16-5-2010 - Ascensione del Signore
At 1,1-11; Eb 9,24-28; 10,19-23; Lc 24,46-53
Omelia
“Non spetta a voi conoscere tempi o momenti che il Padre ha riservato al suo potere, ma riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e di me sarete testimoni”
La vita cristiana nasce con un’assenza che fa soffrire, segna la vita e la mantiene sospesa. E’ l’assenza di Gesù che ha patito, è stato immerso nella morte, ma ‘si mostrò ad essi vivo dopo la passione’. Eppure la sua presenza è diversa da prima. C’è un abbandono che lascia interdetti e interrogativi: “essi stavano fissando il cielo mentre egli se ne andava…”. Se n’è andato, non può essere trattenuto in un passato che non lo può più rinchiudere. La forza di vita ha vinto la morte: la risurrezione non è ritorno, ristabilimento della condizione di prima. E’ novità assoluta, apertura che spalanca i limiti della vita che conosciamo. Fissare il cielo, ricercando in qualche angolo lontano le tracce di una presenza di cui si ha nostalgia è gesto espressivo ma anche movimento interiore di chi ha voluto bene a Gesù e lo cerca chissà dove, perché pensa di poterlo di nuovo incontrare. Come prima, in qualche luogo di un mondo delimitato dal cielo. Fissare il cielo è il gesto dell’affetto e della nostalgia, racchiude tutta la tristezza e la sofferenza che pensa un ritorno, che spera di fermare il tempo e farlo tornare indietro. Ma è anche sguardo che spalanca all’oltre, che si alza al cielo, spazio lontano di Dio altro dalla terra, eppure anche sede di un Dio che si è mischiato con questa terra.
Le parole che interpretano l’assenza sono parole di messaggero: “questo Gesù… verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo”. Non un’assenza fatta di vuoto allora ma la promessa di un ritorno, l’assicurazione di una presenza che continua. Ma diversa, nuova, che spinge ad un modo nuovo di vedere. “Riceverete la forza dello Spirito santo”. Dello Spirito si parla sempre in termini dinamici. E’ forza, è presenza che opera, guida, consola, ricorda. Soprattutto è dentro ai cuori: è l’ospite inatteso che dall’interno suggerisce. Il grande suggeritore che spinge a fare i passi di un incontro nuovo. Gesù non appartiene al passato ma la sua è presenza viva. E apre al futuro.
“ma voi restate in città, finché non siate rivestiti di potenza dall’alto”
Dello Spirito santo non si parla in termini teorici: è dono che va accolto e ricevuto come forza dall’alto: non proviene da noi. E’ piuttosto presenza che apre alla fede in Gesù il Cristo, il vivente, di cui rintracciare la storia e a cui guardare per essere testimoni di lui, dei suoi gesti, delle sue parole, nel presente. Solo ricevendo la forza dello Spirito, forza di soffio che non può essere rinchiuso e trattenuto, vento che scuote porte e barriere, si può diventare testimoni. E’ potenza dall’alto, ma è potenza fragile e delicata: è energia di vita che porta a lasciarsi coinvolgere in una corrente di vita che sta dentro i cuori. In modi talvolta non decifrabili secondo gli schemi umani. Lo Spirito precede sempre. Non è presenza definibile. Si riconosce dai frutti, là dove ci sono gesti, movimenti del cuore, scelte che indicano, che attualizzano, che ricalcano il cammino di Gesù. Per questo la vita cristiana non è vita nell’assenza, ma nell’incontro. E’ un incontro difficile, ma richiede soprattutto affidamento, lasciare spazio alle spinte interiori verso una verità sempre più grande da inseguire e da cui lasciarsi afferrare e conquistare (anziché pretendere di conoscere e racchiudere in una dottrina). Sulla via. Lo Spirito è forza che spinge non più a restare ma ad andare: è da attendere restando, ma apre a divenire testimoni, capaci di parola, di stare sulla via.
