27-6-10 - XIII Domenica tempo ordinario - Anno C
1Re 19,16b.19-21; Gal 5,1.13-18; Lc 9,51-62
Omelia
“Mentre camminavano per la strada, un tale gli disse: ‘Ti seguirò dovunque tu vada’ E Gesù gli rispose: le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo”
La strada è più che un’indicazione marginale di contorno che colloca gli incontri di Gesù. Tutte le testimonianze che ci parlano di lui sono concordi su questo: Gesù, vissuto per più di trent’anni della sua vita in una regione marginale della Palestina del I secolo ad un certo punto compì la scelta di vivere una vita itinerante. Rinuncia al lavoro, alla casa, alla famiglia: ma è una rinuncia che non lo assimila alle figure di asceti o anche alla stessa figura di Giovanni il Battista, profeta radicale, con cui pure Gesù venne a contatto. Non lo rende lontano dalla fatica di chi lavora, non lo allontana dalle case e dai legami di affetto e amicizia, lo conduce ad indicare una forma di rapporti fraterni, una forma di famiglia, che travalica confini e chiusure egoistiche. Senza un lavoro, senza sicurezze economiche, senza casa e famiglia, capace per questo di mettersi in cammino, di vivere sulla via, aperto a vivere incontri, a condividere le fatiche, le case, i legami famigliari. Tutti segni di un affidamento radicale, coerente a Dio, vissuti con l’urgenza di comunicazione e annuncio di ciò che egli chiamava ‘il regno di Dio’: una situazione nuova di vicinanza da parte di Dio e di rinnovamento della storia. Il regno di Dio si era fatto vicino ed il suo vivere in quel modo esprimeva la tensione radicale nel comunicare nella sua esperienza concreta la vicinanza del regno. La strada diventa così il luogo del suo passare, del suo andare incontro. Sì, perché aveva bisogno della casa di altri, e veniva ospitato nelle case degli amici, o di donne che partecipavano e sostenevano lui e coloro con cui si muoveva. Ma il suo fermarsi era tappa per un andare oltre: ‘per questo sono venuto…’ La strada è il luogo in cui Gesù incontra coloro che gli si fanno incontro e coloro che liberamente chiama a seguirlo.
A chi si presenta e gli dice ‘ti seguirò dovunque tu vada’ la risposta è scoraggiante: il figlio dell’uomo non ha dove posare il capo. E’ parola che smonta ogni ricerca di sicurezza, di stabilità, di una casa appunto. Gesù vive in prima persona un’identità senza reti: senza reti di appartenenze che lo trattengano, senza reti di collocazione religiosa, senza reti di privilegi. Il figlio dell’uomo non ha dove posare il capo: è una provocazione forte alla nostra ricerca, anche quella connotata religiosamente, di costruire in qualche modo una casa come difesa, come copertura, come realtà propria per poter accogliere. Gesù vive la scelta della povertà inerme del lasciarsi accogliere, dell’ascolto della vita a cui egli offre indifesa la sua parola e la sua presenza. In questo senso la sua è una sfida ad ogni potere. E’ scelta di libertà anche nello scoraggiare chi si presenta a lui. Non è nascosto alcun vantaggio nel seguirlo sulla strada: è proposta di una libertà che mette al centro una relazione vissuta gratuitamente. Per questo è il suo cammino la casa in cui può accogliere: Gesù si manifesta ospitale nel lasciar condividere il cammino, senza reti, senza privilegi, senza poteri. “A un altro disse: seguimi”. C’è una pretesa senza paragoni in questa richiesta, senza garanzie, senza assicurazioni. Al cuore sta la proposta di una condivisione in cui tutto venga posposto all’urgenza di condividere con lui la proclamazione che la signoria di Dio sta facendo irruzione nella vicenda umana e della storia, e questo si rende visibile in un rapporto nuovo con lui, nella scoperta del volto di un Dio che va in cerca di ognuno, si rende visibile nella speranza aperta per gli impoveriti e gli emarginati della storia, si rende visibile nei gesti di liberazione che Gesù attua, si rende visibile nella sua stessa scelta di affidamento radicale, sulla strada, nel cammino della vita, laddove è presente il Dio dell’esodo e il Dio che cammina accanto e solidale con i poveri.
