XXVII Domenica del tempo ordinario - Anno C - 2010
Ab 1,2-3; 2,2-4; 2Tim 1,6-8.13-14; Lc 17,5-10
Omelia
“Fino a quando, Signore implorerò aiuto e non ascolti, a te alzerò il grido ‘Violenza!’ e non salvi? perché mi fai vedere l’iniquità e resti spettatore dell’oppressione?”
Il grido del profeta Abacuc si fa interprete della domanda drammatica di chi sperimenta il male: non è solo la domanda, spesso presente nei salmi, di chi malato o nella prova chiede ‘perché Signore?’, in riferimento alla sua vicenda personale e implora un aiuto che sembra non arrivare. In Abacuc è lo scandalo dello spettacolo della violenza e dell’oppressione, di rapporti iniqui: “Perché mi fai vedere l’iniquità e resti spettatore dell’oppressione? Ho davanti a me rapina e violenza e ci sono liti e muovono contese”.
La triste esperienza della legge stravolta, dei giudizi tramutati in esaltazione della truffa, dello spadroneggiare dei corrotti, della immunità di potenti preoccupati unicamente dei loro interessi, fa sorgere la drammatica domanda che investe e travolge la stessa fede. Abacuc pone la domanda sospesa riguardo al male, guardando non tanto alle sofferenze di un singolo, come Giobbe nella sua sventura, ma guardando alla vicenda politica, alla storia. Perché Dio, che è santo, che ha occhi troppo puri per vedere il male, permette che sia un popolo barbaro a compiere vendetta e permette che popoli che pur hanno compiuto il male vengano offesi da popoli ancora più malvagi? La sua domanda è radicale, disorienta le teologie costruite per le quali tutto è spiegabile, chiaro, tutto torna. E’ una domanda che non consente facili risposte né scorciatoie. Anzi è una domanda che rimane sospesa. In questo senso la pagina di Abacuc è esemplare del coraggio di porre questioni che fanno tremare e vacillare, che assumono il dramma del mondo, e che proprio per questo provocano la fede oltre ogni pretesa umana di com-prendere, di avere in mano Dio e il mondo.
Anche questa domanda è ‘parola di Dio’. Nella Parola di Dio c’è questo spazio di un interrogare segnato dal non comprendere, dal dolore e dall’incapacità di mettere insieme la fiducia nel Dio buono e giusto con le tragedie storiche che scorrono davanti agli occhi. Abacuc pone una sfida a non risolvere tutto con facili esortazioni, ad avere il coraggio di lanciare verso Dio il grido che sorge dal dolore, accettando di vivere nell’attesa e nel silenzio la prova della fede. Ad avere il coraggio di stare nell’ascolto, nel silenzio, nell’attesa di un venire.
La domanda di Abacuc è accostabile al drammatico interrogativo: ‘Dov’era Dio nelle camere a gas di Auschwitz, ma poi ancora nel massacro del Ruanda, a Srebrenica, nei genocidi africani? E’ la terribile domanda che chiede spazio e silenzio perché il dramma e il dolore siano presi seriamente e perché l’abisso del male di cui l’uomo è capace non sia dimenticato. Ed è ancora e sempre la domanda sommessa e silenziosa che attraversa il cuore del credente oggi di fronte alle scelte di morte, di fronte alla barbarie, di fronte all’abisso di orrori che ogni atto di terrore e ogni guerra procura.
Ma è anche la domanda di fronte a quella banalità del male che attraversa il nostro quotidiano là dove corrotti e gaudenti hanno sempre la meglio e trovano difese, scudi di protezione per i loro sporchi affari.
La domanda rimane. Abacuc nel suo breve libro richiama l’atteggiamento del giusto: ‘soccombe colui che non ha l’animo retto, mentre il giusto vivrà per la sua fede’.
