III Domenica di Quaresima
Es 3,1-8.13-15; 1Cor 10,1-6.10-12; Lc 13,1-9
Omelia
“Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sovrintendenti: conosco le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo dal potere d’Egitto e per farlo salire…”
Siamo abituati ad un Dio delle altezze. Ci sconcerta un Dio che si china. Perché la nostra vita è percepita come un far carriera: una infinita corsa a raggiungere i posti più alti, citius altius fortius… e da questi guardare ancora più in alto, a chi ha di più, a chi sta sopra, ed aspirare senza pace ad un dominio sempre più alto. E il volto di Dio, proiezione delle nostra ricerca di dominio assume il volto di chi sta in alto e si confonde con i caratteri di tanti idoli. Forse anche per questo si crea il consenso facile, diffuso, attorno ai dittatori, ai demagoghi. Lo viviamo in questi tempi oscuri. L’ammirazione nutrita di fanatismo verso chi è salito in alto, verso chi si è affermato, verso chi è onnipotente perché capo di imperi economici e mediatici. Lo viviamo in questa fase di degrado e corruzione diffusa che ogni tanto emerge in scandali ma che trova giustificazioni, assuefazione e assenza di indignazione collettiva. Non c’è solamente la dittatura del manganello, c’è anche la dittatura che addormenta le coscienze, che tranquillizza facendo diventare solo consumatori pilotati e spettatori assenzienti. E i regimi per funzionare hanno bisogno di sudditi sottomessi, appagati nei loro bisogni, rassicurati nelle loro paure: la sicurezza, gli stranieri, i poveri che chiedono elemosina e possono aggredire… Gli slogan sono ripetuti a rassicurare sudditi fiduciosi e presi dall’esaltazione del capo.
Leggere l’Esodo diviene occasione per smascherare i diversi faraoni di questi nostri tempi. Se ci si lascia interrogare da questa Parola, essa diviene provocazione profonda. Per lo meno dovrebbe contribuire a renderci lucidi nel contestare e nell’aiutare a sciogliere quell’abbraccio mortale tra la chiesa e i potentati politici. Il Dio dell’esodo è un Dio che si china su chi è oppresso e prende le sue parti. Ci sono tre verbi che ne tracciano il profilo non nei termini di una definizione filosofica, ma nei tratti dell’agire: “ho osservato la miseria, ho udito il suo grido, sono sceso per liberarlo…”. E’ un Dio che guarda e si sofferma sulla condizione di chi è vittima, è soggiogato. E’ un Dio che ascolta: il primo ascolto è sempre il suo, la prima obbedienza è la sua, al suo stesso amore. E’ un Dio che scende. Domenico al suo tempo, nel medioevo, scoprì che era necessario scendere da cavallo per vivere una predicazione ‘nuova’, diversa, capace di ‘dire’ il vangelo, non con parole vuote senza compromissione della vita. Anche oggi si tratta di scendere dai cavalli, simboli delle ricerche di potere e di dominio, di acconsentimento alle forme pervasive del potere. Anche oggi è da lasciarsi liberare per un cammino faticoso di liberazione. Mosè scopre il volto del Dio dei padri come Dio della promessa e del futuro, Dio che si darà ad incontrare sempre nella storia, ma anche Dio della cura e della proposta di libertà. E’ questa una pagina sovversiva e attualissima. Le questioni del nostro quotidiano ci rinviano alla grande questione del Dio in cui crediamo e spingono a mettersi in cammino, a rifuggire tante false immagini per aprirsi ad un incontro nuovo, nella vita.
