25-4-10 - IV Domenica di Pasqua - Anno C
At 13,14.43-52; Ap 7,9.14b-17; Gv 10,27-30
“Allora Paolo e Barnaba con franchezza dichiararono: ‘Era necessario che fosse proclamata prima di tutto a voi la parola di Dio, ma poiché la respingete e non vi giudicate degni della vita eterna, ecco noi ci rivolgiamo ai pagani”
Omelia
Ad Antiochia di Pisidia si apre una stagione nuova. E’ un passaggio di apertura. E’ una prima volta: l’annuncio dei vangelo ai pagani. Si potrebbe dire che da lì ha inizio la chiesa dei gentili, la possibilità del sorgere di una comunità formata attorno al vangelo di Gesù Cristo senza essere obbligati a sottostare alle norme di una appartenenza religiosa, alle osservanze ebraiche della legge. E’ annuncio che la salvezza è dono non frutto di conquista umana, non questione di istituzioni religiose. Al centro sta un rapporto vivente e personale con Gesù generatore di comunione in Lui. La salvezza è questione di fede in lui, affidamento a colui che solo ci salva perché si è dato fino alla fine nella sua morte di croce, per giudei e pagani, senza fare preferenze di persona.
E’ questo ‘vangelo di Dio’ che sta al cuore dell’annuncio di Paolo, afferrato da Cristo risorto e chiamato nella sua vita ad essere ‘apostolo’ e servo, inviato a portare questo messaggio di libertà nel rapporto con Cristo.
Tuttavia lo stesso Paolo avvertirà nel profondo della sua persona una tensione irrisolta: afferrato da Cristo egli sente la sua appartenenza al popolo dell’alleanza e delle promesse. E le promesse di Dio sono irrevocabili. Il Dio di Gesù non è un altro, diverso rispetto al Dio di Abramo e dell’esodo.
Ad Antiochia di Pisidia quindi si attua un grande passaggio: porte che si aprono per lasciare che la parola di Dio faccia il suo corso, senza limiti e senza barriere. Tuttavia da quel momento una tensione nuova attraversa le diverse comunità che sorgono.
Storicamente tra I e II secolo si svilupparono comunità giudeo-cristiane che leggevano la tradizione ebraica in sintonia con l’adesione a Gesù e comunità di cristiani provenienti dal paganesimo che avevano accolto la fede in Cristo senza ulteriori condizioni. Nell’uno e nell’altro ambiente – come sempre - sorgevano estremismi di genere diverso. Da un lato chi intendeva il prevalere della legge svuotando così il vangelo di Gesù Cristo, dall’altra la predicazione di chi contrapponeva radicalmente il Dio di Gesù Cristo al Dio dell’Antico Testamento ed affermava la rottura radicale tra tradizione ebraica, biblica e mondo cristiano.
Ci può essere quindi un primo modo di interpretare questa tensione tra chiesa giudeo cristiana e chiesa dei gentili: è quello della contrapposizione di una chiesa della legge - da intendersi come istituzione statica, promotrice di norme e obblighi morali, con l’insistenza su di una salvezza derivante dalle opere - e di una chiesa fondata sulla fede, quella dei gentili. E’ la lettura che contrappone comunità dal basso rispetto all’istituzione, la libertà del vangelo contro la rigidezza e la chiusura di una fede identificata con una normativa di tipo etico. Per certi aspetti questo schema, nella sua semplificazione, può essere funzionale a compiere un superamento della identificazione della sequela di Cristo con una religione fondata su una legge, mantenendo il primato della fede, l’annuncio che la salvezza è gratuita e non proviene da opera umana. Tuttavia questa contrapposizione non dà ragione di diversi modi di poter vivere la medesima fede con accenti diversi provenienti da differenti tradizioni religiose e non dà ragione in particolare di un rapporto unico e particolare che la comunità dei cristiani deve mantenere nei confronti della tradizione ebraica. La chiesa rimane erede delle promesse di Dio a Israele. In che modo la novità della fede in Gesù Cristo può articolarsi con la fedeltà alla predicazione di Gesù, con il suo essere ebreo di Galilea, attento alle dimensioni più profonde della fede ebraica, egli stesso venuto a compiere non ad abolire la legge, non da intendersi come pretesa di autosalvezza mediante le proprie opere, ma come dono di vita e di alleanza?
