18-7-10 - XVI Domenica tempo ordinario – Anno C
Gen 18,1-10; Col 1,24-28; Lc 10,38-42
Omelia
Nella parabola del samaritano lo straniero, l’eretico, il nemico, era stato l’unico che ‘vide’ ed ebbe compassione e si fermò prendendosi cura dello sconosciuto sulla strada. Vide ciò che i custodi del sacro, i detentori della teologia avevano pur visto. Ma non li aveva toccati ed erano passati oltre. Il samaritano si era lasciato commuovere nelle viscere dal volto del sofferente, aveva agito concretamente ponendo gesti di cura e vicinanza. In lui si può riconoscere il volto di chi si è fatto prossimo. Non era considerato vicino, né per lui lo sconosciuto sulla strada era vicino. Eppure si fece prossimo.
In questo sta il cuore di tutta la legge: amare Dio e amare il prossimo con tutte le forze.
Cosa vale come senso per la vita? A questa domanda la parabola offre una direzione inequivocabile di risposta: la cura verso l’altro, il chinarsi verso chi è piegato dalla sofferenza. E si aprirebbe allora la ricerca di fronte alla parola di Gesù: ‘Và e anche tu fa’ lo stesso’. Ciò implica aprire gli occhi, educarsi a vedere, rompere le bolle dell’indifferenza che impediscono di essere consapevoli della vita di chi vicino e lontano soffre, percorrere cammini in cui fermarsi e lasciarsi muovere dentro da chi oggi è lasciato ai margini delle strade, dei deserti nei percorsi delle migrazioni, di luoghi di lavoro segnati dal dominio delle esigenze del mercato. ‘Va’ e anche tu fa lo stesso’ è invito a rompere le chiusure di società egoiste e rinchiuse nei propri privilegi, è invito ad essere chiesa coraggiosa nello scoprire che la gloria di Dio è l’uomo vivente, non la macchinazione politica o una custodia del sacro che non riesce e non sa vedere la condizione dei sofferenti e degli impoveriti.
Luca continua il racconto presentando subito dopo un quadro domestico: un momento squisito di ospitalità, con le sue diverse sfaccettature. Gesù è accolto nella casa di Marta e Maria.
Una certa lettura di questa pagina ha contrapposto l’atteggiamento di Marta tutta presa dai molti servizi e l’atteggiamento di Maria, seduta ai piedi di Gesù, che ascoltava la sua parola, sottolineando la scelta della parte migliore. Giungendo così a contrapporre la contemplazione e la preghiera al servizio e all’operare ospitale. Marta è presentata come ‘presa dai tanti servizi’: ma per questo è una figura bella e positiva. Certo se i tanti servizi non divengono occasione per dimenticare a chi questo servire è destinato: ma c’è un profondo ascolto nascosto nel servire. Maria d’altra parte ascoltava la parola di Gesù. Come altri nel vangelo di Luca sono descritti ‘seduti ai piedi di Gesù’ in attesa di essere liberati (Lc 8,35). Luca non contrappone la contemplazione all’azione. Richiama piuttosto come nella vita ogni gesto di servizio e attività vissuta nella scoperta di essere prossimi, trae la sua linfa in uno spazio di ascolto. E l’ascolto a sua volta rinvia all’agire, rimane sterile se non porta frutto nella vita. E’ una pagina quindi che parla dell’ospitalità, con i diversi movimenti che la compongono e la strutturano. Ospitare implica innanzitutto ‘fare spazio’ nella propria casa. Marta e Maria hanno aperto la loro cosa, hanno lasciato varcare la soglia che poteva essere confine di chiusura e di difesa impaurita. E l’hanno aperta non solo ad una serie di bisogni e necessità. L’ospite che giunge è presenza viva, chiede incontro e ascolto prima ancora che risposta alle sue necessità. Maria e Marta in modi diversi e completantesi a vicenda aprono uno spazio per la parola e la presenza dell’ospite insieme all’operosità del servizio per approntare quanto gli potrà essere utile. E’ vero che senza ascolto ogni servizio è vano; ma proprio l’ascolto apre a lasciare spazio alla domanda e alla parola di chi è ospite.
