30-1-2011 - IV Domenica del tempo ordinario - Anno A
Omelia
“Cercate il Signore voi tutti, poveri della terra…Confiderà nel nome del Signore il resto d’Israele”
Cercare è verbo non di chi è appagato, soddisfatto, possidente di sicurezze o di verità. Cercare è verbo di chi sta nel cammino. Non a caso Sofonia accosta la ricerca ai poveri della terra. Coloro che non hanno proprietà da difendere, poteri da trattenere, coloro che avvertono il peso dell’ingiustizia, dell’impoverimento e della emarginazione che li tiene lontani schiacciati, costoro sono capaci di cercare. “Cercate la giustizia, cercate l’umiltà forse potrete trovarvi al riparo nel giorno dell’ira del Signore”. Sofonia, nell’epoca del regno di Giosia (640-609) vive un’atmosfera di rivolgimenti politici e di affermazioni di popoli diversi: prima gli assiri che nel 722 avevano conquistano il regno del Nord d’Israele, poi gli sciti, successivamente i babilonesi. E coglie come i tentativi di superare questa crisi vanno nella direzione di ataccarsi e di dipendere da qualche potenza, come ad es. l’Egitto. E’ convinto che si apra un tempo in cui si attuerà un giudizio di Dio, un giudizio che smaschererà coloro che si sono prostituiti a Baal, paradigma delle divinità a misura d’uomo, idoli senza consistenza, costruiti per assecondare le mire di potere umano. Il libro è percorso dall’attesa del ‘giorno del Signore’, un giorno di salvezza in cui Dio interviene come al tempo dell’esodo per rinnovare il suo popolo. In un tempo di profonda crisi economica nel regno del Sud, Sofonia legge il presente e individua un orizzonte che si apre. La crisi diviene occasione per scoprire una nuova attitudine: la povertà come attitudine nuova, interiore, di chi cerca la giustizia, di chi si apre all’incontro. E’ un incontro con Dio vissuto nella disponibilità e nella ricerca, è un incontro con l’altro che elimina iniquità e menzogna: “Potranno pascolare e riposare senza che alcuno li molesti”. E’ questo il ‘resto’ che costituisce il nucleo di un nuovo popolo del Signore, un popolo di poveri.
“Ma quello che è stolto per il mondo Dio lo ha scelto per confondere i sapienti; quello che è debole per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i forti; quello che è ignobile e disprezzato per il mondo, quello che è nulla Dio lo ha scelto per ridurre al nulla le cose che sono, perché nessuno possa vantarsi di fronte a Dio”
A Corinto Paolo vede il pericolo di una riduzione della fede cristiana ad una saggezza filosofica in cui ciò che importa è la brillantezza del ledere o del predicatore a cui rifarsi: i sono di Cefa, io di Apollo, io di Paolo… L’opposizione di scuole non è che conseguenza di questo fraintendimento radicale del vangelo. Così Paolo richiama la parola della croce, come stoltezza, ma per quelli che si salvano è potenza di Dio.La fede non deve essere fondata infatti sulla sapienza umana, ma solo sulla potenza di Dio (1Cor 2,5). Paolo richiama così la sua parola non basata su discorsi capaci di persuasione sulla base della sapienza umana, ma basati ‘sulla manifestazione dello Spirito e della sua potenza’ (2,4). La prova di questo Paolo la ritrova nella condizione stessa della comunità: “Considerate infatti la vostra chiamata fratelli: non ci sono fra voi molti sapienti dal punto di vista umano, né molti potenti né molti nobili…” (1,26) Dio sceglie ciò che è debole per confondere i progetti di grandezza dell’uomo, e perché nessuno possa vantarsi davanti a Dio.