La via di Gesù è stata un salire: è salito infatti al Calvario e poi ancora su fin sulla croce. Dopo la morte, il suo risvegliarsi dal sonno della morte, il suo ‘alzarsi’, la risurrezione, è presentata come salita alla destra del Padre: “Gesù li condusse fuori verso Betania e, alzate le mani, li benedisse. Mentre li benediceva, si staccò da loro e fu portato verso il cielo. Ed essi, dopo averlo adorato, tornarono a Gerusalemme con grande gioia; e stavano sempre nel tempio lodando Dio”.
Ascendere è movimento di salita, ed è movimento simbolico di tutta la vita di Cristo. Ascesa è cammino faticoso, lento, non immediato. Lo Spirito è il dono per poter salire con Cristo, insieme a Lui, per lasciarsi afferrare, dono interiore seminato, presente in tutti, dono che può spingere la vita a fiorire nel salire insieme: è il movimento dell’incontro, è lasciarsi prendere senza la pretesa di un dominio che viene da noi. E’ dono per poter essere guidati in questo salire della vita, per poter scorgere il senso profondo del nostro esistere, per poter leggere dentro il nostro cuore, per poter aprirsi all’incontro con Cristo e con il Padre. Non Spirito dell’assenza, ma della presenza e della gioia possibile per la sua presenza silenziosa e nascosta interiore, intima nei cuori che possono aprirsi ad un Incontro.
Uno spunto da…
Daoud Hari, Il traduttore del silenzio, ed.Piemme 2008
“Vicino al mio villaggio c’è una bella montagna che abbiamo sempre chiamato il Villaggio di Dio. Anche se in tutta la nostra zona la religione musulmana è praticata sia dagli indigeni africani come me sia dai nomadi arabi, è pur vero che la nostra gente, specialmente i nostri giovani, sono sempre saliti su questa montagna per offerte nelle piccole cavità della roccia. Vi depongono grano, miglio o fiori selvatici, insieme a letere che ringraziano Dio o gli chiedono qualche favore. Accade da ben prima che le religioni più recenti arrivassero fino a noi”
Sembra una pacifica descrizione di usanze proprie di un popolo africano, ma dietro queste parole si cela la vicenda di Daoud Hari e il dramma della regione del Darfur. Originario di un villaggio della tribù zaghawa Daoud viene inviato dal padre lontano dal suo villaggio in luoghi dove poter studiare. Impara l’inglese, scopre che c’è qualcosa di ben diverso delle armi per poter cambiare la propria esistenza. Vive diverse esperienze di lavoro nella ricerca di poter proseguire gli studi ma incontra anche il carcere in Egitto e alla vigilia di essere rinviato nel Sudan le porte del carcere in modo insperato gli si aprono. Decide così nel 2003 di ritornare nella regione del Darfur al suo villaggio per ritrovare notizie e incontrare la sua famiglia in una zona segnata dalla violenza, dalle incursioni delle forze militari dirette dal presidente Bashir e dai guerrigilieri janjaweed, sobillati dal governo sudanese. Queste milizie arabe compiono incursioni improvvise nei villaggi di africani non arabi, lasciando devastazione, incendi delle capanne, morte e causando la fuga di milioni di profughi. Daoud inseguendo le vicende della sua famiglia vive in prima persona la vigilia e lo scoppio di uno di questi attacchi al villaggio e lì si troverà a perdere suo fratello Ahmed e a seppellirlo.