“No, io vi dico, ma se non vi convertite perirete tutti allo stesso modo”
Gesù, posto davanti a fatti di cronaca - una repressione della forza militare romana ordinata da Pilato, che era funzionario spietato senza scrupoli, e un crollo di una torre, improvviso e fortuito - non legge questi fatti in modo magico. Sembra che non gli interessi nemmeno l’interpretazione politica o le curiosità sulle dinamiche di tali fatti. Nemmeno cerca di sviare dal senso di impotenza e di assenza di risposte di fronte al male cercando di individuare le responsabilità umane di questi eventi. La sua parola è diretta a chi lo ascolta: a partire da queste notizie si fa appello immediato, urgente. Guarda al presente e al futuro. Se non vi convertite… Il tempo è breve. Conversione può indicare tante cose. Gesù ne fa un invito chiave della sua predicazione: connette l’esigenza di conversione all’irrompere del regno, al tempo che ha raggiunto un compimento. “Il tempo è compiuto, il regno di Dio si è fatto vicino. Convertitevi e credete al vangelo” (Mc 1,15). Convertirsi allora è connesso all’accoglienza del vangelo nella vita. Ha i tratti di un movimento del cuore, il luogo dove si elaborano le scelte decisive. E’ volgersi tralasciando ogni altro punto d’attrazione per incontrare lo sguardo di Chi si è volto per primo verso di noi. Volgersi ad un Dio che si è chinato e rimane in attesa. Lasciando la libertà di rispondere… fino a che si possano aprire gli occhi… attendendo. Convertirsi è percorso faticoso, nulla a che vedere con le eclatanti storie di improvvisi cambiamenti senza coinvolgimento della resposnabilità umana. Certo potrà anche esserci il momento cruciale ed eclatante ma esso è preceduto da un ‘prima’ nascosto e seguito da un ‘dopo’ silenzioso, una lenta opera dello Spirito nel cuore e un percorso di responsabilità che poi dura sempre e attraversa i giorni. Il convertirsi quotidiano e sempre da ripetere nell’urgenza di ogni scelta e decisione è ciò a cui rinvia Luca in questa pagina. Quali sono i criteri con cui operiamo le scelte decisive della vita? I grandi passaggi e le decisioni sono anche frutto di tante piccole, minuscole scelte quotidiane, spesso nascoste nei segreti del cuore…
La parola sul fico, la richiesta al padrone di attendere, insiste proprio sulla pazienza e sull’attesa di frutti. Frutti che compaiono poco alla volta, che possono farsi attendere. Lo sguardo umano lo sgaurdo dell’efficienza e dell’esigenza condurebbe alla decisione drastica di abbattere quell’albero senza frutti. Lo sguardo di Dio rovescia ancora i nostri criteri: è sguardo che resiste nell’attesa e spera ed anche in questo fecondo di vita.
Il Dio che si china è anche colui che sa attendere, ed ha un sogno su ogni persona e sull’umanità. E’ un attendere che consuma i suoi occhi nel guardare lontano (come gli occhi del padre della parabola di Lc 15). Si scontra con la contraddizione ed il rifiuto ma non viene mai meno nel rapporto di libertà donata.
Uno spunto da
“Davanti alla porta del paradiso un uomo bussò. Dall’interno gli fu chiesto: ‘Chi sei?’, ‘Sono un ebreo’, rispose. La porta rimase chiusa. L’uomo bussò ancora. Dall’interno gli fu chiesto: ‘Chi sei?’. ‘Sono un cristiano’, rispose. E la porta rimase chiusa. L’uomo bussò di nuovo. Dall’interno gli fu chiesto: ‘Chi sei?’. ‘Sono un musulmano’, rispose. Ma la porta rimase chiusa. Di nuovo l’uomo bussò. Dall’interno gli fu chiesto: ‘Chi sei?’. ‘Sono un’anima pura’, rispose. E la porta si spalancò.”
Mansûr âlHallâj (858-922) fu uno tra i più grandi poeti e mistici della tradizione sufi (cfr. G.Basetti-Sani, Husayn ibn Mansur al-Hallaj martire mistico dell'Islam, Verona ed.Segno, 1994). Nato a Tûr in Iran da una famiglia convertita da poco all’Islam, seguì il padre, cardatore di cotone, nei suoi spostamenti. In età giovanile ebbe i primi contatti con alcuni maestri sufi che proponevano con il loro insgenamento e l’esempio una tensione di vita nel distacco dal mondo per accedere alla conoscenza della vera realtà, attraverso una lettura del Corano tesa a cogliere diversi livelli di lettura per far emergere significati profondi e nascosti. Dopo aver viaggiato ed aver frequentato diversi maestri sufi della sua epoca, e dopo alcuni pellegrinaggi alla Mecca si stabilì con la sua famiglia a Baghdad. “Il mio spirito si è mescolato con il suo Spirito… come il vino con l’acqua pura”: per Hallâj la vita spirituale consiste nell’unione con Dio che implica il distacco da tutto ciò che non è Dio stesso. La sua predicazione insisteva quindi su di un aspetto che suscitò la reazione dei potenti della sua epoca: affermava che Dio è l’unico padrone degli esseri umani. Molto benvoluto dal popolo fu preso di mira come sobillatore politico del popolo, messo in carcere e sottoposto a processo. Anche sotto tortura rimase fedele alla sua affermazione dell’unica signoria di Dio sugli esseri umani. Il 24 marzo 922 fu preso dalla prigione flagellato e issato su di una croce fino al giorno dopo. Le sue spoglie bruciate e disperse. Di lui Hâfiz, poeta iraniano, ebbe a dire: ‘Non morrà mai colui il cui cuore vive di desiderio’.