Il giusto è colui che, senza scorciatoie, senza facili risposte al male che drammaticamente sperimenta nella sua esistenza, mantiene la sua fedeltà rivolta al Dio della vita e sa che questa fiducia apre alla vita già da ora, ma tutta la sua stabilità sta in tale affidamento. Ci sarà un termine, un limite: “Scrivi la visione e incidila bene sulle tavolette, perché la si legga speditamente. E’ una visione che attesta un termine parla di una scadenza e non mentisce; se indugia attendila perché certo verrà e non tarderà”
La sfida del credere è vivere il presente, nell’attesa, con il cuore rivolto a Dio: il credere non esime dalla domanda, dalla crisi, dal dubbio. La profonda fatica interiore del credente proviene dal vedere tutte le contraddizioni della storia senza venir meno alla fiducia radicale che Dio non è autore del male e nemmeno vuole il male per un assurdo disegno. Il credente è il giusto, ossia ‘fedele’, invitato a trovare la forza per continuare a camminare in questa vita, a trovare la sua roccia e il suo rifugio nell’affidamento a Dio, in una fede che rimane sospesa alla fedeltà di colui che non verrà meno alle sue promesse.
In questo 'stare alla presenza di Dio' il giusto – cioè colui che rimane fedele nonostante tutto - è rinviato ad una fiducia nella prova, a rimanere continuando a portare avanti nella sua vita i segni del Dio fedele. Operando giustizia là dove giustizia non c'è, portando pace là dove pace non c'è, vivendo la speranza contro ogni speranza.
“In quel tempo gli apostoli dissero al Signore: Accresci in noi la fede. Il Signore rispose: Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: ‘sradicati e vai a piantarti nel mare’, ed esso vi obbedirebbe”
Anche la pagina di Luca è tutta incentrata sul tema della fede. Nella Bibbia la fede non è mai presentata come adesione ad una dottrina, come un sapere qualche cosa su Dio e il divino. piuttosto la fede è presentata con immagini che fanno riferimento alla relazione personale, all’affidamento, come quello di un bambino in braccio a sua madre: ‘Come una madre consola un figlio così io vi consolerò’ (Is 66,13) Così nella preghiera dei salmi : “non vado cercando cose grandi né meraviglie più alte di me. Io invece resto quieto e sereno; come un bimbo svezzato in braccio a sua madre, come un bimbo svezzato è in me l’anima mia” (Sal 131,1-2). Fede è appoggiarsi e trovare stabilità nel Dio fedele come chi trova nel suo cammino un appoggio sicuro ponendo i piedi sulla roccia (Is 7,9b). Nel suo vangelo Luca presenta la fede come atteggiamento di chi si affida all’agire potente di Dio che si rende vicino e presente nelle azioni di Gesù. Alla donna che superando gli sguardi inquisitori era entrata con coraggio nella casa del fariseo e gli aveva unto i piedi con il profumo Gesù dice: “Donna, la tua fede ti ha salvata” (Lc 7,50). Così pure alla donna affetta da emorragie che aveva fatto di tutto per poter toccare solamente un lembo del suo mantello Gesù si rivolge dicendo: “Figlia, la tua fede ti ha salvata, va’ in pace” (Lc 8,48). E’ quanto accade anche al lebbroso, straniero, che unico tra dieci, torna a ringraziare per la guarigione e sente la parola di Gesù: “Alzati e va’ la tua fede ti ha salvato!” (Lc 17,19). Così al cieco di Gerico che sentendolo passare gridava verso di lui ‘Gesù figlio di Davide abbi pietà di me’: “Abbi di nuovo la vista, la tua fede ti ha salvato (Lc 18,42). Donne tenute ai margini, uno straniero, un cieco che veniva allontanato dalla folla: queste sono le persone che nel vangelo di Luca sono lodati per la loro fede. Per contro vi sono altri, vicini, come i discepoli che vengono rimproverati da Gesù per la loro mancanza di fede e apostrofati come ‘uomini di poca fede’ (Lc 8,25; Lc 12,28). La fede appare allora essere una apertura sincera del cuore alla relazione personale con Gesù, una fiducia che diviene coinvolgimento personale nei confronti di lui, ascolto e affidamento.