Dopo questo massacro Daoud si rifugia nel Ciad, luogo di concentrazione di campi profughi che raccolgono la popolazione sfuggita ai massacri e alle violenze dopo giornate di cammino nel deserto. Si apre alla sua missione di essere traduttore del silenzio, accompagnatore di giornalisti nei luoghi delle violenze e dei massacri, per far sì che il genocidio in atto nel Darfur sia conosciuto nel mondo. Raccolgie i racconti raccapriccianti dei sopravvissuti, accompagna giornalisti e personale umanitario ad essere testimoni di massacri, di violenze inaudite su donne, bambini, persone indifese. Una scelta, la sua, vissuta come alternativa a quella di imbracciare le armi unendosi ai gruppi di opposizone alle forze governative sudanesi e ai gueriglieri janjaweed. La testimonianza offerta nel libro da Daoud è tremenda soprattutto nelle pagine che narrano la disumanità delle violenze perpetrate nei confronti di popolazioni civili. “Dopo l’attacco al mio villaggio questa era diventata la mia ragione di vita, l’unica ragione di vita. Mi sentivo morto dentro e volevo solo che i giorni che mi restavano servissero a qualcosa...”. Daoud si sente un sopravvissuto, e racconta con tratto leggero, quasi distaccato rispetto alle sofferenze subite, la vicenda della sua prigionia e della tortura subita accompagnando Paul un giornalista americano in un viaggio nel territorio popolato dai guerriglieri epr un reportage sulla situazione. E’ questa vicenda che lo porta ad abbandonare il Darfur e a continuare da Baltimora, come rifugiato, la sua opera di traduzione della voce silenziosa e del grido che sale da una tragedia che non riempie le prime pagine dei giornali. La domanda inquietante che Daoud pone a conclusione del libro apre ad interrogarsi sulla responabilità di fronte a tragedia del nostro presente: "Il sistematico massacro e l'allontanamento dei popoli tradizionali non arabi del Darfur da parte del governo sudanese di Bashir rientra in un programma di soppressione del dissenso, di eliminazione dei pretendenti al potere, di sfruttamento illimitato di risorse, e di trasformazione di una minoranza araba in una maggioranza araba. E' possibile farlo in questo secolo? E' possibile risolvere tutti i problemi uccidendo chiunque rappresenti un ostacolo? Sta al mondo deciderlo. Decidere se e quando la popolazione tradizionale del Darfur tornerà a casa significa decidere anche se il genocidio funziona o no, e quindi se accadrà di nuovo in altre parti del mondo”.
Ascensione è salita: Daoud invita a salire con lui sulla montagna chiamata Villaggio di Dio per farsi propagatori della traduzione di voci silenziose presenti nei disegni dei bambini dei campi profughi, racchiuse negli sguardi delle donne che hanno abbandonato i loro vestiti coloratissimi, per spargere i loro capelli con la polvere e indossare gli abiti colore della terra e del fango segno del lutto e del ricordo di un popolo sterminato.
Dalla Parola alla vita
Il 10 maggio u.s. Eugenio Scalfari si è recato a far visita al card. Martini, a Gallarate nella casa di riposo dove risiede. Una visita vissuta con il desiderio reciproco di un confronto e di un dialogo. Il tema proposto dal card. Martini era la risurrezione, un tema insolito per un confronto tra un credente e un non credente. Colpisce nel racconto di Scalfari di questo incontro, la sincerità e trasparenza di Martini da un lato e la disponibilità e rispetto da parte di Scalfari dall’altro (E.Scalfari, Ragionando con Martini di peccato e Risurrezione, La Repubblica 13 maggio 2010). Tale richiesta, di discutere insieme su temi quali la risurrezione, può essere indicativa di uno stile di rapporti che i credenti potrebbero instaurare nell’attuale contesto della pluralità delle visioni del mondo e delle fedi. Un interrogarsi alto, rispettoso, capace di lasciarsi sfidare dalle inquietudini e dagli orizzonti di senso che guidano la vita dell’altro e capace anche di esprimere in prima persona ciò che costituisce i motivi fondamentali di riferimento della propria vita. Nel contempo un approccio delicato, signorile, nutrito di profondo rispetto per quell’agire dello Spirito che soffia in ogni persona umana e che non permette che nessuno sia pure con la sua autorità istituzionale o con la sua competenza possa assumere atteggiamenti autoritari, aggressivi, di disprezzo del cammino altrui.
