13-6-2010 - XI Domenica tempo ordinario - Anno C
2Sam 12,7-10.13; Gal 2,16-19.21; Lc 7,36-8,3
Omelia
“Perché dunque hai disprezzato la parola del Signore, facendo ciò che è male ai suoi occhi?”
Al centro del dialogo tra Davide e il profeta sta una domanda sospesa: una domanda che gli ricorda la parola di Dio. E’ una domanda che accompagna a riconoscere di avere compiuto il male agli occhi del Signore. Fa cogliere la distanza tra l’agire di Davide e la logica di Dio. Ma lo fa ricordando a Davide che può riconoscere se stesso, le sue scelte, solamente se avverte che la sua persona è interpellata, è un ‘tu’ che sta davanti a qualcun altro, che lo chiama e gli si rivolge. E’ invito ad alzare lo sguardo, a non restare chiuso in un ripiegamento e autodifesa che non fa riconoscere l’altro. L’altro che non può essere piegato alle proprie esigenze, ai propri interessi. L’altro che non deve essere strumentalizzato a misura di un io potente, che tutto può comprare e permettersi, che tutto sistema secondo i propri calcoli. Davide è accompagnato dal profeta a riconoscersi in tal modo come colui che ha peccato: ha disprezzato la parola del Signore perché la sua vita era concepita senza l’altro. Non stava di fronte a… non ascoltava una chiamata che la precedeva. Peccato è quindi indicazione di una logica di vita: laddove esiste solamente la propria parola onnipotente e senza limiti, laddove le voci e gli appelli degli altri - in cui si fa presente la parola dell’Altro - dei deboli, sono tralasciati, schiacciati e allontanati sì da non sentirli. Peccato è un orizzonte di scelte e di modo di concepire l’esistenza in una relazione piegata nell’orizzonte chiuso dell’idolatria dell’io. Percepire il peso del peccato è qualcosa di faticoso, diviene percorso liberante perché apre ad un cambiamento, apre ad uscire dalla grande pena che è la schiavitù e l’imprigionamento nel proprio io, nella autoesaltazione e affermazione di sé ad ogni costo.
Davide vedeva solamente il suo interesse, la sua ricchezza, le donne, gli altri, come sua proprietà, i suoi soldati come pedine di cui disporre. Quando si apre a scoprire che egli stesso è un tu in relazione, con volti storie e nella relazione fondamentale con la parola del Signore, si apre a scorgere una alterità fondante la sua esistenza. Si fa strada il riconoscimento del peccato come di un costruirsi che non compie la sua umanità chiamata ad essere relazione, a costruirsi sempre, di nuovo, nella relazione.
In questo riconoscimento si apre una strada inattesa e nuova. il Signore ha rimosso il peccato, la sua è presenza che dona possiiblità di vita oltre il peccato: “tu non morirai”. Così il salmo esprime questo passaggio: “Ho detto: confesserò al Signore le mie iniquità e tu hai tolto la mia colpa e il mio peccato”.
Da queste parole veniamo a conoscere alcuni gesti delicatissimi propri dell’ospitalità orientale e dell’accoglienza nella condivisione della mensa: l’acqua per lavarsi all’ingresso della casa, il bacio, l’olio e il profumo.
Simone il fariseo aveva preparato un banchetto ben organizzato, ma aveva tralasciato i gesti dell’amore. Una donna, senza nome, trova un varco, entra a scompaginare questa festa. Ha il coraggio e la libertà femminile di parlare con gesti inauditi, gesti dell’ospitalità e che sfondano il rito dell’ospitalità: sono i gesti dell’amore che vanno oltre i riti codificati. Scandalo nell’organizzazione del banchetto. Ma a questa donna Gesù guarda come segno di presenza nuova. Vede nei suoi gesti il tratto dell’accoglienza profonda, lo spossessamento di sé per fare spazio all’altro, l’amore di consegna e di alterità. Il fariseo, l’uomo della legge, viene posto davanti alla parabola del ‘condono’ di un debito e risponde secondo la logica del dare/avere: ‘amerà di più colui a cui ha condonato di più’. Gesù, subito dopo, guardando la donna, presenta un percorso diverso, che rivoluziona ogni pensiero religioso. E’ l’amore che genera il perdono: ‘le sono perdonati i peccati perché ha molto amato’. L’onnipotenza fragile sta nei gesti della gratuità della donna che aprono al perdono di Dio. E’ l’amore che suscita il dono. Per lei è stata la scoperta di un dono che la precedeva, da cui si era sentita accolta, lei di cui si diceva: ‘se fosse profeta saprebbe chi e che specie di donna è colei che o tocca’ - . La consapevolezza di essere accolta le ha suggerito i gesti dell’amore gratuito, l’amore che si fa concretezza nei gesti dell’ospitalità. Gesù è accolto come l’ospite atteso e amato dalla donna. Eppure lei stessa rivela nei suoi gesti la scoperta che l’ha spinta a farsi strada in quella casa del fariseo, la consapevolezza di essere accolta, lei nella sua storia, con le sue ferite, con i suoi errori e con le sue sofferenze, con la commistione intricata di bene e male presente nella sua vita. E’ la consapevolezza che Gesù poteva ospitarla, lui che non aveva casa dove poter mettere a disposizione una tavola dove mangiare insieme. Lei esprime questo con gesti così umani da essere il gesto di Dio, i gesti profondi dell’ospitalità. E’ allora il perdono di Dio l’amore che genera ospitalità. E si rivela così una sorperendente circolarità tra condono, e amore, tra perdono e amore.