L’ospitalità è esperienza che Gesù ha vissuto profondamente, lasciandosi accogliere, e vivendo la sua vita come spazio aperto perché altri potessero entrare, dove potevano ricevere ascolto. C’è una condivisione profonda di Gesù nel lasciarsi accogliere, una traccia della sua povertà, del suo non possedere e della rinuncia all’attitudine paternalistica che può celarsi dietro il gesto di chi ha qualcosa da dare e lo offre dall’alto verso il basso a chi non ha. Gesù è il povero che accoglie di essere ospitato e nel viverlo si fa lui stesso spazio d’incontro. Apre così a scoprire che ospitalità non è solo questione che investe solamente le porte delle case ma è questione delle porte dei cuori: è cambiamento interiore a lasciarsi segnare dalla presenza dell’altro, è esperienza possibile per chi ha beni da offrire ma anche per chi sa scoprire che il cuore stesso, e per primo, può divenire ospitale. Come Gesù aveva parlato delle viscere del samaritano, nella sua visita da Marta e Maria ci aiuta a scoprire la possibilità, la nostalgia di accoglienza profonda prersente nelle viscere, nei cuori: può esservi un cuore chiuso e indurito o possiamo divenire cuore ospitale. Lui l’ospite ha il volto di chi sa veramente fare spazio all’altro: richiama l’ascolto come caratteristica di fondo che apre la persona a lasciarsi chiamare, a lasciarsi toccare da una parola altra, a scoprirsi prossimi.
Dalla Parola alla preghiera
Signore guidaci a vivere l’ospitalità come scelta concreta in un mondo segnato da ripiegamenti identitari…
Signore rendici percone capaci di ascolto: ascolto dell’altro, ascolto della tua voce che si fa vicina negli incontri, ascolto della tua presenza nel silenzio della preghiera…
Uno spunto da…
“In cucina, sul tavolo, c’erano biscotti e budino e spremuta di arancia. Spettacolare. Spettacolare quel giorno. Spettacolari i giorni successivi. Sarei restato lì per sempre. Perché quando sei accolto da qualcuno che ti tratta bene – ma con naturalezza, senza essere invadente – capita che ti viene voglia farti accogliere ancora di più. O no? L’unico problema era la lingua, ma quando ho capito che a Danila e Marco faceva piacere sentirmi raccontare la mia storia, ecco che ho cominciato a parlare e a parlare e a parlare, in inglese e in afghano, con la bocca e con le mani, con gli occhi e con gli oggetti. Capiscono o non capiscono? mi chiedevo. Pazienza, era la risposta. Io parlavo. Fino al giorno in cui si è liberato un posto in comunità (…).
Così ho potuto parlarle, a Danila, e dire che, grazie grazie, ma in quel posto io non ci stavo troppo bene, per questo e per quell’altro motivo, che non ero venuto fin qui per mangiare, dormire, guardare i programmi della televisione. Volevo studiare e lavorare. (…) La settimana dopo, invece … si è avvicinata, mi ha preso da parte e a bassa voce, come se le parole fossero pesanti, mi ha chiesto se mi sarebbe piaciuto andare a stare da loro, che di spazio ce n’era, come avevo visto, e che se mi faceva piacere quello spazio potevano darlo a me” (Fabio Geda, Nel mare ci sono i coccodrilli. Storia vera di Enaiatollah Akbari, ed. B.C.Dalai 2010).
Enaiatollah Akbari è di etnia hazara, nato nel sud-est dell’Afghanistan nella provincia di Ghazni. Ha appena sei anni quando fu costretto a confrontarsi con l’ingiustizia e la violenza: quella dei pashtun che per risarcire il carico del camion perduto in un incidente dove aveva trovato la morte suo padre minacciavano di prendere lui e il fratello come schiavi. Il padre lavorava infatti per un ricco signore pashtun guidando camion di trasporti con il Pakistan. E con la violenza rozza dei talebani che davanti a lui avevano ucciso il maestro e il preside della sua scuola, obbligando a chiuderla. La mamma di Enaiatollah riesce a nasconderlo dalle mani del padrone pashtun e dei talebani. Nava era la sua città: da lì non sarebbe mai voluto andare via. Ma di fronte alle minacce persistenti la mamma lo accompagnò fino a Quetta e lì, una notte dopo averlo stretto a sé, lo lasciò sul tappeto dove dormiva separandosi da lui, ritornando agli altri figli, e lasciandolo solo ad un lungo viaggio. A dieci anni Enaiatollah inizia a vivere da solo. Lavora; cerca ad un certo punto fortuna in Iran. Poi decide di affidarsi ad altri trafficanti di uomini dirigendosi verso occidente. Il racconto curato da Fabio Geda è il ripercorrere questo viaggio come racconto di una vita, di un bambino che da solo compie questo itinerario tra i dieci e quattordici anni fino a giungere in Italia. Con uno sguardo capace di ironia e sorriso nell’incontrare tante persone, guidato da una forte speranza oltre le difficoltà, esperienza di una accoglienza della vita e degli altri. Anche “una storia di liberazione: da un destino segnato e dai nostri pregiudizi” (Fabio Fazio) nella apertura alla sorpresa di cosa può rivelare l’ospitalità accolta e donata.