C’è una radicalità di fondo nello stile di Gesù eppure va di pari passo con una attitudine di mitezza anche di fronte alla non accoglienza e al rifiuto: a chi gli chiedeva di ‘mandare un fuoco dal cielo’ su chi non l’aveva accolto nel suo cammino, Gesù risponde con un rimprovero. La sua nonviolenza non è passiva accettazione, è tensione chiara verso una proposta che si rende visibile nel suo camminare. E’ uno stile che non viene meno alla radicalità, ma attua la compassione e la misericordia: l’importante è che il seme venga gettato, in una testimonianza che non si lascia distrarre. Gesù non si attarda nelle contestazioni, pur percorrendo cammini diversi, non si fa coinvolgere nel circolo della reazione nei confronti di chi lo osteggia. Presenta nei suoi gesti il fascino di una libertà che fa riflettere e fa cogliere la distanza tra il suo cammino e i tanti cammini di chi dice di seguirlo ma di fatto non lo fa. Perché a chi lo segue presenta non altre ma due richieste fondamentali, di andare e annunciare il regno di Dio: ‘tu invece va’ e annuncia il regno di Dio’.
Preghiere
I beni costituiscono un elemento della nostra vita, per noi e per gli altri. L’uso dei beni nella chiesa è stato ed è ancora occasione di cedimento a logiche lontane dal vangelo: la gestione di grandi opere per promuovere iniziative assistenziali ma senza considerare la legalità e la giustizia, l’uso dei beni per interessi di potere e assecondando i progetti dei potenti. Ti preghiamo Signore rendici capaci di usare dei beni nella libertà che tu ci doni, donaci il coraggio del distacco, della sobrietà, per non essere asserviti alle logiche del potere sia esso economico, politico o religioso, per non appagarci di sicurezze che distolgono dall’incontro con Te, dal tuo vangelo, ti preghiamo
Si sta svolgendo il campionato del mondo di calcio in Sudafrica. Alcuni missionari comboniani in un loro appello richiamano che “gli abitanti delle baraccopoli vengono forzatamente sfrattati e fatti vivere in transit camps… mentre ai venditori di strada è stato proibito di vendere la propria merce … la Coppa del mondo è divenuta l’occasione per ristrutturare le città secondo criteri che favoriscono solo le élite. I poveri vengono spinti fuori, lontano dagli occhi dei turisti e dei giornalisti” (www.carta.org). Ti preghiamo Signore questo evento sia opportunità per noi di ascoltare le popolazioni oppresse protagoniste di cammini di liberazione. Sia occasione non di stordimento e di indifferenza ma di promozione di diritti e ruolo sociale e politico dei poveri. Ti preghiamo
Uno spunto da
“Per cosa viviamo?
Ci vuole un grande coraggio o tanta incoscienza per porsi questa domanda. E ancor più coraggio ci vuole per cercare una risposta, ad esempio parlando di felicità, di ciò che intendiamo per felicità per noi stessi o di ciò che immaginiamo sia, per gli altri, la felicità. D’altra parte, la morale delle favole non arriva proprio quando la storia si conclude e la felicità comincia? Quando il principe sposa la contadina il tempo incalza e mancano le parole: “vissero felici e contenti ed ebbero molti figli”. Se non abbiamo niente da dire o da raccontare sulla felicità, e se proviamo una grande difficoltà a definire cosa essa sia, quando si tratta di evocare ciò che la ostacola o la minaccia la letteratura è più ricca e ci dilunghiamo di più: il dolore sotto diverse forme, la malattia, la povertà, la solitudine, la morte. La definizione minima della felicità è assenza del dolore, tregua, pausa. (…)
Occupiamoci un momento dell’immagine della felicità che la società propone o tende ad imporre agli individui che hanno la fortuna di vivere nella parte più sviluppata del mondo. Questa società è detta ‘dei consumi’: espressione che ha due implicazioni, suggerisce che l’ideale sociale sia il consumo per tutti e di tutti, ma anche che tutto debba essere consumato, e dunque, prima prodotto: non solo i cibi e tutti i beni di sussistenza immediata, ma anche l’informazione, il divertimento, la cultura, il sapere, elevati perciò alla dignità di ‘prodotti di consumo’ (…) In breve l’individuo non è libero di non essere ciò che l’epoca vuole che sia. E questa vuole che lui sia felice. Che consumi e sia felice. Mentre propone contemporaneamente una definizione della disgrazia e dell’insoddisfazione: non consumare”.
