V Domenica di Quaresima
Is 43,16-21; Fil 3,8-14; Gv 8,1-11
OMELIA
“Non ricordate più le cose passate, non pensate più alle cose antiche! Ecco, faccio una cosa nuova, proprio ora germoglia e non ve ne accorgete?”
E’ difficile guardare a ciò che è rimasto in piedi dopo il terremoto. E’ difficile scorgere i germogli nella devastazione. E’ difficile gioire per i rari esempi di onestà laddove il verminaio della corruzione imperversa. E’ difficile pensare all’educazione di giovani generazioni in una atmosfera di legalità mentre il paese è terreno di ‘Gomorra’. La parola del profeta antico, e le parole dei profeti feriali del nostro tempo si pongono su di un’altura particolare: per questo sono rifiutati, derisi, tacciati di utopismo. La loro voce viene da quella terrazza di Abramo che è la terrazza della fede. Non è l’utopia disincarnata e spiritualista. E’ lo sguardo di chi vive la fede come ragione profonda per leggere il presente, per resistere a tutto ciò che fa pensare al piccolo interesse e tornaconto, a quanto offusca la vista e fa cadere nella rassegnazione, a tutte le parole di imbonitori cariche di promesse senza spessore.
Qualcosa sta per nascere. E’ una novità che si può scorgere solamente con occhi capaci di sostare dinanzi alle cose piccole… E’ come un germoglio, silenzioso e fragile che annuncia la bella stagione, che nel deserto indica la gioia della vita nascente al di là di tutto quello che contro di essa lotta e la fa appassire. La speranza non è mai evidenza e sicurezza; piuttosto è cammino, è ripartire verso un orizzonte di cui si intravede il profilo e per cui si avverte profonda la chiamata. Si tratta – allora nel tempo dopo l’esilio, la devastazione, la perdita - come oggi, sempre di un nuovo esodo, il ripetersi di quell’esperienza di incontro. Il non venir meno del Dio fedele è la grande scoperta vissuta nel deserto, laddove non ci sono templi, non c’è sacerdozio, non istituzioni di potere, ma solo la cura di Dio che si fa vicino e solidale: non quindi il Dio del tempio, ma il Dio della tenda, che plasma e si crea un popolo nel percorso di ricerca della libertà. Al cuore di questa novità sta un rinnovato appello del Dio vivente e liberatore. Chiama ad un nuovo passaggio, Pasqua di libertà, verso un orizzonte di vita. Il motivo di tutto questo non viene da noi: è Dio il fedele alle sue promesse, è lui che aprirà la strada, lui come il vasaio che plasma la creta e vie la passione di plasmarsi un popolo: ‘Aprirò anche nel deserto una strada, immetterò fiumi nella steppa… il popolo che io ho plasmato per me celebrerà le mie lodi’. La novità si apre solo nel deserto, nel cammino, nel tempo faticoso, nell’ascolto di questo invito ad andare… ancora.
“Dimentico del passato e proteso verso il futuro, corro verso la meta per arrivare al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù”
L’immagine è quella della corsa allo stadio, tipica della cultura greca che nelle città faceva costruire grandi stadi. La corsa degli atleti diviene così metafora di quella corsa che è la vita. Una corsa in cui il fiatone si fa sentire. Paolo vuole correre per ‘conoscere la potenza della sua risurrezione, la partecipazione alle sue sofferenze, diventandogli conforme nella morte, con la speranza di giungere alla risurrezione dei morti’. Ancora una strada, da percorrere, su cui correre. Ma non è un correre per un premio, o per una meta: è un correre per andare incontro e per essere incontrati. C’è fretta, c’è bisogno di impegno: è impresa atletica. Ma tutto non si radica nella prestanza fisica ma nel dono. Solo da lì si può scorgere come tutto valga la pena lasciare pur di raggiungere Cristo.
‘Và e d’ora in poi non peccare più’.
