31-1-10 - IV Domenica del tempo ordinario - Anno C
Ger 1,4-5.17-19; 1Cor 12,31-13,13; Lc 4,21-30
“Ecco io faccio di te come una città fortificata, una colonna di ferro e un muro di bronzo… contro i re di Giuda e i suoi capi, contro i suoi sacerdoti e il popolo del paese”
Geremia vive in un tempo di crisi: proviene da una famiglia di sacerdoti, che era stata però privata dei privilegi sacerdotali, perché secoli prima aveva collaborato ad un complotto contro il re Salomone. Negli anni della sua giovinezza assiste ad un processo di paganizzazone della fede di israele. Viene infatti introdotto il culto di Baal, ma negli ultimi decenni del VII secolo a.C. un nuovo re Giosia, dal 621 promuove una grande riforma della spiritualità e del culto. Geremia appoggia questo movimento di riforma. Ma dopo la morte di Giosia in battaglia nel 609 a Meghiddo il nuovo re Joiakim si dimostra preoccupato del potere politico e disinteressato alla fedeltà religiosa. In pochi anni scelte di opposizione al regime babilonese portano alla discesa del nuovo impero e alla conquista di Gerusalemme nel 597. Geremia seguirà la parte del popolo che viene deportato a Babilonia, dopo aver subito il trattamento di un traditore quando richiamava i re ad una fedeltà alla Parola di Dio.
Geremia appare come profeta, avverte che nella sua vita c’è un intervento di Dio che l’ha chiamato e condotto ad una missione: “tu dunque stringi la veste ai fianchi, alzati e dì loro ciò che ti ordinerò”. La veste trattenuta è segno di una libertà per un cammino spedito, per poter seguire le strade che la chiamata di Dio gli indica. Geremia è inviato per ricordare la Parola e le esigenze di Dio. Se da un lato sperimenta la sua fragilità, dall’altro avverte come la sua forza viene da una vicinanza e da una promessa: “ti faranno guerra , ma non ti vinceranno, perché io sono con te per salvarti”. Il profeta è totalmente preso e affidato alla Parola. Ma il dipendere unicamente dalla Parola di Dio attrae su di lui l’opposizione, le critiche. Si trova solo e davanti all’opposizione soprattutto di chi deve difendere un potere, i re, la classe sacerdotale, ma anche il popolo sottomesso e indifferente rispetto a chi detiene il potere politico e religioso.
“Se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avesi la carità, sarei come un bronzo che rimbomba o come cembalo che strepita”
L’ultima parola della vita – ci dice Paolo nella lettera ai Corinzi - non è quella del rifiuto, vissuto da Geremia e poi da Gesù a Nazareth, ma l’ultima parola di Dio è l’amore, che la comunità cristiana esprime con un termine originale che porta in sé una profonda valenza di gratuità. L’agape, carità, è un vocabolo che si distingue da altri termini con cui veniva indicato l’amore, quali ‘eros’ per esempio, che dell’esperienza dell’amore sottolineava la dimensione di attrazione e di desiderio, o ‘filia’ che esprimeva la dimensione di sintonia e di amicizia che si instaura nel sentire i medesimi sentimenti. Paolo indica l’agape come l’orizzonte della vita di Cristo e dei cristiani e sviluppa le caratteristiche di questo amore definito ‘la via migliore di tutte’, un dono che è anche una strada da percorrere.
“Non è costui il figlio di Giuseppe?”
Il quadro che Luca presenta all’inizio dell’attività pubblcia di Gesù è quello del rifiuto. E’ un rifiuto che manifesta una falsa religiosità, mite e arrendevole finché trova occasioni di privilegio, gudagni politici, ma che si trasforma velocemente in violenza quando non ha risposte secondo le proprie aspettative. I compaesani di Nazaret stanno cercando un Dio a loro immagine che risponda alle loro pretese. Non sono aperti ad una fede che provoca al cambiamento della vita, che interroga il cuore. In questo sta la loro indifferenza e la durezza di cuore. Luca osserva che questa dinamica non è una novità: è la vicenda vissuta da tutti i profeti e per questo anche Gesù ‘deve’ passare per questo cammino. Non è una necessità del capriccio di Dio, ma una situazione che si ripete ogniqualvolta un profeta con la sua vita proclama in modo scomodo il richiamo a dare il primato a Dio nella vita. “Nessun profeta è accetto nella sua patria’. Il destino di Gesù continua e compie la vicenda dei profeti: non corriponde alle attese di chi pretende di sapere tutto di lui, di poterlo tenere in mano. Passa oltre, si manifesta così uomo libero. E suggerisce con due esempi del primo testamento che la fede è cammino aperto a coloro che accolgono la parola dei profeti, anche sconosciuti e senza nome, persone che giungono come Elia a chiedere accoglienza in un momento di carestia. Essi mettono in gioco la loro vita per accogliere la visita di Dio inattesa e sorprendente: come la vedova di Sarepta, straniera, che accolse Elia o come Naaman, della Siria, anch’egli straniero, che riconosbbe in Eliseo un uomo di Dio e fu guarito dalla sua malattia.
