10-10-2010 - XXVIII Domenica del tempo ordinario - Anno C
2Re 5,14-17; 2Tim 2,8-13; Lc 17,11-19
Omelia
“In quei giorni Naaman, il comandante dell’esercito dell’esercito del re di Aram, scese e si immerse nel Giordano sette volte, secondo la parola di Eliseo, uomo di Dio e il suo corpo ridivenne come il corpo di un ragazzo; egli era purificato dalla sua lebbra”
Naaman è un alto ufficiale di provenienza siriaca, straniero ed estraneo al popolo d’Israele: dice il libro dei Re che quest’uomo aveva avuto molti successi, era autorevole e stimato, per la sua opera gli aramei erano stati liberati. Ma quest’uomo prode era malato e su suggerimento di una ragazza ebrea presa prigioniera e finita a servizio nella sua casa, aveva avuto l’indicazione della presenza di un profeta in Samaria. Con il permesso del suo re partì con carri e cavalli recando con sé dieci talenti d’argento, seimila sicli d’oro e dieci mute di abiti, e portando anche una lettera del suo re al re d’Israele. L’accoglienza non fu delle migliori perché il re d’Israele si stracciò le vesti, gesto che indica la reazione di fronte alla richiesta di guarirlo, perché è solo il Signore “colui che fa morire e fa vivere, scendere agli inferi e risalire” (1Sam 2,6; Dt 32,39). Il re d’Israele protesta perché il suo ruolo non dev’essere confuso con quello di Dio che solo può dare la vita. Ma il profeta Eliseo saputa la cosa, chiede che quell’uomo vada da lui “e saprà che c’è un profeta in Israele” (2Re 5,8). Eliseo gli manda un messaggero per invitare Naaman che si era presentato con i suoi carri e cavalli a bagnarsi sette volte nel Giordano: “il tuo corpo ti ritornerà sano e sarai purificato” (5,10). Naaman si aspettava ben altro tipo di ritualità, immaginava un agire altisonante del profeta e rimane scettico di fronte a questo invito: i fiumi della Siria non sono forse uguali al Giordano? Naaman, un soldato, un ufficiale abituato alla guerra, non viene richiesto di una gran cosa, ma Eliseo gli indica semplicemente di affidarsi alla sua parola, di scendere a lavarsi sulle rive del fiume Giordano. E’ una azione quotidiana, minima, prosaica, non da grande condottiero. Naaman su pressione dei suoi servi accetta finalmente e questo lavarsi con acqua attua un cambiamento: “si immerse nel Giordano sette volte, secondo la parola dell’uomo di Dio, e il suo corpo ridivenne come il corpo di un ragazzo”. Naaman scopre su di sé non solo la guarigione dalla malattia della lebbra, ma avverte un mutamento più profondo, basato sulla parola consegnatagli dall’uomo di Dio: si apre alla scoperta della presenza di un Dio vicino, un Dio che ha a che fare con quella terra. E’ sorprendente allora vedere la figura di questo uomo di guerra nell’atto di chiedere insistentemente di fare un dono al profeta. E di fronte alla ritrosia di quest’ultimo chiede almeno di portare con sé alcuni sacchi di terra di quel luogo per quello che possono portare due muli perché la sua scoperta è che quella terra è terra di Dio: ‘Ora so che non c’è Dio su tutta la terra se non in Israele’.
Non solo è guarito da ciò che limitava il suo corpo, dalla malattia che ingabbiava la sua vita nella disperazione, ma è guarito nel profondo e si apre ad atteggiamenti di gratuità e di scoperta del volto di un Dio vicino, che benedice la terra, un Dio non di un popolo, ma di tutti i popoli.
Naaman si avverte trasformato interiormente, nel cuore. Non sarà lui a pagare il prezzo della sua guarigione, con denaro e potenza, ma sarà lui a chiedere di portare qualche zolla di terra sul dorso di due muli. Scopre un volto di Dio da incontrare all’interno della propria vita, nella propria esistenza su questa terra. La terra diviene luogo da guardare in modo diverso, non come territorio di conquista, ma come spazio di benedizione.
"Figlio mio, ricordati di Gesù Cristo, risorto dai morti, discendente di Davide come io annuncio nel mio vangelo, per il quale soffro… ma la parola di Dio non è incatenata".