Dalla Parola alla vita…
Trovo significative le parole di don Virginio Colmegna nella prefazione al libro di Emiliano Bos, In fuga della mia terra, ed. Altreconomia 2010 testo completo consultabile al link http://www.altreconomia.it/site/fr_contenuto_detail.php?intId=2257. Conduce a cogliere le dimensioni concrete di una ospitalità che oggi dovrebbe superare gli orizzonti, pur necessari, dell’emergenza assistenziale per farsi ricerca di percorsi di offerta e ottenimento di cittadinanza con caratteri nuovi per chi vive nel mondo delle migrazioni globali.
“Di fronte a un’Europa che alza barriere e a un’Italia che criminalizza l’immigrato è certamente significativo un lavoro come questo, che attraversa il mondo intero, le zone dove si avverte il dramma della povertà, della miseria e dell’ingiustizia, ma dove soprattutto vibrano le storie delle persone e i loro volti. I processi globali hanno di fatto superato le barriere, eppure ci sono ancora uomini e donne non considerati come persone, che portano dentro di sé l’abbattimento di tali barriere. (…)
L’immigrato fa paura, anche se ormai ci sono processi migratori forti dal punto di vista numerico. Non dobbiamo dimenticare che si tratta sempre di persone con le loro storie. Con grande precisione, con tutta la passione che ha, non solo da cronista e da uno che raccoglie notizie ma da uno che incrocia le storie, Emiliano dialoga con queste storie, si interroga sul grande tema del viaggio, che accompagna la sua esperienza personale ma accompagna anche le pagine di questo libro. Per me riguarda anche la dimensione della mia fede, fondata su una parola, su un viaggio, su un esodo. Un Dio che si rivela invitando un popolo a uscire dalla schiavitù, a camminare nel deserto, ad arrivare alla terra promessa. Il tema del viaggio recupera tutte le culture e tutte le religioni del libro. Chi cammina, con ciò stesso testimonia questo grande bisogno di fraternità. La stessa metafora del viaggio è spesso rappresentata in quella particolare ricerca di Dio che è la vita monastica, la cui rilettura moderna comporta il recupero del tema dell'incontro e non della fuga. Si torna così a incontrare l’umanità delle persone. Invece oggi, da noi, troppo spesso l’immigrato conta solo come persona “utile” a un mercato del lavoro senza regole, al punto che si programmano i flussi come se fosse un mercato organizzato. Non è così: questo sistema è fatto per essere trasgredito. Due immigrati su tre hanno ottenuto il permesso di soggiorno dopo essere stati irregolari. L’irregolarità è paradossalmente il percorso principale per diventare regolari in Italia. La nuova legislazione non definisce i reati per responsabilità individuale ma per il solo fatto di essere migranti, gettando nella nostra cultura la paura dell’immigrato, la sua pericolosità. Ecco perché stiamo regredendo ed ecco perché il tema della cittadinanza diventa centrale. E già prima del decreto sicurezza, per avere il permesso di soggiorno bisognava recarsi in Questura. Non è stato creato nemmeno un servizio amministrativo per la gestione dell’immigrazione. (…)
Il testo che segue, vi è questo racconto, che fa intravedere sempre il filo rosso della speranza, dove non può mancare la fiducia di poter continuare il viaggio arricchiti anche dall’esperienza dell’incontro. È un invito molto profondo a superare quello che spesso noi chiamiamo l’assistenzialismo, il pietismo, il commuoversi e poi lasciare le cose così come sono. E allora credo che questo libro, con il dramma delle tante esperienze, sia una lettura anche profondamente spirituale, nel senso più laico della parola, nel senso del dialogo profondo. Perché tutte le persone che si incontrano, segnate a volte dalla miseria, dal dolore, dalla povertà hanno all’interno questa dimensione spirituale, una dimensione che vale per tutti noi”.
Alessandro Cortesi op