“Gesù, vedendo le folle, salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinavano i suoi discepoli. Si mise a parlare insegnava loro dicendo: Beati i poveri in spirito perché di essi è il regno dei cieli…”
La vita e l’esperienza di Gesù costituisce il nocciolo segreto che sta dietro ogni detto del discorso della montagna. Le beatitudini in questa prospettiva ci parlano innanzitutto di Gesù e ne descrivono il profilo: è lui il povero, il mite, colui che ha fame e sete di giustizia…
Le beatitudini spalancano l’orizzonte di una felicità nuova: nella prima parte di ognuna si presentano situazioni negative, nella seconda parte è contrapposta una situazione di bene. In esse non sta l’affermazione della bontà di situazioni di male che legittimerebbe l’ingiustizia nell’aldiqua, coltivando l’attesa rassegnata di un capovolgimento nell’aldilà. Piuttosto le beatitudini sono provocazione ad una trasformazione radicale della vita sin da ora. In tale prospettiva la povertà non è un bene, ma è un male da combattere, così come la sofferenza, la persecuzione di quanto lottano per la giustizia. Le beatitudini però annunciano che Dio prende le parti di chi vive in questo orizzonte e apre la possibilità di una felicità nuova vivendo queste situazioni nell’accogliere la sua parola e la sua promessa, perché la causa di Dio diviene la causa dell’uomo oppresso e nonviolento. Non solo in un futuro da attendere in un mondo che sarà ma già sin d’ora questa possibilità di comunione è presente, è iniziata. La promessa di Dio è già operante, il suo prendere le parti dei poveri è un fondamento più stabile di altre felicità che si rivelano illusorie. Ed anche nelle situazioni di difficoltà questa gioia non può venir meno perché proviene da una scoperta che trasforma la vita ed apre ad uno sguardo diverso sulle situazioni, e con esso ad un impegno. Le beatitudini così parlando di Gesù, aprono ad una responsabilità di vita che si ponga secondo la logica della sua vita. Beati i poveri suscita un orientamento a prendere le parti dei poveri, per lottare contro ogni forma di povertà e per incontrare Dio che sta dalla parte dei poveri. Matteo da parte sua sottolinea l’importanza dell’interiorità, non è sufficiente anche se indispensabile un modo nuovo di rapportarsi ai beni: poveri in spirito dice una radicalità che non va senza una concretezza. E proprio per questo implica anche scelte concrete e operative.
Dalla Parola alla preghiera
Aiutaci Signore a vivere la nostra fede come ricerca di te, con lo spirito di poveri che trovano il loro sostegno solamente sulla tua presenza…
Donaci Signore di aprire la nostra vita alla parola della croce, stoltezza e debolezza. Donaci di non avere altro vanto se non in Te…
Aiutaci a vivere l’insegnamento di Gesù: beati i poveri in spirito, aiutaci a compiere scelte concrete non solo a favore dei poveri, ma vivendo accanto e condividendo la condizione di poveri…
La Parola dei padri
«Ora noi invece combattiamo contro un persecutore ingannevole, un nemico che lusinga, Costanzo l’anticristo: egli non percuote il dorso ma accarezza il ventre, non ci confisca i beni per la vita ma ci arricchisce per la morte, non ci sospinge col carcere verso la libertà, ma ci riempie di incarichi nella sua reggia per la servitù, non spossa i nostri fianchi ma si impadronisce del cuore, non taglia la testa con la spada ma uccide l’anima con l’oro, non minaccia di bruciare pubblicamente, ma accende la geenna privatamente. Non combatte per non essere vinto ma lusinga per dominare, confessa il Cristo per rinnegarlo, favorisce l’unità per impedire la pace, reprime le eresie per sopprimere i cristiani, carica di onori i sacerdoti perché non ci siano vescovi, costruisce le chiese per distruggere la fede» (Ilario di Poitiers, Contro l’imperatore Costanzo, 5, PL 10,478-504).
Uno spunto da…
“Nell’esercizio delle nuove funzioni di mediatore, don Samuel non sta solo recando un contributo decisivo alla causa del dialogo e della pace in Messico, ma sta anche proponendo una nuova concezione, politica e teologica, della mediazione. La sua infatti non è una mediazione equidistante, ma schierata dall parte degli indigeni. Certo, egli non condivide, come abbiamo ricordato, la scelta della lotta armata. Comprende però la ‘convinzione soggettiva’ cui sono pervenuti gli insorti, quando hanno proclamato: non ci hanno lasciato altra strada. Egli condivide la denuncia dell’oppressione di cui sono vittime e le accuse da essi rivolte al sistema economico e politico che ne è responsabile. Riconosce quindi la validità delle loro rivendicazioni essenziali: autodeterminazione, terra, salute, educazione.