Nella seconda lettura l'accento sta - contro derive di tipo spiritualistico - sulla storia singolare di Gesù. “Ricordati di Gesù risorto discendente di Davide” è invito ad unire insieme lo sguardo al risorto con la sua esperienza terrena, di Gesù ebreo inserito nella storia del suo popolo, e in quella storia segnata dalla presenza di Dio, con l’alleanza e con le sue promesse. Il risorto è il medesimo che ha vissuto nella sua singolarità storica, all'interno della storia ebraica, come ‘figlio di Davide.’ Messia. Da qui sgorga un'indicazione per i credenti nel percorso ordinario della vita: "Se moriamo con lui, con lui anche vivremo; se perseveriamo, con lui anche regneremo; se lo rinneghiamo, lui pure ci rinnegherà; se siamo infedeli, lui rimane fedele, perché non può rinnegare se stesso”.
Forse queste parole sono un antico inno cantato nelle prime comunità, ripreso dall'autore di questo scritto: in esse sta tutta la fiducia che la storia di Cristo nell'esperienza credente diviene la storia di chi a lui si affida e trova in lui il centro della sua esistenza. La sua storia, è storia di fedeltà. Lui non può venir meno. Quanto ha fatto e detto suo agire, nel corso della sua vita, con la risurrezione si partecipa ad ognuno che crede. La vita nei suoi aspetti più ordinari e quotidiani diviene allora terra in cui si partecipa alla storia di Gesù. La vita può essere una esperienza di comunione con lui nella sua morte e nel dono della sua vita e del suo amore che ha vinto la morte.
“lungo il cammino verso Gerusalemme, Gesù attraversava la Samaria e la Galilea. Entrando in un villaggio gli vennero incontro dieci lebbrosi…”
Luca nel suo vangelo ricorda la figura di Eliseo, il profeta che aveva guarito Naaman quando pure tanti lebbrosi c’erano in Israele a quel tempo (cfr Lc 4,27). Nel suo scendere e lavarsi al Giordano giunge a riconoscere il Dio di Israele, si apre con cuore di povero, guarito, alla fede nel Dio di Israele. Alla sua vicenda Gesù fa riferimento nel suo discorso nella sinagoga di Nazaret. La bella notizia, il vangelo è per i poveri, è liberazione per tutti, cioè possibilità di vita sin da ora: il regno di Dio non conosce limiti ed esclusioni di popoli razze, lingue, ma chiede solo di essere accolto, chiede la disponibilità di cuori aperti all’affidamento.
Ma il discorso nel vangelo si approfondisce: ci può essere una fede che obbedisce alle prescrizioni, ma che non cambia dentro, nel cuore. E’ l’attitudine dei nove lebbrosi: vanno dai sacerdoti, era questa la norma della legge. E’ in fondo la riproposizione di quel tentativo di Naaman di pagare con un suo abbondante dono il profeta: ma non è questione di denaro e di pagamenti. Il percorso di Naaman indica un cambiamento del cuore, della sede delle scelte , là dove tutta la vita è coinvolta, non solo l’esecuzione di una pratica, o di una prescrizione della legge.
Dei dieci lebbrosi solamente uno ‘tornò indietro lodando Dio a gran voce’. Era un samaritano, dice Luca, con sottile ironia. C’è un modo di vivere l’esistenza ma anche la religione nella direzione dei nove: guariti e fedeli osservanti delle norme, secondo la linea del dare per ricevere, secondo un modo di intendere la religione come scambio commerciale. Ma quell’uno, il samaritano, il ‘nemico’, che ritornò sui suoi passi è l’unico che ha vissuto il vero e profondo cambiamento. Gesù collega questo cambiamento, la sua capacità di rendere grazie, con la fede. Lo straniero, il samaritano si apre ad una trasformazione che ne cambia il cuore, lo apre alla gratuità che lo fa andare verso l’altro con le parole della gratitudine.
Gli altri nove rimangono indifferenti: guariti dalla lebbra ma non guariti dalla chiusura che rende incapaci di ringraziare di quel cambiamento che tocca il cuore e fa tornare indietro. L’unico che è tornato ha compreso l’importanza di una relazione personale con Gesù, si è lasciato coinvolgere in un rapporto di vita, ed ha compreso cosa significa ‘stare con lui’.
