsabilità». Ricorrendo di nuovo alla lezione di Max Weber: l’etica del politico è «responsabile» in quanto considera le conseguenze delle proprie scelte sul piano pubblico. Ma anche sul piano elettorale. (Come sottolinea Bernard Manin, nei «Principi del governo rappresentativo», pubblicato da “il Mulino”) In altri termini: gli eletti possono anche passare a un gruppo - magari uno schieramento - diverso. Proclamare l’interesse pubblico, praticando in realtà quello privato - e familiare. Però poi ne devono rispondere ai propri elettori. E agli elettori - in generale. Razzi oppure Calearo (ma solo chi lo ha candidato nel Pd poteva ignorare che non marcia a sinistra neppure quando guida in Inghilterra): dovranno rispondere delle loro posizioni e del loro operato alle prossime - più o meno imminenti - elezioni. Tuttavia, ciò difficilmente avverrà. Anzi: non avverrà di certo. Non solo perché la memoria, in politica, è sempre corta. E dal 15 dicembre, cioè: dopodomani, i «mercanti della fiducia» - finito il loro momento di gloria - probabilmente torneranno nell’ombra. Ma soprattutto perché gli elettori hanno perduto ogni potere di scelta «personale». Cioè, «personalmente», non possono esprimersi sulle «persone» che li rappresentano. In base a valutazioni retrospettive sull’azione degli eletti. Considerando gli effetti di ciò che essi hanno fatto durante il loro mandato: per noi, la nostra categoria, la nostra zona. In riferimento ai valori in cui crediamo. Perché non esistono possibilità di verifica e di controllo diretto da parte degli elettori, con questo sistema elettorale, centralizzato, senza preferenze, a liste bloccate, che premia le coalizioni. Che attribuisce alle leadership di partiti personali oppure oligarchici il potere di scegliere e decidere. Chi eleggere e dove. Chi candidare, ricandidare oppure escludere. Questa democrazia, sempre meno rappresentativa. Sicuramente «irresponsabile». E poco democratica. Riproduce e promuove un’etica dell’irresponsabilità: civile e personale”.
Infine per un sorriso…
http://www.youtube.com/watch?v=Y04Wp40KIM8&feature=aso
Alessandro Cortesi op