Gesù apre un futuro nuovo a questa donna, sfruttata, calpestata dal giudizio implacabile dell’ipocrisia maschile di quegli uomini che vogliono lapidarla. Per primo si rivolge a lei, le parla riconoscendo la sua dignità, pnendosi dinanzi ad un volto, non ad un caso o ad un problema. La riconosce come un ‘tu’ davanti a lui; la sofferenza e l’umiliazione di lei sono cariche di senso; la riconosce con quella dignità che le era stata tolta due volte, dalla accusa pubblica e dall’indicarla come peccatrice da parte di chi si riteneva giusto. La critica di Gesù è senza riserve verso chi si pone come paladino della moralità, giudice implacabile e negatore di ogni possibilità di cambiamento e di perdono: ‘Chi di voi è senza peccato scagli per primo la pietra contro di lei’. Rispondendo al tranello dei suoi interlocutori, se fosse lecito o meno lapidarla, sarebbe andato contro il diritto ebraico (se l’avesse perdonata) o contro il diritto romano (perché solo ai romani spettava il diritto di condannare a morte). Gesù percorre la via del silenzio di fronte al rifiuto e alla durezza del cuore. Continua a scrivere con il dito per terra: un testo di Geremia può aiutare: ‘sulla terra verrà scritto chi ti abbandona, perché hai abbandonato il Signore sorgente di acqua viva’ (Ger 17,13). Il lento andarsene di tutti è sottolineato con una certa ironia: ‘uno per uno, cominciando dai più anziani fino agli ultimi’.
‘Rimase solo Gesù con la donna là nel mezzo’: non c’è solo un’indicazione spaziale, lì, in mezzo, ma c’è forse anche l’indicazione di un centro della vita, in mezzo al cuore. Quella donna scopre per esperienza profonda, come evento che le tocca il cuore, nel mezzo della sua vita e del suo cuore il volto di chi la guarda con occhi che sanno dare perdono pieno di compassione, e di coraggio, e sanno liberare e non coltivano giudizi sul passato ma aprono al futuro. L’incontro con Gesù la apre ad un futuro in cui non c’è condanna ma attesa, non solitudine ma parola che apre alla relazione. E’ lo sguardo di Gesù. Non condanna ma apertura ad un cammino nella vita: ‘Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata? Ed essa rispose: Nessuno Signore. E Gesù le disse ‘Neanch’io ti condanno….’ Non condannare ma essere presenza di relaizone che apre ad un futuro di vita: è uno stile che Gesù ha lasciato ai suoi: sapremo metter qui tutta la nostra energia, sapremo imparare a diventare persone e comunità capaci di testimoniare questo sguardo, di stare in questo cammino, di scoprirci per primi guardati in questo modo per poter comunicare non parole vuote e dottrine, ma parole piene di vita, di liberazione e di un incontro vivente?
UNO SPUNTO DA….
“Gesù la taliò, taliò l’omo grosso e tutta l’altra gente che aspettava la sua parola. ‘Chi è senza peccato scagli la prima pietra’ – disse a bassa voce, gli mancava il fiato per la stanchizza. Non aveva ancora chiuso la bocca che una pietra volò nell’aria, spaccò la fronte alla femmina. Tutti si voltarono a taliàre l’omo senza piccato. Era Jacob, ladro, stupratore e assassino. Ma sordo come una campana, povirazzo. Allora una gragnuola di pietre seppellì la picciotta. Gesù fece appena in tempo a scansarsi”
(A.Camilleri, Favole del tramonto, ed. dell’Altana 2000)
Camilleri riscrive la pagina del vangelo di Giovanni: scolpisce in un quadro sintetico la situazione che precipita. Gesù rivolge lo sguardo (taliò) alla donna e alla gente. La folla cerca un capro espiatorio: la folla titubante e curiosa, al primo accenno, in questo caso al gesto compiuto da un sordo che non ha nemmeno udito le parole di Gesù, Jacob ladro strupratore e assassino, non tarda a scatenarsi nella sua aggressività e nella sua violenza. E’ la mimesi del gesto che diviene modello di una violenza che si propaga, ciecamente e senza limiti su di una donna sola. La prima pietra gettata parte da un uomo, fisicamente sordo, ma forse più in profondità moralmente sordo. E’ sufficiente il suo primo gesto, la folla lo imita scatenando i suoi istinti. La folla racchiude in sè potenzialità pericolose; nel suo radunarsi vive fenomeni di mimetismo per cui ad un gesto di uno segue una ripetizione ed il coinvolgimento cieco della massa. E’ sufficiente che parta la prima pietra perché si scateni una violenza cieca e irragionevole.