Da questa visione della mediazione non è dissociabile quella della riconciliazione e della pace che essa persegue. La riconciliazione infatti non può consistere, come troppo spesso pensano i gruppi dirigenti, nell’occultamento del conflitto né nella cessazione della lotta armata, ma si fonda essenzialmente sulla soppressione delle cause del conflitto e quindi sull’instaurazione delle condizioni della pace, nella giustizia e nell’autodeterminazione. Ma la legittimità delle rivendicazioni degli insorti, nell’ottica del mediatore-vescovo, non si fonda solo sul progetto popolare di liberazione, ma anche sul piano del Dio Amore-Liberatore nella storia. Per questo la sua mediazione non è solo un impegno politico, estraneo alla specifica competenza della Chiesa, ma è anche una dimensione essenziale della missione profetica ecclesiale, di denuncia e di annuncio. Si comprende quindi che tale funzione non sia assunta da don Samuel a titolo personale , ma dalla chiesa locale nel suo insieme” (Giulio Girardi, L’emergenza dei popoli indigeni come soggetti e la conversione della Chiesa, in A.Zanchetta e R.Bugliani, Il Tatic Ruiz. Un vescovo tra gli Indios del Chiapas, ed. Manni 2004, 47-48)
E’ morto il 24 gennaio u.s. mons Samuel Ruiz, vescovo degli indios del Chiapas. ‘Tatic’ lo chiamavano, parole india ‘tzotzil’ che significa ‘padre’. ‘El caminante’ anche lo chiamavano perché nella sua vita si lasciò cambiare dalle situazione e spingere ad un cammino di incontro più profondo col vangelo. Vescovo che arrivò al Vaticano II con una formazione ed una mentalità tradizionale e conservatrice, si sentì messo profondamente in discussione; partecipe poi ai lavori della Conferenza di Medellin nel 1968 momento in cui i vescovi dell’America Latina elaborarono un processo di recezione del Vaticano II. Poi nel 1994 mediatore tra l’EZLN (esercito zapatista di liberazione nazionale) e il governo messicano dopo la sollevazione zapatista. Mediazione che fu condotta nella cattedrale di san Cristobal de Las Casas e che interrotta, riprese poi nel villaggio di San Andès Larrainzar, rinominato San Andrès de los pobres. Per questo nel 1994 don Samuel fu candidato al premio Nobel per la pace.
Don Samuel arrivò vescovo giovanissimo nel 1960 nella diocesi di san Cristobal, ma di sé relativamente a quel periodo ebbe a dire: “guardavo e non vedevo, come i pesci che tengono gli occhi aperti quando dormono”. Gli fece aprire gli occhi un caffè bevuto presso la casa di un proprietario terriero: si aprì alla percezione della ingiustizia che faceva stare i ricchi, sostenuti e giustificati dalla chiesa, a fianco di poveri sfruttati, prodotti di un arricchimento iniquo. A partire dalla progressiva presa di coscienza della sofferenza degli indigeni sorse un processo di autentica conversione dentro di lui. Da quel momento iniziò il suo impegno per aiutare le comunità indigene a sollevarsi dalla miseria e a rivendicare i propri diritti di cittadinanza. “Tutto questo processo mi incamminò a passare da una pastorale indigenista, fatta da non indigeni a favore degli indigeni, alla pastorale indigena, fatta da indigeni per gli indigeni. In questa noi non indigeni siamo i loro servitori ecclesiali, con la finalità pastorale che gli stessi giungano ad essere i soggetti principali della propria promozione integrale e della propria evangelizzazione”. Per questo promosse la presenza di tantissimi catechisti e la formazione di diaconi indigeni scelti dalle comunità come guide in vista. E al tempo della sollevazione zapatista in Chiapas nel 1994 venne accusato di essere stato a conoscenza della preparazione prima del conflitto e quindi responsabile delle violenze. Poi la difficile mediazione, dopo il periodo della repressione militare, che ebbe un momento centrale negli accordi di san Andrès del 1996, che poi furono sospesi, non accolti come legge di riforma costituzionale per dare dignità agli indios ma per fortuna non furono chiusi rallentando la repressione pur sempre attiva. Ma proprio la sua opera di lotta per i diritti umani in forza del vangelo, suscitò la opposizione del Vaticano: a lui vengono sollevate le medesime critiche che sono portate alla teologia della liberazione. Due diverse interpretazioni della scelta dei poveri sono in gioco, quella ufficiale, che parla di ‘scelta preferenziale ma non esclusiva’ a dire che si tratta di una tra tante altre opzioni. Per la teologia della liberazione invece la scelta dei poveri determina l’identità cristiana e diviene criterio di fedeltà al vangelo. Da qui sorge il profilo di un’esperienza di chiesa indigena e di una pastorale legata al contesto e da qui sorge anche una presa di posizione a fianco dei poveri in una situazione in cui i poveri sono sfruttati e oppressi.