Gesù ai suoi che gli chiedono ‘accresci in noi la fede’ risponde con l’esempio del granello di senape: è un seme piccolissimo. Così la fede anche se è realtà piccola contiene in sé una forza senza misura. Fede è porre la propria vita nella fedeltà di Gesù che non viene meno e che prega perché la nostra fede non venga meno (Lc 22,32). La condizione dei discepoli è quella di chi può in ogni momento cadere nell’incredulità, ma solo nell’affidamento a Gesù si può trovare modo di non affondare e farsi travolgere da ogni forza di male (cfr. Lc 8,22-25).
Fede è quindi adesione personale a Gesù, e per questo far propria la strada da lui seguita, il suo modo di vivere. Luca fa seguire alla domanda sulla fede l’insegnamento sui servi che sono chiamati a compiere tutto il possibile proprio nella linea del servizio al loro padrone.
La traduzione corretta dell’espressione finale di questo brano è “Così anche voi quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: ‘siamo semplici servi…’”. Non ‘inutili’: nessuno è inutile agli occhi di Gesù, ma ‘semplici servi’, solamente orientati al servizio, in una relazione che lega al colui che dà senso alla propria esistenza, persone che vivono la loro vita nell’ottica di un servizio per la vita degli altri, e in ascolto della parola del Padre. Gesù chiede ai suoi “chi tra voi è più grande diventi come il più giovane e chi governa come colui che serve”. Come lui che nella sua vita si è fatto servo: “Io sto in mezzo a voi come colui che serve” (Lc 22,26-27). La fede si attua e si compie nel coinvolgimento del servizio.
“Figlio mio ti ricordo di ravvivare il dono di Dio, che è in te mediante l’imposizione delle mani. Dio infatti non ci ha dato uno spirito di timidezza, ma di forza, di carità e di prudenza”
Questo invito ci ricorda che nella vita di ogni persona c’è un dono; nella vita di ogni credente la fede è il dono ricevuto dal quale sgorga un’intera vita nella relazione con Dio. Ed è un dono per un invio così come l’imposizione delle mani è gesto che rinvia all’invio di Gesù nei confronti dei suoi discepoli. C’è una centralità del dono da riscoprire e ravvivare, nella gratitudine e nella gioia, ma anche nell’operosità, nell’impegno ad attuare scelte quotidiane che esprimano il dono presente come seme nella vita. Non sono necessarie grandi cose, ma l’affidamento in una relazione che coinvolge e dona la forza di vivere ogni esperienza con uno spessore diverso, abitata dalla presenza e dalla chiamata di Dio.
Dalla Parola alla preghiera
Accresci in noi Signore la fede: donaci di non pensare la fede come una realtà che si misura. Donaci invece di fidarci di te, di mantenerci saldi in questo dono di incontro, donaci di rimanere in ascolto della tua parola
Donaci Signore la forza di mantenerci giusti nel quotidiano dlela nostra esistenza anche laddove attorno c’è violenza, corruzione, ingiustizia. Donaci di resistere fissando lo sguardo su di te.
Donaci di sentirci semplici servi; liberaci dalla preoccupazione di affermazioni, di carriere, di ricerca di potenza. liberaci dalle ambizioni che nascondono una sete di dominio. Aiutaci a vivere ogni nostra capacità, competenza, nel servizio agli altri e nell’ascolto della tua parola
Uno spunto da…
“A chi nega il Dio trascendente, capita di sentirsi dire: ‘ma se non credi in un Dio che giudica e punisce nella vita eternn, che cosa resta che ti induca a comportarti, in questo mondo, con giustizia e amore per il prossimo?’. O ancora: ‘se non credi in Dio, tutto è permesso. L’ateismo è l’anticamera del cinismo, dell’egoismo, dell’immoralità’.
