8-8-2010 - XIX Domenica tempo ordinario - Anno C
Sap 18,6-9; Ebr 11,1-2.8-19; Lc 12,32-48
Omelia
“La notte della liberazione fu preannunciata ai nostri padri perché avessero coraggio, sapendo bene a quali giuramenti avevano prestato fedeltà. Il tuo popolo infatti era in attesa della salvezza dei giusti…”
La notte della liberazione è la notte dell’uscita dall’Egitto. E’ la grande notte della Pasqua: Israele celebra in quella notte l’opera di Dio che ha fatto uscire il suo popolo: l’evento di luce che apre ad un cammino nuovo: “per i tuoi santi invece c’era una luce grandissima… desti loro una colonna di fuoco come guida di un viaggio sconosciuto e sole inoffensivo per un glorioso migrare in tera straniera” (Sap 18,3). E’ un celebrare per ricordare in modo vivo e per tornare a vivere cosicchè nella celebrazione di quella notte ogni generazione deve sentirsi come se fosse uscita dall’Egitto. Celebrare è quindi fare memoria e rendere grazie a Dio per la sua opera, e nel contempo ricordare il proprio impegno di fedeltà. Gli egiziani, i nemici che sono stati sconfitti dalla mano potente di Dio, sono coloro che avevano fatto la scelta della violenza, dell’oppressione, del dominio: la scelta delle tenebre. I figli dei giusti sono illuminati dalla luce incorruttibile della legge (Sap 18,4). L’autore del libro della Sapienza ricorda che, dopo la liberazione celebravano questo momento con due gesti: l’offrire sacrifici al Dio liberatore, un atto di culto e di lode, e accanto ad esso l’impegno a condividere, ad essere solidali nel cammino. Chi celebra la notte della liberazione ha scoperto il volto di Dio che si china sulla debolezza e guarda all’oppresso: è questa la luce per il cammino nuovo. E si trova chiamato e coinvolto in questa vicenda di solidarietà e di salvezza verso chi è vittima e piegato dalla schiavitù. E’ questo il senso del ‘glorioso migrare in tera straniera’, un viaggio di scoperta della libertà e di un incontro con Dio che coivolge a condividere con l’umanità.
“Siate pronti, con le vesti strette ai fianchi e le lampade accese, siate simili a quelli che aspettano il loro padrone quando trona dalle nozze…”
Anche il vangelo parla di notte e di giorno: la prima parabola parla del padrone che ritorna nel mezzo della notte e trova i servi al lavoro, svegli, intenti alle loro opere. Per loro prepara una cena e si mette a servirli - sarà questo anche il gesto di Gesù nell’ultima cena, promessa e affidamento -. Beati quei servi che trovaerà ancora svegli. “E se giungendo nel mezzo della notte o prima dell’alba, li troverà così, beati loro!”. La seconda parabola ha il suo punto centrale nell’irrompere improvviso del ladro che viene, in modo inatteso e imprevisto a scassinare la casa: “nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo”. La terza parabola presenta un amministratore fedele, pronto, al suo posto, in qualunque ora il padrone torni: svolge il suo servizio nel quotidiano in fedeltà. “Beato quel servo che i padrone, arrivando, troverà ad agire così”.
Essere pronti è l’attitudine di chi veglia e si prende cura, l’abito di chi non si lascia sopraffare dalla distrazione o dalla dimenticanza del senso del tempo che gli è dato. E’ l’abito del cammino, di chi ha i fianchi cinti, e la lampada in mano per illuminare anche la notte. E’ il vestito della pasqua quando gli ebrei mangiarono insieme l’agnello divisi per famiglia pronti a partire, con i fianchi cinti: ‘Ecco come mangerete l’agnello: coi fianchi cinti, i sandali ai piedi, il bastone in mano’ (Es 12,11). Il viaggio a cui essere pronti è un sempre nuovo cammino di esodo, è passaggio dalla schiavitù alla libertà. E’ quel cammino in cui non si è sciolti dai pericoli e dalle angosce della notte ma si possono scorgere i segni della presenza vicina del Dio che libera e che guida, pur nel buio - e forse proprio nelle diverse tenebre che segnano la vita - come luce che apre cammino e apre futuro. Tutta la vita è qui presentata come un viaggio che trova il suo paradigma nel cammino del popolo d’Israele nell’esodo. Essere migranti è la dimensione più profonda del credere, implica intendere tutta l’esistenza come un viaggio in cui passo dopo passo si compie una liberazione. Non è un viaggio di schiavi ma di persone libere. Gesù capovolge l’immaginario di un Dio padrone. Presenta il volto di Dio come liberatore: è un anti-padrone. Colui che torna non si fa servire, ma compie i gesti del servo, farà mettere a tavola i suoi coloro che l’hanno atteso e passerà a servirli.