(Marc Augé, Perché viviamo?, Meltemi 2004)
Marc Augé è Directeur d’Études presso l’École des Hautes Études di Parigi, uno tra gli antropologi più attenti alla condizione della contemporaneità. Studioso dei villaggi africani, dalla sua immersione nell’esperienza della vita dei villaggi e dagli studi etnologici in Costa d’Avorio e in Togo ha acquisito strumenti e sensibilità per leggere la realtà occidentale. In questo libro analizza la nozione di felicità presente in occidente inventandosi la figura di un personaggio, Dupont, che incarna le caratteristiche dell’uomo medio, una sorta di caricatura che assomiglia al denominatore comune più basso: Dupont è un dirigente di agenzia bancaria, diligente e puntuale nel suo ritmo quotidiano di lavoro, un telespettatore accanito che non si perde una delle trasmissioni quotidiane serali e si dedica soprattutto a tutte le manifestazioni sportive teletrasmesse. Dipendente dalle mode del momento e condizionato dalla televisione, usa internet e tuttavia si sente libero perché anche protesta davanti alla TV denunciando la vacuità dei programmi che guarda; ha una moglie amante dei viaggi, un figlio adolescente, con essi programma le vacanze. Tutti e tre “felici e senza storia”. Dupont è espressione dello spirito e del condizionamento di un’epoca. Al passo con i tempi, sempre connesso via computer e con il suo cellulare in una rete di relazioni fatte di immagini e volti familiari, ma sconosciuti. “L’individuo non è libero di non essere ciò che l’epoca vuole che sia. E questa vuole che lui sia felice. Che consumi e sia felice”. Tuttavia i Dupont si rendono anche conto che “l’individuo che consuma da solo, che trasmette, comunica e riceve informazioni, che reagisce alle false certezze e alle immagini del presente, l’individuo tutto sorrisi delle immagini pubblicitarie o dei varietà televisivi non esiste, non può esistere”. E nei circuiti ristretti di una vita individuale sorge il desiderio, l’attesa di uscita da una solitudine incombente. Un’esigenza di felicità in cui lo spazio e il tempo, vissuti con gli altri, divengono le coordinate di una ricerca in cui si apre speranza ed anche possibile liberazione dai riti e dagli obblighi di una felicità fatua e illusoria.
Perché viviamo? è la domanda che rimane sospesa al cuore del saggio: nel tempo della globalizzazione due figure molto diverse emergono. Sono quella della globalizzazione e quella della coscienza planetaria. Su quest’ultima Augé si sofferma: è una “coscienza infelice ed ecologica”, apertura alla scoperta della propria fragilità, delle insicurezze e delle fragilità del pianeta in cui viviamo e di cui siamo parte e consapevolezza di responsabilità. La domanda ‘perché viviamo?’ implica un interrogarsi sul cammino, quello passato, quello di oggi e quella strada che con i passi di oggi può aprirsi.
“La necessaria relazione con gli altri, l’impossibile coscienza di sé, la legittima aspirazione a conoscere il mondo: all’interno di questo triangolo si è giocata la storia degli uomini e si giocherà ancora domani a un ritmo accelerato e senza tergua”. A fianco di queste dimensioni aggiungerei anche la dimensione di un incontro possibile, un ‘oltre’ che non sta fuori e contro ma al di dentro di queste ricerche umane di uscita dall’orizzonte asfittico di pseudo-felicità dell’individuo ripiegato e consumatore. E’ una via che sgorga dalla contestazione delle sicurezze del possesso, del potere e dell’appagamento, quella via testimoniata dal figlio del falegname di Nazaret, che apre ad un affidamento radicale, ad un incontro con il Dio che si fa incontro all’umanità sulla strada e nella vita.
