21-11-2010 - I Domenica di Avvento - Anno A
Is 2,1-5; Rom 13,11-14; Mt 24,37-44
Omelia
Vegliate dunque perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà…
Avvento è un tempo nuovo. E’ tempo di attesa. La questione però sta su cosa si attende.
E’ attesa della venuta del Signore. C’è una venuta storica del Signore di cui si fa memoria. E ad essa si accompagna un’altra venuta: la venuta del Signore che verrà, del Risorto che porterà a conclusione e compimento la nostra storia.
Poi c’è una terza venuta, che si collega a queste due: è la venuta del Signore nella fede, nel quotidiano, nei percorsi delle nostre esistenze, quando l’incontro con Gesù coinvolge i cuori, nell’esperienza della fede e dell’amore, nell’impegno concreto a seguirlo.
Al cuore dell’esperienza cristiana sta l’attesa. il Figlio dell’uomo verrà. ‘Il Figlio dell’uomo’: è questo un titolo che i vangeli usano per parlare innanzitutto di Gesù, nella sua vicenda umana. Colui che è passato facendo del bene; in particolare il figlio dell’uomo che ha i tratti del servo sofferente. Per comprendere Gesù la prima comunità si rifà a i testi dei profeti, del secondo Isaia in particolare in cui cui si parla del ‘servo’ che ha dato la sua vita in solidarietà con il suo popolo. Dietro all’espressione figlio dell’uomo sta questo primo riferimento: è rinvio alla sua prassi, al suo agire di cura e apertura all’incontro, al suo accogliere pubblicani e peccatori, al suo intendere la vita come servizio, al suo presentarci un volto di un Dio di misericordia. Ma anche ‘figlio dell’uomo’ è espressione che rinvia, secondo il profeta Daniele ed anche in altri testi della letteratura ebraica conosciuti nel I secolo, ad una figura degli ultimi tempi, ad una presenza che proviene da Dio e che ha la funzione di giudicare la storia e di vincere ogni potere umano. Figlio dell’uomo diviene così un titolo per esprimere il Risorto e per dire la speranza presente nella prima comunità che Cristo tornerà. Conosciamo questa speranza con le parole di una preghiera antica che ha la tonalità della lingua aramaica: Marana thà. Essa può essere intesa in due sensi. Come invocazione: ‘Marana thà’, Vieni Signore Gesù; o anche come affermazione, come espressione della fede, ‘Maran athà’, Il Signore viene.
Il tempo di avvento ci invita ad entrare in questa attesa piena di fiducia: il Signore viene. Siamo rinviati al suo venire nell’esperienza storica di Gesù di Nazaret, nei suoi gesti, nelle sue parole, nella sua testimonianza fino alla morte vissuta come gesto di amore fino alla fine. Siamo però richiamati al suo venire in questa nostra storia che è storia visitata. C’è una visita che continua del Signore nella nostra vita e siamo chiamati a discernere i segni, ad essere pronti e capaci di vegliare. Vegliate perchè non sapete…
Quando la distrazione e l’appesantimento divengono evidenti… “come nei giorni che precedettero il diluvio, mangiavano e bevevano… e non si accorsero di nulla…” quello è il momento per rimanere svegli, per scorgere i segni del venire del Signore e della sua chiamata.
L'avvento è situato e si attua nel tempo: l'incontro di Dio e dell'uomo. Solo stando nel tempo, mantenendo fedele alla terra, l'uomo può scrutare il cielo. Solo accogliendo il tempo si può entrare nell'eternità. L’avvento ci dice che chi accoglie fino in fondo questa vita ottiene la vita eterna. Come fu ai tempi di Noè... non esiste un ‘quando’ o un ‘come’ particolare: sempre è quel ‘quando’ e quel ‘come’... sempre è avvento e pienezza del tempo...
“Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna” (Gal 4,4) ... Dio ha unito a sé questa storia, questo tempo. Ma non in modo stupefacente o eclatante... una notte tra tante altre... eppure un tempo ‘pieno’ perchè Maria e Giuseppe lo abitavano con la consapevolezza che in esso il Signore viene e si manifesta. Di questa consapevolezza e di questa fiducia la chiesa dovrebbe essere testimone nella storia.