Sta qui un secondo carattere della vita che Gesù chiede ai suoi: una vita nell’attesa, da persone sveglie, non sopite ma capaci di attenzione al presente e di tensione a quel futuro che sarà incontro. Nel ‘frattempo’ che è la nostra vita al centro dovrebbe stare la preoccupazione del camminare, del lavorare con serenità – con le vesti cinte ai fianchi – del mantenere accese quele picole luci che sono il ricordo della parola del Signore. Lui ritornerà. Coltivare l’attesa dell’incontro è psosiible solamente nel rimanere svegli nel presente, con lo sguardo capace di coltivare le relazioni, l’impegno, l’ambiente, le cose di goni giorno.
Tutta la vita cristiana non sta sotto il segno del possesso ma dell’attesa, dell’attenzione e della tensione verso un futuro, promesso e già iniziato, che sta crescendo nel presente.
In quella casa dove il padrone torna – è la terza parabola - la fedeltà dell’attesa è vissuta dall’amministratore. L’amministratore non è il padrone, ma è colui che ha ricevuto in consegna qualcosa, dei beni, una responsabilità, un compito. E’ fiduciario di qualcosa che non è suo. Nessuno può sostituirsi a Dio e divenire ‘padrone’ che domina, in ogni ambito della vita. La parola di Gesù mette in guardia da ogni possibile culto del capo, dall’uso dell’autorità a scopo di affermazione personale o di interessi, o per fascino del potere mondano o religioso.
Dalla Parola alla preghiera
Signore, donaci la forza e il coraggio di rimanere svegli. Donaci uno sguardo capace di coltivare tutto ciò che mantiene viva l’attesa dell’incontro con te, senza lasciarci distrarre da tutto ciò che ci rende schiavi: oggi il pensiero unico del profitto e della sopraffazione sugli altri, l’attitudine di eludere il proprio dovere, di tendere all’arricchimento senza scrupoli, di vivere in modo disonesto, di arricchirsi servendosi della politica, ti preghiamo
Signore, facci essere persone capaci di attendere e di prenderci cura. Donaci luce per vedere le persone le situazioni vicino e lontano da noi che richiedono il nostro impegno, donaci generosità e slancio per impegnarci in un servizio concreto per gli altri, ti preghiamo
Uno spunto da…
“Lettera aperta pubblicata sul giornale di Sakhalin dai militari del 68 Corpo d’Armata Russo in Cecnia, 23 marzo 2001
Alla pochissimo stimabile giornalista Anna Poltikovskaja. Lei non è la prima né sarà l’ultima ad offendere le forze armate russe. Abbiamo sentito il bisogno di scriverle,nonostante il disprezzo, non per rispondere la fango che ci butta addosso ma perché ci urta che lei sia considerata da molti una gran cronista. Lei ci accusa duramente per averla arrestata ad un posto di blocco nel febbraio scorso… Se è davvero una gran giornalista dovrebbe sapere che la guerra ha le sue regole… Non doveva venire quaggiù a infamare chi rischia la vita per evitare che la sua casetta salti in aria a Mosca…”
Lettera di risposta pubblicata sul giornale di Sakhalin tre settimane dopo, 13 aprile 2001
Agli anonimi Ufficiali di Stato maggiore del 68° Corpo d’Armata Russo. gentili signorei, conoscete chi sono, nome e cognome, perché non mi nascondo dietro l’anonimato e non cammino incecnia con il passamontagna nero fisso sul viso come fanno le truppe russe per un motivo che ignoriamo. Voi mi scrivete che getto fango, io mi limito a raccontare. Se vedo che le tasse pubbliche finanziano violenze e torture ho il dovere di scriverlo…
Mi scrivete che sarei una nemica. E per questo i minacciate, perfino dalle pagine di un giornale. Rispondo che sono una nemica, è vero. Nemica di un esercito di criminali raccattati fra le galere e la malavita di Mosca. Nemica di chi stupra, saccheggia e ruba. Se poi siete davvero fieri di quello che fate, se siete convinti di essere nel giusto, allora benissmo: togliete il passamontagna, basta con l‘anonimato, guardatemi negli occhi e ditemi che ho torto”.
Anna Politkovskaja è stata una giornalista. Uccisa il 7 ottobre 2006 nell’ascensore del suo palazzo a Mosca, dopo essere tornata a casa con i sacchetti della spesa molto pesanti: li stava portando di sopra facendo due viaggi. Accanto a lei fu lasciata una pistola, tipica degli omicidi su committenza. Il suo computer con l’inchiesta sulle torture in Cecenia pronta per essere pubblicata, sequestrato dalla polizia.