Rendere grazie è un elemento fondamentale dell’esperienza di fede. E’ proprio questa dimensione di celebrazione, che non ha misure di efficienza, che non risponde alle regole della produzione e del consumo, ma è apertura all’azione di Dio che salva e che vuole per tutti una vita piena. L’unico lebbroso guarito che torna indietro è colui che è stato capce di fermarsi e ricordarsi, e nel ricordare ringrazia e si apre ad un incontro. Gesù riconosce questo dicendogli: “Alzati e và; la tua fede ti ha salvato”.
Noi viviamo l’Eucaristia come ‘rendimento di grazie’ (è questo il significato della parola stessa). In questo celebrare dovrebbe riflettersi il senso della sosta, del tornare indietro e ringraziare. E’ questa anche la scoperta sempre nuova della gioia che fa lodare, in ogni condizione ed esperienza. E’ riconoscimento del venirci incontro di Gesù e del dono che sta alla base di una relazione personale con lui che ci ha rivelato il volto del Dio umanissimo. Non la staticità della fredda osservanza della legge e dell’indifferenza, ma il cammino di chi straniero, al di fuori delle appartenenze proclamate che spesso nascondono radicali incomprensioni e deformazioni dell’esperienza di fede, vive l’esperienza del gratuito.
Dalla parola alla preghiera
Signore aiutaci a leggere nei piccoli gesti del quotidiano il luogo in cui scoprire che questa terra è benedetta, è spazio del tuo agire di salvezza
Donaci o Padre la capacità di sostare, di ringraziare, di aprirci ad una fede che cambi il cuore e si esprima in cammini di gratuità per gli altri
Rendici capaci o Signore di vicinanza profonda e sincera a chi è malato: aiutaci ad avere uno sguardo che scorga non solo la fatica e la sofferenza fisica, ma le fatiche interiori e nascoste
Facci crescere o Signore come persone capaci di gratitudine e di compassione sincera
Oggi è diffusa la proclamazione esplicita della propria appartenenza di fede o di ‘affermare i valori cattolici’ usata come strumento per proporre posizioni politiche, ideologiche o per avere vantaggi dal punto di vista del riconoscimento sociale. Rendici attenti Signore a vivere la fede come movimento che coinvolge tutta la vita, con delicatezza e rispetto, con discrezione e umiltà, e aiutaci a guardarci da tutte le strumentalizzazioni di una religione asservita ai diversi poteri o usata come potere
Uno spunto da…
“Personalmente sono convinto che una buona parte delle inefficienze dei nostri ospedali, e più in generale della nostra sanità, potrebbero svanire se i medici ritrovassero motivazione e interesse per il loro ruolo, se si riscoprissero protagonisti della sanità e capaci di apprezzare la gratificazione derivante dal rapporto umano con il paziente” (Ignazio Marino, Credere e curare, Einaudi, p.100)
Il film “Un medico, un uomo” di Randa Hainmes (1991) è tratto dal libro autobiografico “A taste of my own medicine” del dottor Ed Rosenbaum. E’ il racconto della vicenda professionale e umana di Jack Mckee, chirurgo affermato che tuttavia nella sua vita professionale vive un rapporto con i pazienti segnato da indifferenza e disprezzo. Per ottenere il maggior distacco nei confronti del paziente egli è solito usare la strategia dell’umorismo come appare in diverse scene del film. Ma l’esperienza di Jack McKee cambia quando egli stesso si scopre malato, con un tumore alle corde vocali: si ritrova così a scavalcare improvvisamente quella frontiera che separa il medico dal paziente ed è costretto ad adeguarsi di malavoglia alla nuova condizione di paziente; sperimenta così le lunghe attese e si chiede con rabbia: “cosa ci faccio, io, qui, ad aspettare come un comune mortale”. Oppone il suo rifiuto all’invito a sedersi in carrozzella per essere accompagnato in corsia: “lei ora è un paziente, e se cade in ospedale noi siamo responsabili”. Non riesce ad adattarsi alla vita di ospedale, ai disagi quotidiani, alla convivenza con altri vicini di stanza, agli errori o disattenzioni che possono accadere nella cura. Non accetta e vive la reazione nel dover subire le sofferenze e gli effetti collaterali della radioterapia. In questa situazione vive un incontro particolare con June, una ragazza affetta da un tumore cerebrale, conosciuta durante i cicli di radioterapia.