Ci potrebbe essere allora un altro modo di leggere questa tensione: Paolo e Barnaba aprirono nuove frontiere al vangelo ma queste non sono esclusive. Ci possono essere diversi modi di incontrare Cristo. Dall’inizio, dall’esperienza di Pentecoste, momento sorgivo della chiesa, la ‘chiesa di Dio’ - chiamata a testimoniare il disegno di una salvezza presente sin da Abele, il vangelo di Dio - si connota come comunione di chiese, chiesa di chiese, ciascuna con connotati locali e particolari. Sarà compito mai concluso ogni volta e nelle situazioni diverse giudicare ciò che è bene e come mantenere l’essenziale del vangelo senza che esso venga diluito o tradito (si pensi alla polemica di Paolo nella lettera ai Galati e la sua riflessione più articolata e pacata nella lettera ai Romani).
La predicazione ai pagani può ricordarci la libertà che il vangelo offre liberando dalla pretesa di autogiustificazione fondata sulle opere della legge, rifuggendo l’identificazione del vangelo con una religione che si pone come istituzione che rinchiude gli spazi per l’agire dello Spirito. Nello stesso tempo la stessa vicenda di comunità che vivono accentuazioni differenti della medesima fede in Cristo, che elaborano teologie diverse legate al loro contesto e che coltivano diversità di sensibilità e di articolazione interna ci deve ricordare che ogni assolutizzazione e anche velato fondamentalismo, ogni pretesa di esaurire tutte le dimensioni della chiesa di Dio è posta in discussione dall’agire stesso dello Spirito che suscita credenti in diverse forme e anima la vita di diverse comunità che attuano la comunione.
Per lasciare veramente che sia la Parola di Dio a diffondersi.
Uno spunto da…
“Se in noi stessi, nella nostra dimora, spazio e spaziatura devono essere salvaguardati e coltivati, l’arrivo al bordo di noi, del nostro mondo, apre a nuovi spazi – ancora vergini o da dissodare. Possiamo avventurarcisi da soli e tentare di appropriarceli, renderceli propri. Ma se la soglia è stata costruita in vista dell’incontro con l’altro, è indubbio che, oltre la soglia,il suo appello verrà a raggiungere il nostro, tracciando nuovi cammini negli spazi aperti. Una volta allestita la soglia, se accettiamo di varcarla, abbiamo allora da scoprire il o i cammini che portano verso l’altro. Per questo compito, dobbiamo ascoltare l’attrazione che ci ha spinti a uscire dalla nostra dimora. Sussiste, una volta varcata, la soglia? Dove ci porta? Avvertiamo un appello dell’altro corrispondente a quello che abbiamo già percepito?
(…)
Il cammino che ci pporta verso l’altro non è per forza quello che ci conduce verso noi stessi. Certo, se abbiamo percepito l’appello, siamo stati chiamati laddove già eravamo. Ma ciò per cui siamo stati spinti a lasciare la nostra dimora abituale, ciò a cui siamo invitati a rispondere non corrisponde necessariamente all’appello percepito.” (Luce Irigaray, Condividere il mondo, tr.it. Torino, Bollati Boringhieri 2009)
Luce Irigaray è una pensatrice che ha elaborato i suoi studi nell’ambito della psicanalisi e della riflessione femminile: la sua proposta si situa nell’orizzonte di un pensiero della differenza che sappia mantenere attenzione sia alla singolarità di ciascun soggetto, sia al ‘noi’ che sempre si pone come relazione nella diversità. Ha elaborato un critica serrata ad una tradizione di pensiero che, dominata da una cultura maschile, è stata incapace di incontrare l’altro e si connota come una mancata esperienza dell’altro. Come donna suggerisce di individuare la trascendenza prima di tutto nella irriducibile alterità dell’altro differente, in particolare con l’altro irriducibile a sé nella differenza sessuale. “Aprire uno spazio all’altro, a un mondo differente dal nostro, è il primo, e il più difficile, gesto multiculturale. … Finché l’altro non sarà riconosciuto e rispettato come ponte fra natura e cultura, com’è, prima, il caso per l’altro genere, ogni tentativo di mondializzaziione democratica resterà un imperativo morale senza realizzazione cocnreta”.