Traggo solamente uno scambio di battute che sta al centro del dialogare, uno scambio che assume l’indicazione di una via da seguire per quello che si apre come un rinnovamento profondo, una riforma del volto di chiesa nel presente e nel futuro. Se si potesse imparare nel contesto attuale a dialogare in questo modo:
Scalfari osserva: “la Resurrezione,… ha più l'aria d'una sfida che di un terreno d'incontro. Chi come me non crede nell'oltremondo, tantomeno crede nella Resurrezione di Gesù e nella nostra. Lei però vede nel Resurrecturis il fulcro della sua vita spirituale. Può spiegarmene la ragione? In fondo si tratta di un miracolo. Pensavo che lei fosse piuttosto scettico sui miracoli".
M: "La Resurrezione del Cristo non è un miracolo. Il Dio che attraverso il Figlio ha assunto natura umana, dopo la morte sulla croce riassume la sua natura divina e immortale".
S. "Capisco. Ma la Resurrezione dei morti? Quello è un miracolo".
M. "È un mistero, un mistero della fede. Lei mi ha chiesto perché rappresenta, per me e per tutta la comunità dei fedeli, il fulcro della nostra vita. Cercherò di spiegarlo. La Resurrezione dei morti è un fatto storicamente positivo. Lo Spirito risorge in tutti noi. Risorge ogni giorno, risorge quando preghiamo, quando ci comunichiamo mangiando il pane e bevendo il vino del Signore, quando risorgono in noi la carità e la speranza del futuro, quello terreno e quello extraterreno. La storia del mondo non sarebbe quella che è se la speranza non alimentasse i nostri sforzi e la carità non illuminasse la nostra vita quotidiana. La Resurrezione dello Spirito è la fiamma che spinge le ruote del mondo. Lei può immaginare un mondo senza carità e senza speranza?".
S. "Non lo immagino infatti. Ma speranza e carità illuminano anche la vita dei non credenti o almeno di molti di essi. Noi non abbiamo bisogno della fede, l'amore del prossimo, secondo me, deriva da un istinto che opera in ciascuno di noi. È l'istinto della vita, l'istinto della socievolezza, l'istinto della sopravvivenza della specie".
M. "Lei pensa che quell'istinto sia sempre presente in ogni individuo?".
S. "Penso che sia sempre latente, ma sempre in contrasto con l'amore di sé. La vita non è che un eterno contrasto tra questi due elementi. La natura umana poggia sulla dinamica di questi due elementi".
M. "Ogni volta che l'amore del prossimo vince sull'egoismo dell'amore di sé, quello è il momento in cui lo Spirito risorge. Il fatto che lei lo chiami istinto non cambia la tessitura della vita: per me è la Resurrezione".
Parole che danno a pensare, parole che danno speranza per un cammino che nella diversità delle visioni può essere comune e condiviso.: “L'incontro era finito. Il giovane sacerdote era rientrato per aiutare il cardinale ad alzarsi. Io gli dissi: "La prossima volta voglio vederla saltare alla corda". Mi guardò sorridendo e disse: "Torni presto". Poi mi accarezzò il viso con un tocco leggero. Feci altrettanto con lui. Eravamo tutti e due un po' commossi. Fuori continuava a piovere”. Quel saluto finale che si son scambiati reciprocamente: ‘Torni presto’ potrebbe essere colto quasi un paradigma di un diverso e nuovo atteggiamento del rapporto della chiesa, comunità dei fedeli, con il mondo, comunità di uomini e donne nel cammino della storia comune. Nel mondo degli scontri e dei ripiegamenti identitari, delle scomuniche e delle parole spesso arroganti e ultimative, quel ‘torni presto’ racchiude non solo la prospettiva di un incontro da coltivare, da amare, ma anche il desiderio e l’urgenza di un interrogarsi insieme su quelli che sono veramente i temi rilevanti dell’esistenza che è vita condivisa.
Alessandro Cortesi op