Quando don Samuel dovette lasciare per raggiunti limiti di età la sua diocesi gli fu affiancato e poi fu nominato suo successore il domenicano fra Raul Vera, di posizioni tradizionaliste. Ma anch’egli di fronte all’ingiustizia e al contatto con la povertà degli indios visse la sua conversione personale ad un vangelo che gli si faceva incontro nel volto del povero e si fece continuatore appassionato e convinto dell’opera del vescovo Ruiz. “Tatic Samuel ha sempre avuto occhi per vedere l’immagine di Dio in ognuno dei suoi fratelli e sorelle”. “Tu, tatic Samuel, sei stato perseguitato per aver seguito la causa della giustizia. Sei stato oggetto di ingiurie e calunnie e di innumerevoli persecuzioni, vituperi e insulti per aver difeso la causa di Gesù” sono queste le parole pronunciate da mons. Raúl Vera, in piedi, di fronte alle spoglie di mons. Ruiz.
Nel 2004, celebrando gli ultimi dieci anni del cammino dei popoli indigeni del Chiapas in un discorso dal titolo ‘In questa nuova ora di grazia’ così don Samuel, ebbe a dire: “Dal terzo mondo si sta offrendo all’umanità una visione alternativa e un progetto di umanizzazione dell’economia e delle relazioni internazionali, il che costituisce un apporto di valore incalcolabile per le società che credono di sapere tutto. Tutto questo ci fa percepire non solo la vulnerabilità e caducità del sistema imperante, ma anche che è già in marcia la costruzione di un mondo nuovo dove gli emarginati sono i protagonisti e dove vediamo che coloro che erano considerati ultimi saranno i primi (Lc 13,29)”
"Quando la notte si fa' più buia - affermò - è il nuovo giorno che si avvicina".
Dalla Parola alla vita
Di fronte allo spettacolo disgustoso, sconcertante e devastante delle ‘notti di Arcore’ alcune voci si sono alzate da parte di alcuni vescovi: si sono distinte le parole di Bruno Forte, Domenico Mogavero e Giancarlo Bregantini. Il primo ha parlato in modo semplice e netto: “Serve un accertamento giuridico di quanto avvenuto. Ma se quanto avvenuto è vero, è un fatto gravissimo sia sul piano dell’etica privata che pubblica. E, in questo caso, serve un atto di vergogna e, insieme, l’uscita di scena dalla vita pubblica” (intervista al GR 1 del 19 gennaio). Il vescovo di Mazara del Vallo, Mogavero ha anch’egli richiamato all’esigenza di una strategia comune da parte dei vescovi: “Potrei dire di tutto e di più contro Berlusconi e il teatrino che si evince dalle intercettazioni sulle serate di Arcore. Potrei sfogarmi e dire che è tutto uno schifo. E come me tanti vescovi sarebbero pronti a ‘sparare’. Ma a che serve? La verità è che occorrerebbe che alzassimo la testa tutti i vescovi insieme” (http://www.livesicilia.it/2011/01/19/i-vescovi-devono-alzare-la-testa/). Pure mons. Bregantini si è espresso chiaramente: “Sono i giovani le prime vittime degli indecorosi spettacoli di questi giorni. Perché quando si esaltano modelli discutibili come la corsa alla ricchezza, la forza del denaro e, ancora peggio, lo sfruttamento della bellezza della donna con modi di vivere moralmente inaccettabili, i ragazzi vengono inevitabilmente danneggiati” (intervista a La Repubblica 21.01.2011
http://www.webdiocesi.chiesacattolica.it/cci_new/documenti_diocesi/41/2011-01/21-429/Bregantini%20su%20Berlusconi-Repubblica.pdf).
Queste voci facevano pensare ad un pronunciamento più chiaro da parte del card. Bagnasco nella sua prolusione al Consiglio permanente della CEI. Ma così non è stato. Si è trattato invece una presa di posizione in cui, sì, qualcosa è stato detto, ma in modo fumoso, con formulazioni alambiccate e alla fine senza una autentica presa di posizione, offrendo la possibilità di usare queste parole per ogni tesi. Sconcertante soprattutto è l’aver messo sullo stesso piano lo scandaloso stile di vita del premier e del suo entourage e la denuncia dell'eccessivo utilizzo di mezzi di indagine da parte della magistratura. Il senso di desolazione è forte.
Gianfranco Brunelli del Regno annota “Siamo di fronte a una delle classiche situazioni in cui il dibattito nella chiesa è reale. Ci sono numerosi vescovi pronti a dare voce al malcontento della base e lo faranno. Insieme, vedo la necessità da parte di Bagnasco di non entrare in una spicciola battaglia contro Berlusconi e, dunque, uscire dal campo stretto della politica. C’è la volontà del capo dei vescovi di restare equidistante dal piano politico nonostante il disagio di molti suoi confratelli. Con questa volontà i vescovi dovranno in qualche modo paragonarsi”.