La questione dell’altro è la questione che si pose a Paolo e Barnaba, è la questione che si pone oggi in modi nuovi e spinge ad inoltrarsi in quel cammino che è il varcare soglie per cui non è garantito il ritrono a casa propria. Piuttosto è movimento che fa lasciare la propria dimora abituale. In questa sfida centrale diviene il ruolo della parola:
“La parola può, in ciascuno e fra l’uno e l’altro, collegare terra e cielo, umano e divin, a condizione che non enunci una sola veritàe non designi il mondo e le cose a partire da un solo punto di vista. In questo nuovo approccio, non tentatno più di riunirsidue polarità di un mondo, artificialmente definite, ma si scambiano, in vista di un’alleanza, due modi di abitare il mondo e sé stessi. L’ascolto diviene determinante ma un solo ascolto non può mettere in cammino. Per l’approccio dell’unoe dell’altro un duplice ascolto si impone. E sarà l’incontro fra i due ascolti a consentire l’abbozzo di una dimora comune”.
Soglia, irriducibilità dell’altro, appello a un ‘aldilà’ del mondo proprio, cammino verso la prossimità, ascolto, condivisione, dimora comune… parole che sono tracce di percorsi davanti a noi e esigenze del nostro presente.
Dalla Parola alla vita
E’ notizia di questi giorni che dopo il caso di Montecchio Maggiore (Vi) dove alunni, figli di genitori che non pagavano la mensa, avevano ricevuto solo un panino e acqua alla refezione scolastica, anche ad Adro (Bs) ad alcuni bambini le cui famiglie non avevano pagato la mensa è stata sospesa la refezione scolastica e il sindaco ha deciso di impedire ai bambini di famiglie morose di accedere alla mensa. Una misura che ha toccato soprattutto bambini di famiglie straniere.
Dopo l’offerta di un imprenditore del medesimo paese che manifestando il suo ‘non ci sto’ ha inviato una ingente somma di denaro per pagare le rette insolute, giunge una lettera dall’Africa dal titolo ‘Anche io dico: Non ci sto’, da un missionario comboniano, padre Giovanni Piumatti che ha accompagnato l’invio di un’offerta di 700 euro con queste poche righe che più di tante altre parole fanno riflettere su cosa possa significare oggi vivere il rapporto con l’altro:
Caro "cittadino di Adro", abbiamo letto qua in Africa, la tua lettera "Io non ci sto" e anche noi ci uniamo al tuo messaggio e al tuo gesto. Inviamo un contributo per pagare la mensa per un anno a uno dei tuoi-nostri bimbi... A Muahnga e Bunyatenge, piccoli villaggi di foresta, ogni giorno diamo a tutti i ragazzi delle scuole (circa 900) una tazza di "masoso", pappetta fatta mais-sorgo-soja senza zucchero: è capitato qualche volta che la casseruola si vuotasse troppo in fretta; subito i bimbi che avevano già ricevuto si sono mossi e hanno condiviso la loro tazza con gli altri. Il contributo che mandiamo è null’altro che questo gesto, anche perché so che gli altri bimbi di Adro lo farebbero spontaneamente. Siamo sicuri che anche gli amici che ci hanno dato questi soldi come gesto di solidarietà e giustizia ne saranno fieri.
Alessandro Cortesi op