Camilleri - scostandosi dal racconto evangelico in cui Gesù non alza lo sguardo, rimane chino a scrivere per terra, una scrittura indecifrabile e tracciata sulla polvere - nota come Gesù ‘taliò’, guardò profondamente la donna e la gente. Parla a bassa voce per non scatenare la rapida escalation della rabbia. Ma il gesto del sordo scatena il linciaggio collettivo. E’ il ritratto del bisogno insito nella folla sorda di individuare una vittima su cui scaricare la propria violenza. E’ il meccanismo della ricerca del capro espiatorio, della vittima su cui, un consenso satanico riversa i sentimenti di vendetta e di violenza.
René Girard ha descritto nelle sue opere come questo dinamismo stia al cuore dei miti e dei riti del sacrificio nelle religioni arcaiche (R.Girard, Vedo Satana cadere come la folgore, Adelphi 2001). A partire dal suo lavoro La violenza e il sacro, il filosofo francese ha rivolto la sua analisi alla violenza rituale e al suo rinnovarsi ciclicamente come valore fondante, nelle culture mitiche. L’omicidio rituale costituisce una delle caratteristiche dei miti di fondazione – si pensi a Romolo, a Caino – e rappresenta il carattere di ‘violenza mimetica’ che sta alla base di un patto sociale religioso. Le azioni delle persone sono intraprese esclusivamente in quanto viste fare da un altro che viene ad essere un modello. L’uomo, individuo desiderante per eccellenza, basa ogni suo movimento sull’essere secondo l’altro, sull’omologarsi ai costumi, ai modi di vita di chi gli sta accanto. Vuole qualcosa non per appetito, ma per desiderio, perché la vuole anche l’altro. La folla diviene così il luogo in cui si riproducono desideri imitativi, ed i conflitti che sorgono da tali desideri: sorge così quel contagio mimetico in cui il tutti contro tutti viene a trasformarsi nel tutti contro uno. Girard cita l’esempio del taumaturgo ellenistico Apollonio di Tiana che scaccia la peste da Efeso, inducendo la folla a lapidare un miserabile mendicante cieco, individuato come responsabile dell’epidemia perché ostile agli dei e causa perciò dell’ira divina. Ma è anche il meccanismo per cui una categoria di persone, i disabili, gli ebrei, gli untori di manzoniana memoria, sono individuati come responsabili di un male. E la folla si ritrova unita e sicura che il sacrificio che sta compiendo è giusto.
Nell’analisi di Girard il cristianesimo, a partire da Gesù, rompe il meccanismo della ricerca e produzione della vittima verso la quale la violenza della folla, della società, si scatena. Gesù di fronte alla donna adultera non propone una via di confusione tra il bene e il male, non chiede di essere incapaci di giudizio morale. Piuttosto opera una rottura sul meccanismo della individuazione del capro espiatorio. Il ‘chi è senza peccato scagli la prima pietra’ è letto da Girard come una rottura che esprime la novità della rivelazione cristiana. Colei che è individuata come vittima diviene intoccabile. Sulla croce questo processo ha il suo compimento. Gesù si pone egli stesso come vittima, liberamente: rompe con la religione della vittima. "Il trionfo della Croce non è ottenuto in alcun modo con la violenza, ma al contrario è il frutto di una rinuncia così totale alla violenza che quest’ultima può scatenarsi a sazietà su Cristo” (ibid. 184-185). Paradossalmente quando sulla croce si identifica con ogni vittima sotto di lui la folla lo beffeggia dicendo: ‘ha salvato altri non può salvare se stesso?’. Gesù presenta il volto di un Dio che non salva se stesso, esce dal meccanismo della mimesi della violenza collettiva che si scatena su di un capro espiatorio (cfr. P. Mancinelli, Cristianesimo senza sacrificio, filosofia e teologia in R. Girard, Cittadella, Assisi 2001) Ma la rottura operata da Gesù, quale ‘uscita dalla religione’, rimane sempre critica aperta anche alle forme storiche del cristianesimo che ripropongono questi meccanismi.
DALLA PAROLA ALLA VITA
“…Per riveder le stelle del diritto”
“…Per riveder le stelle del diritto” è il titolo di un documento di Pax Christi del 14 marzo u.s.in cui si dice la preoccupazione per la grave situazione del nostro Paese e si auspica “una inderogabile azione comune per uscire da questo momento camminando sulle strade costituzionali della legalità, della giustizia e del diritto”. In particolare il documento richiama quanto ha detto mons. Domenico Mogavero, Presidente del Consiglio della Conferenza episcopale italiana per gli Affari Giuridici - a proposito della questione della presentazione delle liste per le elezioni regionali e del cosiddeto decreto salvaliste - per il quale “cambiare le regole del gioco mentre il gioco è in corso è un atto altamente scorretto”.