Dalla Parola alla vita
“E’ nella nostra vita, dalla mattina alla sera, che scorre, tra le rive della nostra casa, delle nostre vie, dei nostri incontri, la parola nella quale Dio vuole risiedere. E’ nel nostro spirito – che costruisce se stesso attraverso l’attuarsi del nostro lavoro, delle nostre pene, delle nostre gioie, dei nostri amori – che la Parola di Dio vuole abitare. La frase del Signore che abbiamo estratto dal vangelo in una messa del mattino o durante una corsa in métro o fra un lavoro domestico e un altro, o la sera nel nostro letto, non ci deve più abbandonare, più di quanto non ci abbandoni la nostra vita o il nostro spirito. Essa vuole fecondare, modificare, rinnovare la stretta di mano che avremo da dare, lo sforzo che poniamo nei compiti che ci aspettano, il nostro sguardo su coloro che incontriamo, la nostra reazione alla fatica, il nostro sussulto di fronte al dolore, lo schiudersi della nostra gioia” (Madeleine Delbrêl, Noi delle strade, tr. it. Torino Gribaudi, 1988, 79-80).
La nostra vita sta tra l’invito all’urgenza del convertirsi e la fiducia nella pazienza di un Dio che ha cura di noi. Un primo spunto per calare questo invito nella vita può provenire dalle riflessioni di Madeleine Delbrêl che ci riportano allo spessore della quotidianità, come luogo in cui la Parola può essere accolta e divenire feconda di vita. Le strade piuttosto che il tempio, uno sguardo capace di fermarsi e leggere, tra le pieghe del quotidiano, come quello di Mosè che, pastore, fu capace di osservare e si lasciò provocare dal segno del roveto, si lasciò spingere a mettersi in cammino.
Un secondo suggerimento può essere tratto dall’invito a guardare nella vita della Chiesa, a chiedersi cosa ancora non è stato compiuto del cammino intrapreso nel Vaticano II da leggere come evento di grazia, a partire da una sollecitazione di Giuseppe Ruggeri in un saggio dal titolo Cosa fu il Cocnilio (e cosa può diventare), in La riforma della liturgia, “Per leggere il Vaticano II”, a cura di A.Grillo e M.Ronconi, Milano san Paolo 2009, 26:
“Certamente resta molto da compiere per portare a compimento uno degli assunti principali del Concilio: la rottura dello schema monarchico a tutti i livelli della vita ecclesiale e la riappropriazione della Chiesa come comunione. Il principio comunionale non equivale al principio democratico, giacché non si tratta di fare valere la propria volontà, sia pure quella della maggioranza o dal basso. Si tratta di qualcosa di molto più radicale: del libero gioco della vita dello Spirito e della comune obbedienza, del primato della vita cristiana vissuta e della funzionalità della dimensione istituzionale alla vita del popolo sacerdotale, del primato delle chiese locali… La chiesa tutta deve allora svegliarsi dal lungo intorpidimento burocratico (…) la Curia romana continua a ‘governare’ le chiese (si pensi soltanto allo scandalo delle nomine episcopali ancora sottratte alla responsabilità delle Chiese locali); le singole curie, da quelle delle Conferenze episcopali a quelle diocesane, impongono piani pastorali, che invece di interpretare l’esperienza concreta, si mettono di traverso rispetto alla vita delle parrocchie. La sinodalità della Chiesa tutta è ben lontana dall’essere attuata e gli stessi sinodi diocesani sono in prevalenza espressione dei quadri pastorali. Ma soprattutto occorre il riconoscimento della libertà della fede nella Chiesa. Il Concilio si è limitato a riconoscere la libertà della coscienza religiosa nella società civile. Ebbe paura di affrontare il problema della libertà della coscienza credente all’interno della Chiesa. Restò perdente infatti la volontà di quei vescovi che volevano una trattazione ‘teologica’ della libertà religiosa. Occorre invece ripartire da lì, dalla discussione conciliare sulla libertà religiosa, cercando di dare esito a quanto allora fu messo a tacere”.
Conversione è percorso che investe la vita personale, che rinvia ad una responsabilità frutto di formazione, di approfondimento, di preghiera. E’ una responsabilità fondamentale nella vita credente che non può essere demandata a nessun altro. Ma la dimensione personale non è l’unica: c’è anche il cammino delle chiese che deve essere cammino di conversione, tensione a riscoprire la centralità del vangelo e individuare traduzioni possibili attuali in itinerari storici, in scelte di vita conformi all’itinerario di Gesù di Nazaret. Ciò esigerebbe la preoccupazione primaria per far crescere coscienze adulte, capaci di scelte responsabili.
Alessandro Cortesi op