Dalla Parola alla vita
E’ sconcertante ascoltare una pagina del vangelo in cui si parla del ‘figlio dell’uomo che non ha dove posare il capo’ e confrontare queste parole con quelle dei primi titoli dei giornali di queste settimane: Scatta l'allarme allo Ior. E Bertone blinda l'immobiliare del Vaticano (La Stampa 22 giugno 2010); Gli affari di Propaganda fide. Perché Sepe non è “scaricabile” (Il Riformista 19 giugno 2010); Le indagini e le difficoltà del Vaticano (Corriere della Sera 23 giugno 2010). E’ il caso di patrimoni immobiliari gestiti dai vertici di Propaganda Fide in modo tale da fare sorgere un’inchiesta giudiziaria che dovrà fare chiarezza su eventuali illegalità. La questione di beni e risorse non è facile; un approccio idealista e disincarnato rischia di fare perdere di vista che la gestione dei beni costituisce un ambito ineludibile, del vivere, pur se rischioso e ambiguo. E talvolta anche nasconde una scissione e divaricazione tra retorica dell’ideale e amministrazione del concreto. Per tutti nella propria quotidianità e per ogni istituzione umana è questo uno degli ambiti che richiede capacità di discernimento, mediazioni faticose tra orizzonti ideali e concretezza delle scelte quotidiane, facile esposizione ad errori di valutazione e a scelte contraddittorie rispetto ai propri principi. E fa scontrare con la difficoltà di mediare esigenze di distacco con una linea di responsabilità per sé e per gli altri. Nella storia la gestione di beni è spesso stato ambito in cui si è attuato un cedimento a logiche di potere e compromessi con i poteri politici, trasformazione della chiesa stessa in lobby di potere, preoccupata di interessi economici, di efficienza mondana e di esibizione di mezzi potenti. Da qui la perdita del senso profondo della propria esistenza per la comunità chiamata a testimoniare la libertà e il distacco del vangelo di Gesù.
Aldo Maria Valli, da giornalista, si interroga presentando alcune domande ingenue, che tuttavia aprono questioni di fondo, non risolvibili forse nelle poche righe di un articolo di commento, ma che vanno tenute presenti, per pensare, per far pensare soprattutto chi ha responsabilità di vertice e per suscitare percorsi di revisione profonda ad ogni livello della comunità cristiana:
“Tuttavia restano le domande. Perché nel momento in cui un alto funzionario dello stato cerca casa si rivolge a Propaganda Fide anziché a un’agenzia immobiliare? Perché un dicastero vaticano si attiva in proposito? Perché un cardinale di santa romana Chiesa si occupa di queste cose? Che cosa c’entra tutto questo con la Chiesa e con la sua missione? Domande da ingenui, certo. Ma domande che attendono risposte. Il cardinale Sepe dice ai magistrati di aver fatto tutto con trasparenza e di aver avuto i bilanci approvati dalla segreteria di stato vaticana. Anche in questo caso non c’è motivo di dubitarne e comunque i giudici sapranno stabilire come sono andate le cose. Restano però le domande degli ingenui. Perché la segreteria di stato vaticana si occupa di tutto ciò? Che cosa c’entrano queste attività con il Vangelo di Gesù? E, ancora prima, perché deve esistere una segreteria di stato del Vaticano?... L’ingenuo sogna una Chiesa povera, in grado di seguire le vie della profezia anziché quelle della diplomazia. Mentre le seconde richiedono apparati burocratici e di governo, le prime richiedono solo un cuore puro e una coscienza pulita. Proprio ieri un’amica ci ha ricordato che secondo don Tonino Bello la Chiesa dovrebbe evitare come la peste le tre P di profitto, prodigio e potere e incarnare invece le tre di P di parola, progetto e protesta. Anche don Tonino era un ingenuo…” (Aldo Maria Valli, Sepe, gli altri, e le domande degli ingenui, “Europa” 22 giugno 2010)
Alessandro Cortesi op