Nello spettacolo ‘Il sangue e la neve’ Stefano Massini (Stefano Massini, Anna Politkovskaja, libro + DVD, ed.Corvino Meda, Raitrade 2009) elabora un testo che ripercorre le parole e le scelte di questa giornalista che intendeva il suo dovere come un aprire gli occhi e dare voce di distruzione di intere popolazioni, di violenze e soprusi in un paese ritenuto normale: nella Russia prima di Elzin poi di Putin, Anna richiamava le vicende che si svolgevano in Cecenia nella guerra che ha segnato il paese dal 1994. Per il suo coraggio nelle missioni per raccontare a rischio della propria vita fu scelta come intermediaria dai terroristi ceceni che occuparono il teatro Dubrovka di Mosca nel 2002; poi nel 2004 ai primi di settembre non riuscì mai ad arrivare a Beslan, dove terroristi ceceni avevano preso una scuola con centinaia di bambini, costretta al ricovero per un probabile avvelenamento. Intendeva il suo impegno come giornalista: non voleva essere un’eroina – come ricorda Ottavia Piccolo che nel DVD interpreta Anna ricordando anche la sua erede Natalia Estemirova massacrata a metà luglio 2009 – ma fare il suo mestiere, di raccontare, di scrivere per dar voce al grido silenzioso di vittime. “Sono una giornalista, non un giudice e nemmeno un magistrato. Io mi limito a raccontare i fatti… E io a 47 anni, sono stanca. Non impaurita, non scoraggiata: stanca… Stanca di spiegare ai miei figli perché chi dice la verità è un pazzo e chi dice menzogne fa carriera…”. Giornalista: un mestiere che la portava a stare pronta, a vegliare con le lampade accese….
Dalla Parola alla vita
Essere pronti e restare svegli implica una attenzione al presente sociale e politico.
Non si può rimanere indifferenti oggi di fronte al degrado morale rappresentato in Italia da uno stile di governare che da più parti viene denunciato, anche se sembra che nell’opinione pubblica si affermi una linea di silenzio, di tacito assenso, talvolta di ammirazione compiaciuta per comportamenti e scelte che dovrebbero generare invece legittima indignazione e ribellione. L’uso spregiudicato del potere, la mira ad arraffare usando i mezzi della corruzione e della collusione con poteri forti, sono palesi così come l’affermarsi di scelte nella linea di una difesa di privilegi di pochi, della disinformazione e di utilizzo strumentale del disinteresse e del silenzio dei molti.
E’ un editoriale di Famiglia cristiana (5 agosto 2010) che lancia un allarme peraltro non nuovo: “La questione morale agita il dibattito politico dal lontano 1981, da quando cioè – undici anni prima di Mani pulite – l’allora segretario del Pci, Enrico Berlinguer, ne parlò per primo. La Seconda Repubblica nacque giurando di non intascar tangenti, di rispettare il bene pubblico, di debellare malaffare e criminalità. Bastano tre cifre, invece, per dirci a che punto siamo arrivati. Nel nostro Paese, in un anno, l’evasione fiscale sottrae all’erario 156 miliardi di euro, le mafie fatturano da 120 a 140 miliardi e la corruzione brucia altri 50 miliardi, se non di più. Il disastro etico è sotto gli occhi di tutti. Quel che stupisce è la rassegnazione generale. La mancata indignazione della gente comune. Un sintomo da non trascurare. Vuol dire che il male non riguarda solo il ceto politico. Ha tracimato, colpendo l’intera società. Prevale la “morale fai da te”: è bene solo quello che conviene a me, al mio gruppo, ai miei affiliati. Il “bene comune” è uscito di scena, espressione ormai desueta. La stessa verità oggettiva è piegata a criteri di utilità, interessi e convenienza”.
Mons. Bettazzi ricorda (Mosaico di pace, 3 agosto 2010): “È vero che – almeno a parole – il governo mostra di allinearsi ai principi della dottrina della Chiesa, e oggi la gente più che guardare ai comportamenti dei governanti – anche nella loro vita privata – si lascia guidare dalla televisione, che è il messaggero ideologico odierno e che – in Italia – è a stragrande maggioranza portavoce del Governo; ma occorre anche tenere conto che, se la qualifica del cristiano è la carità, la sua formula attuale – al dire di papa Giovanni Paolo II nella Enciclica Sollicitudo rei socialis - è la solidarietà; cosicché non può dirsi veramente cristiano chi – singolo o governo – non promuova e viva la solidarietà. Ora, se guardiamo alle attività di questo governo, dobbiamo concludere quanto esso sia
contraddittorio con questa veramente “non negoziabile” qualifica del cristiano, dal rifiuto degli immigrati, costretti a tornare nelle inumane carceri libiche quando non nelle patrie da cui sono fuggiti in quanto perseguitati politici, alle politiche economiche, che privilegiano i benestanti – tra
cui loro, i politici – e rendono sempre più difficile la vita delle famiglie normali e sempre più precario il lavoro, in particolare per i giovani.