Altre prese di posizione - come quelle del presidente dell’Azione Cattolica (http://www2.azionecattolica.it/content/nota-presidente-miano-sulla-prolusione-card-bagnasco) - appaiono timide affermazioni che si pongono nella medesima linea del sottile equilibrismo di un linguaggio che sembra far riferimento a situazioni diverse da quella che stiamo vivendo. I toni sono pacati al punto di divenire una sonnolenta esortazione alla sobrietà. Non c’è il coraggio di chiamare per nome le cose e soprattutto di farsi interpreti del profondo malessere che attraversa le comunità e chi si pone la domanda se la chiesa debba porsi come forza politica o come annunciatirce del vangelo, senza mercanteggiare con le forze al potere, senza cercare privilegi o negoziare scambi, ma richiamando alla responsabilità della testimonianza. Si rinvia alla sfida educativa dell’intera questione senza dire una parola sul fatto che l'educazione che viene propinata a piene mani da più di vent'anni dalle televisioni berlusconiane su cui si è appiattita anche la Rai è una delle componenti educative di questo Paese che non è senza responsabili.
Don Paolo Farinella così ha commentato la prolusione del card. Bagnasco: “Il cardinale aveva promesso di parlare in ‘consiglio permanente’, suscitando attese e per una volta facendo stare Berlusconi sulla graticola un par di giorni. Alla fine ha fatto i gargarismi di acqua e alloro o come scrive una mia amica ‘all’acqua di rose’. Lo stile del linguaggio è il solito, àulico, infarcito di domande retoriche, incisi, citazioni e autocitazioni: un discorso ‘decoupage’ senza anima e senza sentimenti. ‘Dico/non-dico – alludo/non alludo – punzecchio/ accarezzo’. Ha parlato, ma non ha detto perché tutti possano interpretarlo a modo loro, però ha parlato ‘in sede istituzionale’ (…) Non una parola sulla prostituzione minorile, non un lamento sulla dignità delle donne, non un rilievo sull’ingente quantità di denaro sperperato da un debosciato che educa alla prostituzione, induce alla corruttela e paga perché le minorenni tacciano e dichiarino il falso. Intanto l’Italia muore schiacciata dalla disoccupazione, ma il cardinale non lo sa.”
(http://temi.repubblica.it/micromega-online/rubygate-dove-lo-sgomento-nelle-parole-di-bagnasco/).
Piero Stefani annota suggerendo un parallelo storico drammatico e con sguardo sconsolato sul presente: “Quando il primo ventennio aveva imboccato la strada dello sfacelo, ci fu qualche sussulto; è il caso degli ultimi mesi di pontificato di Pio XI. Tuttavia neppure allora ci fu una seria messa in discussione dello scoperto appoggio che si era dato in precedenza. Né avvenne alcuna franca ammissione di aver sbagliato. La statura culturale di papa Ratti è imparagonabile a quella di un Bertone, di un Ruini o dell’evanescente Bagnasco. Da lui ci si poteva, forse, aspettare qualcosa, dagli odierni cardinali non è dato attendere nulla e i loro tardivi distinguo non fanno che rendere più intensa la porpora presente sui loro abiti e sulle nostre guance. Semplicemente essi non sono all’altezza di comprendere il dramma del nostro paese in quanto ne sono parzialmente corresponsabili” (http://pierostefani.myblog.it 22.01.2011).
Queste voci fanno pensare alla corresponsabilità dell'attuale situazione che coinvolge anche tutti coloro che non hanno il coraggio di pronunciare parole chiare e vivere scelte conseguenti in queste drammatiche circostanze che il nostro Paese sta vivendo. E tutto ciò non solo in relazione agli ultimi scandali dei festini di un anziano signore malato di sesso (che peraltro è il presidente del consiglio), ma in considerazione di modelli di vita fondati sulla corruzione, sull’illegalità, sull’ipocrisia e sull’uso senza scrupoli del denaro, di una visione del mondo che umilia chi vive del proprio lavoro o lavoro non trova e conduce una vita fatta di fatica e di onestà. Modelli e visioni che poco - o meglio - nulla hanno che fare con il vangelo o con i cosiddetti ‘valori cristiani’ sbandierati a scopo politico.
Alessandro Cortesi op