Sarà in questo incontro - fatto di momenti di tensione e di scoperta della sua incapacità a rapportarsi con i malati - che si aprirà per lui la via per un atteggiamento completamente diverso. Fino a riconoscere i limiti e le colpe di una struttura ospedaliera pensata come azienda di fronte alla malattia concreta della ragazza: si sarebbe potuto diagnosticare il tumore cerebrale precocemente se all’insorgenza dei sintomi fosse stata eseguita una risonanza, esame che “costa almeno 1000 dollari... ma il nostro sistema fa schifo, sono le assicurazioni che ci dicono quali esami fare e quali no”. Ma sarà proprio June, a trasmettere a Jack un atteggiamento diverso. L’operazione a cui Jack è sottoposta risulta risolutiva e lo conduce alla guarigione e a poter tornare alla sua professione. Egli però vive a questo punto in modo totalmente nuovo il suo rapporto con i pazienti. Quando un suo assistente per indicare un paziente in fin di vita usa l’espressione “il terminale della 17” Jack reagisce dicendo: “un malato non è un computer, quel signore che sta morendo ha un nome e se usi ancora la parola terminale, per indicare un malato, potrai subito dopo chiamare così la tua carriera qua dentro”. Chiederà ai suoi assistenti di apprendere non solo i nomi delle malattie ma anche i nomi dei malati “perchè i malati hanno un nome, e il loro essere malati li rende impauriti, imbarazzati, vulnerabili” e imparare il nome implica aprirsi a scoprire il bisogno di aiuto, di ascolto e di comprensione. Tra le esercitazioni che chiederà ai suoi tirocinanti vi sarà anche un gioco di ruolo nell’indossare il pigiama ed essere ricoverati avendo assegnato un tipo diverso di malattia con cui sperimentare la condizione del paziente. Nel frattempo June muore ma prima lascia una lettera: “caro Jack, voglio narrarti una storia... c’era una volta un contadino che aveva molti campi, e cercava di tenerne lontani gli uccelli... ci riuscì, ma alla fine si sentì solo e allora tolse tutti gli spaventapasseri e si mise in mezzo al campo, con le braccia spalancate per richiamare gli uccelli. Però essi, pensavano si trattasse di un nuovo spaventapasseri e continuarono a rimaner lontani. Allora egli capì che doveva abbassare la braccia e allora gli uccelli accorsero. Ecco, anche tu devi fare così: cerca di abbassare le braccia”.
Nel film "Il posto delle fragole" di Ingmar Bergman, l'anziano medico dottor Borg sogna di tornare studente e di essere sottoposto a un esame. Non riesce a rispondere alle domande che gli vengono poste dal severo professore, e in particolare all'ultima: "Qual è il primo dovere del medico?". "Qual è?" chiede di rimando lo studente sconcertato. "Il primo dovere del medico è chiedere perdono".
Dalla Parola alla vita
C’è una lebbra come malattia che richiede cura, ma c’è anche la lebbra di società malate di cui riconoscere i sintomi, per poter intraprendere percorsi di cura. L’articolo di Giannino Piana apparso recentemente in Jesus è una lucida disamina della attuale situazione italiana, che appare segnata da una malattia di cui riconoscere sintomi e su cui ricercare cause innanzitutto prima di proporre facili soluzioni:
“Riferendosi ad alcuni episodi di corruzione, che hanno caratterizzato in questi ultimi mesi la vita politica italiana, i media hanno formulato l'ipotesi della nascita di una «società segreta», la P3, insieme comitato di affari e struttura sotterranea di potere che si propone di influenzare i vari ambiti nei quali il potere ufficiale si dispiega. È difficile dire se (e come) sussista una vera analogia tra questa nuova società occulta e la P2, ma non vi è dubbio che esista una effettiva continuità tra il piano di Rinascita democratica di Licio Gelli, scoperto dalla magistratura agli inizi degli anni Ottanta del secolo scorso, e l'ipotesi di cambiamento del Paese messo in atto dai governi Berlusconi. Infatti, al di là della accertata appartenenza del premier alla P2 con tessera n° 1816 — pochi ricordano la condanna per falsa testimonianza comminatagli, in anni ormai lontani, a Venezia per aver mentito al giudice a proposito di tale appartenenza — sorprendenti sono gli aspetti di convergenza che esistono tra i due progetti.