Non viviamo l’Avvento come esperienza ingenua e infantile (nel senso negativo del termine), ridotta ai riti del Natale divenuto festa della famiglia chiusa in se stessa, egoista e indifferente, del mondo dello spreco o dei buoni sentimenti di una giornata. Accogliamo l’invito a vegliare: il cristiano attende una novità radicale nella storia e su questo fonda il suo seguire Gesù Risorto nel presente. E’ un’attesa che accomuna e fa guardare con attenzione a tutte le attese umane. Ogni uomo e donna attende qualcosa, non dorme per qualche preoccupazione che l’angustia o per qualche obiettivo da realizzare nella sua vita: la speranza di una liberazione interiore o dalla malattia, l’attesa di vita per se e per gli altri, un obiettivo semplice e quotidiano come l’esito di una richiesta di lavoro o l’arrivo di un pagamento per poter sostenere l’economia familiare. L’avvento spinge a condividere tutte queste attese, come anche tutte le attese religiose al cuore dei percorsi di fedi diverse. Vegliare è condividere tutta questa corrente di attesa che segna la vita dell’umanità concreta di chi ci è vicino e lontano. Vegliare guardando a Gesù come Figlio dell’uomo è anche saper leggere tutti questi percorsi legati e radicati in una grande attesa: l’attesa appunto del Figlio dell’uomo che verrà. Gesù il Risorto non sta dietro a noi ma sta davanti a noi e ci attende. E’ lui che ci raggiunge e viene incontro, in ogni uomo e in ogni tempo. Nella fatica del presente, nel rischio di cadere nella sicurezza garantita e nelle distrazioni mantenere vivere l’attesa è ricordare ciò che veramente è essenziale: è una presenza, è un incontro che smaschererà ogni menzogna e ogni illusione di false felicità e false sicurezze. Ma che porterà una novità radicale e assoluta che pur è presente come germe e come dono in questa nostra storia.
Dalla Parola alla preghiera
Aiutaci Signore a maturare il senso dell’attesa delle cose essenziali…
Donaci di partecipare alle attese più profonde dell’umanità…
Rendici capaci di vigilanza, non farci perdere il senso cristiano di un venuta del Signore che sarà la grande novità da preparare e da sperare…
---
Omelia all’Eucaristia di esequie di fr. Armando Felice Verde, Domenicano
Chiesa di san Domenico - Pistoia - 25 novembre 2010
Liturgia della Parola
Is 61,1-3
Salmo 16
1 Gv 4,7-12
Mt 9,10-13
Dio è amore. E’ questa la grande intuizione che ha guidato la vita di padre Verde. Padre Verde per tutti coloro che lo conoscevano, i suoi ragazzi, chi lo seguiva alla Messa delle 19 la domenica. Armando Verde per tutti coloro che avevano con lui un rapporto di studio e collaborazione di ricerca e stimavano in lui il docente e il ricercatore. Felice, fra Felice, per i confratelli e per tutti coloro che l’hanno conosciuto e gli sono stati accanto negli ultimi lunghi anni, quando la sua capacità intellettuale si era affievolita e la sua vita è stata uno spogliamento progressivo, quasi un itinerario di svuotamento. Spogliato, poco alla volta, nell’ultimo, prolungato, tempo della sua vita, di ogni cosa, della sua capacità di scrivere, della sua passione per lo studio e la ricerca, della lucidità intellettuale fino ad essere in tutto dipendente dagli altri. Povero di fronte all’amore di Dio, e nello stesso tempo ricolmato di questo stesso amore e del bene reciprocamente donato con chi gli è stato accanto.
Dio è amore: è stata questa la luce che lo guidava nel suo impegno di studioso. Dio nessuno lo ha mai visto, ma l’incontro con Lui passa attraverso l’amore dei fratelli. Se Dio è amore, Dio ci fa ricchi del suo amore: si deve lottare contro ogni forma di povertà che non rende possibile il cammino della libertà e dell’amore.
Molti lo seguivano, affascinati dalla sua intelligenza e dal suo ragionare che partiva lentamente e si dipanava a ondate, talvolta restava sospeso, teso a sondare profondità insolite. Ma quella tensione non era curiosità di un erudito, o preoccupazione per trovare un’affermazione mondana. Piuttosto era traccia di una ricerca mai conclusa nel penetrare l’abisso dell’amore di Dio e di individuarne le esigenze di traduzione nella storia. Questo amore, dono presente nella storia dell’umanità, e capace di trasformare la vicenda delle esistenze in vicenda di amore.
Da qui il senso della vita come amore aperto, universale, senza confini: me l’ha ripetuto anche negli ultimi giorni quando parlava da dietro la maschera ad ossigeno. L’amore come unico senso dell’esistenza. L’amore è tutto. Se Dio è amore non s’impone. Se Dio è amore lo stile di chi l’ha incontrato è quello dell’uomo mite che nulla pretende, che rifugge da ogni genere di violenza, che smaschera le diverse forme del potere e si manifesta vulnerabile nella sua fiducia.