L’ospitalità nei confronti dell’altro, dello straniero, del povero è esperienza che provoca a convertirsi, che fa incontrare il volto di Dio raccontata nella vicenda di Gesù, il Dio che si fa ospite, il Dio che per primo è opsite perché accogliente, fonte del perdono nelle nostre esistenze.
Uno spunto da
Delitto e castigo è il titolo del romanzo scritto da Fëdor Mihajlovic Dostoevskij, pubblicato a puntate sulla rivisita mensile “Russkij vestnik” ("Il messaggero russo") nel 1866.
Protagonista del romanzo è Raskolnikov, un brillante studente che si reputa un novello Napoleone, intelligente e ricco d’energia, che fatica a pagarsi gli studi, impregnato di idee filosofiche umanistiche e socialiste. Pensa perciò di compiere un delitto per impadronirsi del denaro di una vecchia vedova dedita all’usura, da lui vista come parassita inutile della società. Il progetto del delitto si carica di motivazioni ideali che ai suoi occhi lo giustificano per poter utilizzare in modo migliore quel denaro per sé e a servizio dell’umanità, il tutto quindi per un ‘fine superiore’. Giunge così a compiere il delitto, ma il sopraggiungere di una inattesa testimone, la sorella dell’usuraia, mite e pia, Lisaveta, lo conduce ad uccidere anche lei.
Da quel momento Raskolnikov vive il rimorso e l’angustia per l’azione compiuta; la sua figura caratterizzata da superbia e spietatezza rivela i tratti della sua inconsistenza e del dramma del nonsenso che il suo gesto ha aperto nel suo cuore. Dopo aver commesso il delitto si spalancano per lui le porte della disperazione.
Eppure nel lento progredire del romanzo Raskolnikov si ostina a non riconoscere e confessare l’azione commessa. Accanto a lui scorrono altri personaggi, la figura del commissario, investigatore che nutre sospetti sulla sua responsabilità e riesce con saggezza a far emergere elementi di consapevolezza; l’amico Rasumichin che non riesce a capacitarsi del comportamento impaurito e delirante di Raskolnikov. Tuttavia l’ex studente mantiene nel segreto della sua coscienza il rimorso e la pena di quanto aveva compiuto. L’unica a cui confessa la sua colpa è Sonia Marmeladova, figura che rappresenta un cuore puro e trasparente di fede, la cui vita è segnata dalla tragedia del padre funzionario, ubriaco, morto schiacciato da una carrozza e dal dovere di sostenere la matrigna e i fartellini ancora piccoli: per questo si prostituisce per guadagnare denaro. Sarà lei ad accompagnare Raskolnikov fino alla confessione dei suoi delitti e ad accettare la condanna ai lavori forzati in Siberia. Ancora lei accompagnerà Raskolnikov trasferendosi in Siberia e rimanendogli vicina. Fino ad allora il suo atteggiamento era quello di chi non aveva potuto sopportare il suo fallimento, il suo fiasco e per questo di essersi costituito, ma non aveva provato pentimento:
Improvvisamente, in virtù della presenza di Sonia e del suo amore che gli trasmette il vangelo non con la dialettica ma con la vita, si apre alla fiducia nella vita stessa. Avviene in lui una trasformazione. La pagina finale del romanzo descrive così questo passaggio di scoperta e di novità:
"Di nuovo, era una giornata tiepida e serena. Di buon mattino, verso le sei, Raskòlnikov andò a lavorare sulla riva del fiume, dove era stata impiantata una baracca per triturare e cuocere l'alabastro. Vi andarono tre uomini in tutto. Uno dei detenuti, con la guardia di scorta, tornò in fortezza a prendere un utensile; l'altro cominciò a preparare la legna e a sistemarla nella fornace. Raskòlnikov uscì dalla baracca e raggiunse la riva del fiume, dove sedette sui tronchi accatastati accanto alla baracca e si mise a guardare la corrente, ampia e deserta. Dalla sponda, ch'era piuttosto alta, si vedeva un panorama molto vasto. Dalla lontana riva opposta giungeva, appena percettibile, una canzone. Laggiù nella steppa immensa, inondata dal sole, nereggiavano, puntini appena visibili, le tende dei nomadi. Laggiù c'era la libertà e vivevano altri uomini, completamente diversi da questi; laggiù era come se il tempo si fosse fermato, come se non fossero ancora passati i secoli di Abramo e delle sue greggi. Raskòlnikov, seduto, fissava quel panorama