Comune appare anzitutto — come risulta dalle carte sequestrate nella villa di Gelli — l'obiettivo perseguito, consistente nello svuotamento dall'interno di ogni sostanza reale della democrazia parlamentare in favore di uno Stato populista guidato da un capo carismatico che ha il diretto controllo di tutte le leve del potere. Si tratta, in sostanza, di una lotta senza esclusione di colpi nei confronti della politica, che viene screditata e vilipesa, mortificando i partiti, esautorando i sindacati, sradicando la cultura dell'uguaglianza e dei diritti per sostituirla con una cultura clientelare, dove a prevalere sono gli interessi delle corporazioni forti e la costante prevaricazione nei confronti delle classi più deboli.
Ma comune risulta pure la strategia mediante la quale si tende a perseguire tale obiettivo: dall'asservimento dei media, ridotti a strumenti di distrazione delle masse, al disprezzo per le regole e per le procedure, considerate meri impedimenti all'azione di Governo; dal continuo dileggio della magistratura e degli organi istituzionali di controllo — quali la Presidenza della Repubblica, la Corte Costituzionale, la Corte dei Conti, ecc. — alla riduzione degli spazi di indagine della magistratura e della polizia; dal bavaglio all'informazione alla divisione delle carriere giudiziarie con la dipendenza dei pubblici ministeri dall'esecutivo; dal dileggio della Costituzione giudicata superata e progressivamente ridimensionata, fino alla più volte ventilata proposta di introduzione del presidenzialismo. Ciò che si intende, in definitiva, smantellare è il sistema di garanzie, faticosamente costruito nel corso della storia della nostra Repubblica e finalizzato a favorire una partecipazione sempre più ampia alla gestione della cosa pubblica, a dar vita a forme di rappresentanza più qualificate e a creare condizioni di rispetto dell'autonomia dei poteri e di equilibrio nei loro rapporti. La crisi della politica, provocata da Tangentopoli, e il cambiamento del clima culturale a opera dei media hanno determinato l'uscita del progetto piduista dalla clandestinità e dall'area del potere occulto per proporsi in campo aperto. Da disegno eversivo, che mirava a destabilizzare il sistema per crearne uno alternativo mediante una struttura di superpotere ramificata nei gangli vitali della società, grazie all'infiltrazione di persone appartenenti al mondo delle banche, dei servizi segreti, dell'imprenditoria, della politica, del giornalismo, ecc., esso diviene proposta che ottiene il consenso popolare e che riceve perciò piena legittimazione sul piano legale. Gli esiti di questa operazione sono evidenti: partiti inesistenti, parlamentari designati dall'alto, sindacati lacerati e impotenti, magistratura screditata, Rai distrutta come servizio pubblico, e si potrebbe continuare. Ma ciò che soprattutto sconcerta (e preoccupa) è che tutto questo avvenga nell'indifferenza di gran parte della popolazione, nel servilismo di molti uomini pubblici e nell'insufficiente reazione dei "chierici", spesso tra loro divisi. Si tratta pertanto di una drammatica emergenza etica, che esige, per essere adeguatamente affrontata, un forte impegno teso in primo luogo a riabilitare la politica, restituendo dignità al parlamento, rifondando i partiti, rimettendo al centro il lavoro, difendendo l'unitanazionale e reagendo alle disuguaglianze e al razzismo. Ma esige anche un rinnovamento profondo delle coscienze. Un rinnovamento improntato al recupero di valori quali l'onestà e la trasparenza, l'uguaglianza, la giustizia e la solidarietà che sono le basi della vita democratica. Il danno più rilevante dell'attuale congiuntura è infatti di natura morale e culturale. E reclama per questo l'impegno di tutti a ricostruire le fondamenta di una politica che concorra allo sviluppo di una serena convivenza civile” (Giannino Piana, Il berlusconismo, trait d'union tra P2 e P3 “Jesus” ottobre 2010)
Alessandro Cortesi op