A queste obiezioni fatico a rispondere. perché, se chi le propone è serio in ciò che dice, se fra lui e l’immoralità c’è solo il fragile sipario di un ‘credere in un Dio che punisce’ nell’Oltremondo, sec’è solo, cioè, la riluttante paura di Dio e non l’amore di Dio, allora ogni risposta è inutile: costui non ha veramente fede in Dio,e non è credibile che egli rispetterà i precetti morali, la Parola di Dio. cercherà scappatoie, simulerà pentimenti, ricercherà facili perdoni. ma che interesse ha il suo comportamento? Chi ha bisogno della paura dell’inferno per non comportarsi in modo immorale non è certo un vero e sincero credente, e non si comporterà mai da credente, e nemmeno da uomo giusto: andrà solo ad accrescere le file degli ipocriti, dei finti credenti (…) Amare Dio, e ricercare, con le proprie limitate forze, il bene, non è meno difficile che amare il bene senza credere in un Dio che ti giudica. O forse è la stessa cosa: coloro che che amano la giustizia, e si sforzano di non fare il male, credenti e ‘non credenti’, si riconoscono facilmente come affinti, sia che credano in Dio, o nel dovere dell’uomo di rispettare il suo prossimo. La ‘via del bene’ non è più facile, o più difficile, per gli uni che per gli altri. Ognuno segue la sua strada; ma sono strade parallele” (Arrigo Levi, Le due fedi, Il Mulino 1996, 35-36)
Arrigo Levi, da laico, da ebreo non credente, propone una profonda riflessione sull’esistenza di ‘due fedi’ che egli non vede contrapporsi ma poter camminare come su strade parallele, eppure in continuo dialogo. Ne parla in riferimento a chi nutre la fede in Dio e a chi non condivide una fede in Dio trascendente ma professa una fede nell’uomo. La sua posizione si può sintetizzare, con le sue stesse parole, nella percezione che “non vi sia una grande differenza tra fede laica e fede religiosa, tra fede in Dio e fede nell’uomo”. Le sue provocazioni aiutano a smascherare forme di impoverimento della fede in Dio. Assistiamo oggi a molteplici forme di utilizzo a livello politico del portato delle fedi religiose, ridotte ad essere contenitori in cui ognuno può mettere le idee più lontane dal profondo significato dell’esperienza credente. E’ un immiserimento che ritroviamo non solo nelle forme dell’utilizzo della fede per farne la bandiera di azioni politiche o violente – si pensi alle forme dei diversi fondamentalismi - ma anche nelle proposte che riducono l’esperienza del credere ad una appartenenza culturale e religiosa, e ad elemento di un’ideologia (come nelle forme del leghismo nostrano) o a religione civile, elemento per scambiare appoggi e privilegi nel rapporto tra gerarchie del potere civile e gerarchie del potere ecclesiastico.
La riflessione di Levi ci conduce in una sfera più alta in cui ci s’interroga sul senso profondo del dialogo per l’esperienza stessa della fede, sia essa laica, sia essa fede in Dio:
“Ma se il dialogo è cosa naturale per un laico, nella sua ricerca continua della verità, non vi è invece illogicità nel dialogo fra credenti, ciascuno dei quali ha una sua verità rivelata?” E cita a tal proposito la risposta, giocata sul filo di parole umili, del card. Martini con cui egli ebbe a dialogare lungamente su questi temi: “No – replica Martini – perché la verità rivelata non è come una verità matematica; la Verità – ed è parola che uso malvolentieri perché è troppo grande – è un’apertura su un mistero più grande, e io non riesco se non a intuire qualcosa, a balbettare qualcosa di questo mistero più grande di noi. Perciò è possibile dialogare con altri, che come me non si accontentano delle cose che hanno davanti. Citando Bobbio, l’importante è essere pensanti; non ci domandiamo se siamo credenti o non credenti, ma pensanti o non pensanti” (ibid. 49).
La responsabilità del pensare è oggi la grande sfida aperta per ognuno che voglia reagire alla banalità del male che soffoca il nostro presente.
Dalla Parola alla vita
La questione della fede in rapporto a Dio che si comunica all’umanità è stato uno dei grandi percorsi del Concilio Vaticano II e proprio su questo il Concilio ha indicato un nuovo modo di intendere la fede stessa.