senza distoglierne lo sguardo; dai pensieri passava alle fantasticherie, alla pura contemplazione; non pensava a nulla, eppure una strana angoscia lo agitava tormentandolo. A un tratto, si trovò accanto Sònja. Si era avvicinata pian piano e gli si era seduta accanto. Era ancora molto presto, il freddo del mattino non s'era ancora attenuato. Lei indossava il suo povero vecchio mantello e quel tale scialletto verde. Il suo viso mostrava ancora i segni della malattia: era più magro, più pallido, più affilato. Gli sorrise dolcemente, piena di gioia, ma, come al solito, gli tese la mano quasi con timore. Gliela tendeva sempre così, con timidezza, e a volte non gliela tendeva affatto, come prevedendo che lui l'avrebbe respinta. Lui la prendeva, di solito, quasi con avversione; in genere la accoglieva con una specie di stizza, e spesso non apriva bocca durante tutta la visita. Allora, lei sentiva quasi paura di lui, e se ne andava profondamente addolorata Questa volta, invece, le loro mani non volevano sciogliersi; egli le lanciò una rapida occhiata, non disse niente e abbassò lo sguardo. Erano soli, nessuno li vedeva. La guardia di scorta, in quel momento, guardava da un'altra parte. Nemmeno lui, poi, avrebbe saputo dire com'era accaduto. A un tratto si sentì come afferrato e gettato ai piedi di lei. Piangeva, e le abbracciava le ginocchia. Dapprima Sònja si spaventò a morte, il viso le si fece d'un pallore mortale. Balzò in piedi e lo guardò tremando; ma subito, in quello stesso istante, capì tutto. Nei suoi occhi brillò una felicità infinita; capì, e per lei non ci fu più alcun dubbio: egli l'amava, l'amava immensamente: alla fine, quel momento tanto atteso era arrivato... Avrebbero voluto parlare, ma non potevano. Avevano le lacrime agli occhi. Tutti e due erano pallidi e magri, ma sui loro volti sbiancati dalla malattia splendeva già la luce di un futuro diverso, di una completa rinascita, di una vita nuova. Li aveva risuscitati l'amore: il cuore dell'uno, ormai, racchiudeva un'inesauribile sorgente di vita per il cuore dell'altro. Erano decisi ad attendere, a pazientare. Restavano loro ancora sette anni di quella vita; e prima d'allora, quanto intollerabile dolore e quanta felicità! Ma egli era rinato e lo sapeva, lo sentiva con certezza in tutto il suo essere rinnovato; e lei, lei non viveva che della vita di lui! La sera di quello stesso giorno, quando le baracche erano già state chiuse, Raskòlnikov, sdraiato sul tavolaccio, pensava a Sònja. Quel giorno, gli era sembrato perfino che gli altri forzati, prima suoi nemici, lo guardassero in un modo diverso. Era stato lui a rivolger loro per primo la parola, e loro gli avevano risposto affabilmente. Se ne rendeva conto solo adesso; ma non era giusto, del resto, che fosse così? Ogni cosa, ormai, non doveva forse mutare? Pensava a lei. Ricordò come l'aveva sempre tormentata, come aveva straziato il suo cuore; ricordò il suo visino pallido, smunto; ma quei ricordi non lo facevano più soffrire: sapeva con che amore infinito, ormai, avrebbe ripagato tutte le sue sofferenze. E poi, che importanza avevano, ora, tutte le pene passate? Ogni cosa, perfino il suo delitto, perfino la condanna e la deportazione, gli parvero allora, in quel primo impulso, come fatti esteriori, estranei, cose che non erano accadute a lui. Quella sera, tuttavia, non gli era possibile pensare a lungo ad una sola cosa, né concentrarsi in un solo pensiero; non riusciva a ragionare su nessun problema: poteva soltanto sentire... Alla dialettica era subentrata la vita, e nella sua coscienza si preparava ormai qualcosa di completamente, oscuramente diverso. Sotto il suo guanciale c'era il Vangelo. Lo prese macchinalmente. Quel libro apparteneva a lei, era lo stesso dal quale lei gli aveva letto i versetti sulla resurrezione di Lazzaro. Nei primi tempi della sua deportazione, egli pensava che Sònja lo avrebbe tormentato con la religione, che si sarebbe messa a parlargli del Vangelo e a imporgli di leggere dei libri. Invece, con sua grandissima sorpresa, lei non aveva affrontato nemmeno una volta quest'argomento, e nemmeno gli aveva mai offerto il Vangelo. Era stato lui a chiederglielo, poco