Aveva intuito sin da bambino una chiamata ad essere frate domenicano: “unto con l’unzione per portare la buona notizia ai poveri”. L’esperienza della povertà e del male lo rendeva sensibile all’esigenza evangelica di liberare ogni povero perché potesse vivere nella libertà. Da qui la ricerca del significato della giustizia in quanto attenzione al povero. Lo studio per lui era il luogo di questo cammino. Portare la buona notizia ai poveri: il vangelo per i poveri indicava anche per lui un percorso che richiamava ad un forte impegno civile, di dialogo ad ampio raggio.
E ciò richiedeva anche un cambiamento profondo nella chiesa: la riforma della chiesa. Una chiesa aperta al coraggio di perseguire vie di rinnovamento evangelico, radicale, fondate sulla scoperta di un amore disarmato, capace di comprensione, da offrire come unica ricchezza. Farsi poveri per amare. Fu questa intuizione che lo guidò sia nelle ricerche storiche sia nei suoi studi su Savonarola di cui ammirava non tanto gli aspetti sottolineati dai devoti, ma il senso della reformatio Ecclesiae, come movimento che coinvolgesse in un tessuto di relazioni profonde, viventi. Una chiesa capace di misericordia non prigioniera di strutture ideologiche, una chiesa capace di scoprire l’amore nel tessuto della vita del mondo e a servizio dei percorsi umani perché la causa di Dio è la causa dell’uomo.
Così scriveva nella Introduzione all’edizione dei sermoni di Savonarola sulla Prima lettera di Giovanni (Girolamo Savonarola, Sermones in primam divi Ioannis epistolam, a cura di A.F.Verde e E.Giaconi, ed Sismel Firenze 1998, XXVII-XXIX) un testo che ha alcuni tratti anche autobiografici: “Che il cuore dell’uomo sarà fatto buono dalla contemplazione del Cristo crocifisso, è la prospettiva cui il Savonarola rimarrà fedele per tutto il corso della vita… E’ dalla certezza della conoscenza sperimentale di Gesù raggiunta nei Sermones che in fra Girolamo matura la coscienza di essere profeta (‘vorrei tacere ma non posso’, ‘vorrei che altri fosse a parlare al posto mio’) … Lo sforzo che fra Girolamo sostenne sino al supplizio fu per essere così e per indurre altri ad essere così, fu per formare una congregazione di uomini e di donne fatti così, e addirittura per trasformare così l’intera Chiesa. E’ su questa prospettiva che egli cade? Se egli cade, cade la speranza evangelica. Ma è la sua utopia, quella di rendere alla Chiesa la dimensione evangelica nella quale è nata, che provoca il coinvolgimento storico per il quale il Savonarola dava alla sua utopia, differenziati nel tempo, contenuti storici.”
La vita di Felice fu segnato dall’incontro con Gesù: nei suoi libri scriveva sui frontespizi G.g. ‘Gesù grazie’ al compimento di ogni suo lavoro. Era ammirato ed affascinato da Gesù nel suo percorso umano e da Gesù incontrato come vivente nell’esperienza della fede. Il volto di Gesù che annuncia misericordia e apre una fede spogliata dalle sovrastrutture religiose e da costruzioni umane che ripropongono il volto del Dio dei sacrifici. “Andate a imparare che cosa vuol dire: Misericordia io voglio non sacrifici”.
Restava stupito con lo sguardo interiore di un piccolo davanti alle parole di Gesù: la parabola dei lavoratori nella vigna chiamati alle diverse ore fu la parola su cui si impegnò per tanti progetti, su cui investì il suo tempo e le sue energie, su cui elaborò tanti sogni e speranze cercando sempre una fede capace di guardare alla chiesa-mondo. La parabola della vigna era per lui una traccia: indica il volto di un Dio buono che non esclude ma include, presenta il senso di una comunità dove c’è il lavoro e ce n’é per tutti, in cui la giustizia si apre alla bontà. Dove la relazione tra le persone non è nel conflitto dei forti contro i deboli ma nella cura e nella solidarietà.
Ancora oggi l’ascolto comune di queste pagine della Scrittura che sono state parola di vita per Felice, ci invita a far tesoro di quella Parola che lui, nostro fratello, ha accolto, ha vissuto nella sua vita e ci lascia come eredità.
Alessandro Cortesi op