SPUNTI DI RIFLESSIONE
In questi giorni è uscito il decimo volume degli scritti di Dietrich Bonhoeffer in traduzione italiana che raccoglie i suoi scritti dei suoi ultimi dodici anni, in cui egli si pone la radicale domanda “nazionalsocialista oppure cristiano”. Tra queste pagine può essere letta come ‘profetica’ una riflessione sulla guerra, ma la titolazione data da “Avvenire” che riporta il testo non dà ragione del discorso che Bonhoeffer propone e fonda la contrarietà alla guerra sulla fede che si attende tutto da Dio e attende la venuta finale di Cristo (Contro la guerra, sveliamo il mondo come buono, “Avvenire”, 22 gennaio 2010):
“La guerra va intesa a) come azione consapevole della volontà umana, della quale quest’ultima è interamente responsabile, b) come opera delle forze demoniache di questo mondo, nemiche di Dio, quali malattia, catastrofi ecc., c) come rivelazione di un mondo schiavo della legge della morte. La giustificazione della guerra assume pertanto la triplice forma: a) Secondo la volontà consapevole dei belligeranti, la guerra serve al mantenimento dello Stato e alla pace futura; questo è il suo diritto, di cui si può rispondere dal punto di vista morale. b) La guerra è un evento inarrestabile, su cui nessun essere umano ha potere (cosiddetto realismo, o meglio naturalismo). c) La guerra rinvia a un mondo eroico del sacrificio. Il pacifismo secolare risponde: a) Il benessere pacifico dell’umanità non viene procurato con i mezzi della guerra. Per questo motivo non ci si può assumere la responsabilità morale della guerra. b) Bisogna creare un’organizzazione razionale che argini le forze che portano alla guerra. c) La guerra va eliminata per svelare il mondo come mondo buono. Gli ultimi due argomenti sono di uguale valore e ugualmente non cristiani. La loro argomentazione non parte da Cristo, ma da un’immagine del mondo che si desidera o meno. La Chiesa cristiana risponde: La volontà umana deve essere messa a confronto con il comandamento divino: «Non uccidere». Dio non dispensa dall’adempiere il suo comandamento. Trasgredendolo, l’essere umano si rende colpevole davanti a Dio. Il Dio del Discorso della montagna lo giudica. All’obiezione: Bisogna mantenere lo Stato, la Chiesa risponde: Ma non uccidere. All’obiezione: La guerra porta la pace, la Chiesa risponde: Non è vero, la guerra porta la rovina. All’obiezione: Il popolo deve difendersi, la Chiesa risponde: Hai già provato a rimettere a Dio, nella fede, la tua difesa, ubbidendo al suo comandamento? All’obiezione: l’amore del prossimo mi obbliga a farlo, la Chiesa risponde: Chi ama Dio osserva i suoi comandamenti. Alla domanda: Che cosa devo fare?, la Chiesa risponde: Credi in Dio e osserva i suoi comandamenti! Al pacifismo secolare, la Chiesa invece risponde: a) Criterio del nostro agire non è il benessere dell’essere umano, bensì l’osservanza dei comandamenti di Dio. Persino se la guerra significasse benessere, il comandamento di Dio rimarrebbe incrollabile. b) Le forze demoniache non vengono sconfitte con le organizzazioni, ma con la preghiera e il digiuno (Mc 9,29). Ogni altra cosa sottovaluta queste forze e le vede fondamentalmente in una prospettiva naturalisticomaterialista. Gli spiriti dell’inferno vengono scacciati soltanto da Cristo stesso. Perciò né fatalismo, né organizzazione, ma preghiera. Il fatto che l’essere umano si veda come responsabile della pace eppure soggetto alle forze demoniache, lo induce a riconoscere che aiuto e redenzione possono essere portati soltanto da Dio. La preghiera è più forte dell’organizzazione. L’organizzazione nasconde facilmente la difficoltà del male e della lotta (Ef 6,12). c) Il fatto che la guerra sia indizio del mondo schiavo della morte dimostra che persino l’eliminazione della guerra equivarrebbe all’eliminazione sì di un sintomo terribile, ma non a quella della causa del male. Non è il pacifismo la vittoria che ha sconfitto il mondo, bensì la fede (1Gv 5,4) che si attende tutto da Dio e spera nel secondo avvento di Cristo e nel suo regno. Soltanto allora verrà annientata la causa del male, cioè il diavolo e i suoi demoni”. (Dietrich Bonhoeffer).
Alessandro Cortesi op