Raniero La Valle, in un articolo apparso su ‘Rocca’ (n.19, 1 ottobre 2010) riprende un suo intervento recente ad un convegno tenutosi a Napoli: Il concilio mancato. Pone in evidenza la questione del conflitto sul Concilio, una questione uscita apertamente soprattutto a partire dalla reintroduzione del rito della Messa tridentina e dalla reintegrazione dei vescovi scismatici di Lefebvre. Ma su questo si interroga se effettivamente il conflitto stia nei temi oggetto di maggiore dibattito su cui c’è diversità e opposizione chiara di due schieramenti oppure se vi sia un Concilio nascosto, non accolto né da coloro che vi si oppongono e lo svuotano né da coloro che lo seguono e desiderano attuarlo. Sono aspetti centrali e per questo ancora da scoprire che richiedono attenzione di fede nell’oggi. E indica tre fasci di luce, che egli vede essere stati accesi dal Concilio, e poi subito spenti.
“Il primo è la percezione, espressa dal Concilio, della novità della condizione umana. Nulla è più come prima. Nuova, dice il Concilio, è la strada su cui “l’umanità si è messa da poco”. Troppe cose sono mutate, per continuare a pensare nello stesso modo di prima.
“Così il genere umano - dice la Costituzione pastorale del Concilio - passa da una concezione piuttosto statica dell'ordine delle cose, a una concezione più dinamica ed evolutiva. Ciò favorisce il sorgere di un formidabile complesso di nuovi problemi, che stimola ad analisi e a sintesi nuove”.
Questa strada non è stata continuata. Altrimenti non ci si sarebbe accaniti a dire che il Concilio non ha cambiato nulla, perché tanto era solo pastorale. Al contrario il Concilio ha cercato nella nuova situazione di capire meglio la fede, tanto è vero che è stata poi superata, da parte di Benedetto XVI, la vecchia dottrina che escludeva dalla salvezza i bambini (ma anche gli adulti) morti senza battesimo.
Dunque non c’è un impedimento dogmatico al cambiamento, ed è tradire il Concilio prendere da esso solo le conferme e ricusarne le novità, vincolandone l’interpretazione all’invarianza. E quanto alla “concezione più dinamica ed evolutiva” essa dovrebbe far chiudere il contenzioso sul creazionismo, che è un problema non da teologi ma da scienziati; e dovrebbe indurci a porre non nel passato, ma nel futuro la pienezza della vita; la perfezione, l’Eden non sta nel passato e nemmeno solo nel futuro remoto, ma nell’oggi di Dio che si comunica ad ogni uomo.
La seconda direzione è quella della rivoluzione antropologica del Concilio; abbandonata la concezione pessimista, il Concilio non ha tratto dal peccato la conseguenza che la natura dell’uomo sarebbe stata deturpata irrimediabilmente e consegnata alla morte, per effetto dell’antica punizione meritata dall’uomo nel giardino. Il Concilio pensa invece a un Dio che non si è mai dimenticato dell’uomo, mai lo ha abbandonato o scacciato, ma sempre lo ha aiutato a salvarsi, in vista di Cristo. Ma qui allora le conseguenze sono enormi, ne viene un nuovo statuto dell’umano, un gioioso riconoscimento delle capacità naturali dell’uomo e della sua libertà, e ciò proprio grazie a un dono mai revocato di Dio. Questo vuol dire che l’uomo può farcela nell’attuale distretta della storia, restando nel suo limite umano, nella sua divina laicità.
La terza direzione è quella che riguarda la Chiesa. Nel Concilio essa ha avuto la forza di rimettere in discussione il suo monopolio religioso - non la sua verità - rompendo l’identificazione tra la universale Chiesa di Cristo e la Chiesa storica e visibile. È stata una “kenosi”, una spoliazione, perché in tal modo la Chiesa rinunciava a presentarsi come l’unico sportello del cielo aperto sulla terra, come l’esclusiva dogana di Dio; e dunque rinunziava a un potere che già non era più un potere temporale, ma spirituale. Perciò sarebbe davvero mancare il Concilio se ora si volesse restaurare questo potere, tornare ai giorni dell’onnipotenza. Sviluppare il Concilio fino alle sue ultime conseguenze vorrebbe dire invece uscire dai confini della Chiesa costituita, per abbracciare nel dono di Dio l’umanità tutta intera” (R.La Valle, Il concilio mancato, Rocca 1 ottobre 2010).
Alessandro Cortesi op