Ma è soprattutto l’impressione che viene data – ed è deleteria soprattutto per i giovani – che quello che conta non sia compiere il proprio dovere, essere onesti, contribuire al “bene comune” (pur senza trascurare il “bene individuale”), ma sia invece arraffare più che si può, appoggiandosi ai politici, corrompendo amministratori e – possibilmente – anche magistrati, e collegandosi anche con organizzazioni criminali, soprattutto con quelle più “coperte”. E questo è totalmente diseducativo perché corrode lentamente tutte le strutture morali, al di là addirittura delle battaglie per la vita, nelle quali la prospettiva è chiara e nessuno è obbligato a prendere posizioni che veda chiaramente contrastare le proprie convinzioni. Il Signore Gesù ha messo in guardia da questa scelta di “mamòna”, parola aramaica che traduciamo con “ricchezza” ma che vi aggiunge la sete di potere, e che Gesù pone come la vera alternativa a sé: “O Dio o mamòna”.
Non possiamo tacere
La Conferenza degli Istituti Missionari Italiani ha pubblicato il 15 luglio 2010 un documento passato per lo più ignorato dai mass media, consultabile interamente nel sito http://www.peacelink.it/mosaico/a/32120.html). E’ un lungo testo dal titolo ‘Non possiamo tacere’ in cui si fa presente come la forma di povertà oggi più drammatica sia quella degli immigrati e dei rom. Si osserva come nel contesto italiano siamo di fronte ad un fenomeno di xenofobia montante e si denuncia la legge Bossi Fini come “fatto gravissimo in chiave giuridica (vari giudici l’hanno dichiarata non costituzionale!), ma soprattutto in chiave etica”. Il documento rileva anche che le norme del Pacchetto sicurezza (legge 94/2009) che hanno introdotto l’aggravante della pena per clandestinità dell’immigrato, che “prevede pene reclusive fino a tre anni per chi ceda un immobile a un calndestino, trasforma i Cpt in centri di identificazione e espulsione (Cie), vieta a una clandestina che partorisce in ospedale di riconoscere il bimbo come suo, impone una tassa sul permesso di soggiorno e norme restrittive sui ricongiungimenti familiari” facendo così che un clandestino diventi un criminale, costituisce un passaggio per cui ‘la cattiveria è trasformata in legge’.
Il documento afferma con forza: “Noi riteniamo infatti che tutta questa legislazione sia il risultato di un mondo politico di destra e di sinistra che ha messo alla gogna lavavetri, ambulanti, rom e che incarna una cultura xenofoba e razzista che ci sta portando nel baratro dell’esclusione e del rifiuto dell’ ‘altro’, specie del musulmano”. E riprende un’espressione di L.Melillo dell’Istituto Orientale di Napoli: ”Sembra palesarsi il rischio di una deriva razzista che fa del corpo dello straniero il capro espiatorio delle crisi della nostra società”. Il documento sulla base dell’esperienza sul campo di molti missionari presenta la situazione dei nuovi lager i Cie ancora peggiori dei Cpt e sulla situazione dei respingimenti che sulla base degli accordi del governo Berlusconi con la Libia e la Tunisia fa sì certamente che non vi siano più sbarchi a Lampedusa ma che uomini e donne bloccati in Libia siano riconsegnati al deserto, abbandonati oltre il confine e obbligati a proseguire a piedi (come riporta l’inchiesta di F.Gatti su L’Espresso) trovando per lo più la morte per stenti.
Lo sguardo è anche rivolto al trattamento inumano di immigrati braccianti ed operai nel nostro Paese, con riferimento a luoghie situazioni, castelvolturno che potrebbe esplodere come è esplosa a gennaio Rosarno, Rosarno stessa, così come la provincia di Foggia per la raccolta dei pomodori, e il Nord per l’edilizia, espressione dell’Italia dei caporali e dei boss del neoschiavismo che impongono la loro legge sulle spalle di immigrati braccianti.
Il documento si chiude con alcune indicazioni di impegno a leggere le migrazioni come ‘un segno dei tempi’ per la chiesa e la società, di porsi dalla parte degli immigrati come espressione di scelta per gli ultimi e conclude: “Noi missionari/e crediamo fermamente, come diceva il grande vescovo martire di Oran (Algeria) Pierre Claverie, che non c’è umanità se non al plurale”.
Alessandro Cortesi op