Richiama ad una vigilanza per dare voce a chi denuncia l’attitudine di chi vede la tutela delle frontiere più importante della tutela della famiglia e dell’educazione dei minori, così pure “la voce di chi denuncia gli abusi e le speculazioni legate al terremoto in Abruzzo, la privatizzazione di alcuni beni vitali come l'acqua, i gravi problemi del mondo del lavoro, il rischio che venga cancellata la legge 185 sul controllo del commercio delle armi”. Il documento ricorda l’importanza di allargare lo sguardo sui conflitti dall’Iraq alla Palestina e denuncia “il silenzio sugli F35 assemblati a Novara e la nascita della “Difesa spa” che aggraveranno la corsa incontrollata al riarmo”.
E' normale che ci tremino le ginocchia ma almeno che ci tremino nel posto in cui dobbiamo essere
"Abbiamo incontrato i contadini senza terra e senza lavoro stabile, senz'acqua, senza luce e senza scuole. Abbiamo incontrato gli operai privi di diritti sindacali, licenziati dalle fabbriche quando reclamano e completamente alla mercé dei freddi calcoli dell'economia. Abbiamo trovato gli abitanti dei tuguri, la cui miseria supera ogni immaginazione, con l'insulto permanente dei palazzi vicini. In questo mondo disumano, la chiesa della mia arcidiocesi, sacramento attuale del servo sofferente di Jahweh, ha cercato di incarnarsi" (Oscar Arnulfo Romero)
In questi giorni ricorrono trent’anni dall’uccisione, avvenuta durante la celebrazione eucaristica nella cappella dell’ospedale della divina Provvidenza a San Salvador del vescovo Oscar Arnulfo Romero (24 marzo 1980). Riprendo alcune parole dall’omelia di don Tonino Bello pronunciata a Roma nella chiesa di santi apostoli il 24 marzo 1987:
“Ma la Parola di Dio, oltre la spiritualità dell'esodo, ha costruito nel santo vescovo salvadoregno la spiritualità che, raccogliendo lo spunto da un apologo, potremmo chiamare del dito puntato.
Fu lo stesso Romero a raccontarlo, nell'omelia del funerale di padre Navarro, un altro prete ucciso nel maggio del 1977: ‘Si narra che una carovana, guidata da un beduino del deserto, era di-sperata per la sete e andava cercando acqua nei miraggi del deserto. E la guida diceva loro: Non di là, di qua. E così varie volte, finché uno della Carovana, innervositosi, tirò fuori la pistola e sparò alla guida che, ormai agonizzante, tendeva ancora la mano per dire: non di là, ma di qua. E così morì, indicando la strada’.
C'è in questo apologo il riverbero di una coscienza profetica che in Romero ha ormai preso corpo e che, di giorno in giorno, diventa sempre più chiara. ‘Così dice il Signore: grida a squarciagola, non avere riguardo. Come una tromba, alza la voce. Dichiara al mio popolo i suoi delitti, alla casa di Giacobbe i suoi peccati’.
Romero percepisce che vi sono potenze antitetiche alla salvezza proposta da Cristo e vi si oppone risolutamente con quegli atteggiamenti tipici che connotano lo stile dei primi martiri cristiani: la parresia, la kàuchesis, la speranza.
Parresia è lo stile di chi, in piedi, a faccia alta pur senza protervia, parla apertamente e con piena libertà di linguaggio del suo incontro con Dio, alla cui Parola si sente ormai irrevocabilmente consacrato.
Kàuchesis è il vanto che uno mena della croce del Cristo. E' il gloriarsi di lui, della sua persona, della sua unica signoria, che diventa fondamento delle proprie scelte personali.
Speranza è l'atteggiamento di colui che, mentre si addensano le tribolazioni sulle sue spalle, non lascia spegnere il canto sulla sua bocca.
Basterà leggere le omelie di Romero per rendersi conto di come queste tre dimensioni innervarono la sua esistenza teologica. Il parlare con coraggio e a viso aperto rivela, alle sue spalle, il "più grande io" a cui si è ormai abbandonato, anche se non mancano i fremiti della paura. ‘E' normale che ci tremino le ginocchia - diceva spesso - ma almeno che ci tremino nel posto in cui dobbiamo essere’.
E' parresia anche questa”.
Alessandro cortesi op