prima della sua malattia, e lei gli aveva portato il libro senza una sola parola. Fino a quel momento, del resto, lui non l'aveva nemmeno aperto. Nemmeno adesso l'aprì; ma per la mente gli passò, rapido, questo pensiero: «Posso non avere le sue stesse convinzioni, ormai? O almeno, i suoi stessi sentimenti, le sue stesse aspirazioni?...» Anche lei fu molto agitata, tutto quel giorno, e di notte si sentì perfino male di nuovo. Ma era così felice da aver quasi paura della sua stessa felicità. Sette anni, soltanto sette anni! All'inizio della loro felicità, in quei primi momenti, tutt'e due erano pronti a considerare quei sette anni come sette giorni... Egli ignorava perfino che quella nuova vita non gli veniva data così, gratuitamente; che avrebbe dovuto pagarla, e a caro prezzo: pagarla compiendo qualcosa di grande negli anni a venire. Ma qui, ormai, comincia una nuova storia, la storia della rinascita di un uomo, della sua graduale trasformazione, del suo lento passaggio da un mondo a un altro mondo, del suo incontro con una realtà nuova e fino a quel momento completamente ignorata. Potrebbe essere l'argomento di un nuovo racconto; ma il nostro, intanto, è finito”.
Dalla Parola alla vita
Nella sensibilità comune, esito anche di una catechesi e di modelli presentati, la questione del peccato è avvertita quasi unicamente come questione della vita individuale, connessa per lo più ad alcuni ambiti limitati dei comportamenti della vita personale e di relazione, ma è inavvertita la questione del peccato nei suoi aspetti sociali e non si pensa alle domande che essa pone per una vita intesa come cammino di una umanità chiamata a non seguire logiche di guerra ma prospettive di relazioni con altri popoli e culture, di giustizia, di pace, di un rapporto che coinvolge anche la natura.
Con la sua penna agile e puntuale Massimo Gramellini nella concidenza del 2 giugno ha ricordato in questi giorni di crisi finanziaria le bugie del potere e la grande ipocrisia della situazione in cui stiamo vivendo. L’ha fatto con ironia e delicatezza, tali da generare ancor più tristezza e scoramento, accompagnati da indignazione per scelte politiche miopi e preoccupate degli strumenti di guerra che passano inosservate e non divulgate. Mentre si chiede con una legge finanziaria sacrifici e restrizioni nella vita delle famiglie, della scuola, dei servizi sociali, lo Stato italiano ha investito più dell’equivalente della manovra finanziaria per l’acquisto di uno stormo di cacciabombardieri ed elicotteri. (“Aerei blu”, La Stampa 2 giugno 2010).
“Nel giorno della parata militare lungo i Fori, oso sperare che nessuno sottovaluterà l'importanza dell'acquisto di centotrentuno cacciabombardieri F-35, centoventuno caccia Eurofighter e cento elicotteri NH90 da parte delle nostre Forze Armate. Con una certa malizia i Verdi fanno notare che lo scontrino complessivo di una spesa degna del set di "Apocalypse now" ammonta a 29 miliardi di euro, 5 in più della manovra (a proposito di apocalissi). Ma tutti sappiamo che, oggi come oggi, senza un cacciabombardiere non si va da nessuna parte, Quindi lungi da noi l'idea populista di rinunciare al rombo dei motori guerrieri per tutelare lo stipendio di un impiegato pubblico o la sopravvivenza di un ente culturale. Però, forse, almeno un accenno a questa eventualità poteva essere fatto da chi ci governa. Anche solo come gesto di trasparenza e di cortesia: cari italiani, vi chiediamo di stringere la cinghia, però sappiate che i vostri sacrifici non saranno vani, perché dei cacciabombardieri così belli non li ha nessuno. Per non parlare degli elicotteri. L'emozione sarebbe stata talmente forte che i dipendenti dello Stato avrebbero donato, se non l'oro (di cui al momento sono sprovvisti), i loro straordinari alla Patria, pur di consentirle di sfrecciare invitta e gloriosa nei cieli. E i poliziotti avrebbero sbandierato con orgoglio la mancanza di soldi per il carburante delle auto di servizio, con la tranquilla consapevolezza di chi sa che per combattere la mafia, stroncare la corruzione e proteggere i cittadini, nulla è più efficace di uno stormo di cacciabombardieri”.
Alessandro Cortesi op