24-10-10 - XXX Domenica del tempo ordinario - Anno C
Sir 35,12-14; 2Tim 4,6-8.16-18; Lc 18,9-14
Omelia
“Il Signore è giudice e per lui non c’è preferenza di persone. Non è parziale a danno del povero e ascolta la preghiera dell’oppresso. Non trascura la preghiera dell’orfano né la vedova, quando si sfoga nel lamento”
Domenica scorsa abbiamo letto la pagina di Luca della parabola del giudice disonesto e della vedova ostinata nel chiedere giustizia. Oggi ascoltiamo questa pagina del Siracide in cui ancora compare la figura del giudice: questa volta è Dio descritto come giudice che ascolta, non è parziale, non privilegia i più forti e non trascura coloro che sono senza sostegni e senza raccomandazioni.
E’ una pagina che contrasta con l’esperienza quotidiana della difficoltà ad essere ascoltati e presi in considerazione da parte dei più svantaggiati e delle vie scandalosamente aperte e spianate per i potenti – e tra di essi anche coloro che si lamentano di essere perseguitati dai magistrati - che si vedono ampliare gli spazi di immunità e di impunità.
Anche il salmo di questa domenica fa eco a questa descrizione di un volto di Dio che tanto contrasta con un mondo in cui le voci dei più deboli rimangono inascoltate e fatte zittire mentre quelle dei privilegiati hanno accoglienza e trovano modo di farsi una giustizia a proprio uso e consumo: “Gridano e il Signore li ascolta, li libera da tutte le loro angosce. Il Signore è vicino a chi ha il cuore spezzato, egli salva gli spiriti affranti”.
Ancora una volta siamo di fronte alla presentazione del volto di un Dio che si fa vicino al povero. La caratteristica del Dio biblico è non tanto una grandezza da riconoscere attraverso una propiziazione attraverso sacrifici e offerte. E’ invece il volto di chi si fa solidale e scende a salvare con attenzione particolare e amorevolezza verso chi è senza sostegno e aiuto. Per questo Dio sta dalla parte del povero. Non è il Dio che ha bisogno dei sacrifici, ma il Dio che ascolta e si comunica. Per questo il libro del Siracide, risalente al II sec. a.C., dice non solo che egli “non trascura la preghiera dell’orfano né della vedova” ma anche che “chi la soccorre è accolto con benevolenza, la sua preghiera arriva sino alle nubi”. C’è un farsi vicino di Dio nei gesti di coloro che fanno proprio lo stile di Dio dell’accoglienza e dell’ascolto del povero. La preghiera di chi si china sul povero arriva sino alle nubi perché la sua vita è luogo di incontro con Dio. Potremmo cogliere come queste parole ci fanno intendere che proprio nel gesto del chinarsi si attua una manifestazione di Dio. Il suo comunicarsi all’umanità passa per le vie dell’incontro, è un Dio che ci raggiunge nel volto dell’altro, e dell’altro sofferente.
Secondo il messaggio biblico al primo posto non c’è il calcolo dell’efficienza delle persone o la preoccupazione per il profitto e nemmeno la preoccupazione per la sicurezza dovuta alla paura dell’altro, e neppure il calcolo per quanto l’utilizzo dell’altro può portare. Piuttosto il primato spetta alla domanda su come si può imitare Dio stesso nel suo agire, nel farsi solidale con gli oppressi. Questa testimonianza è quanto di più urgente oggi il mondo attende dai credenti di fedi diverse: proprio di ogni religione al suo fondo è questa attitudine di apertura ad un ‘oltre’, sia esso trascendente o meno – e per alcune tradizioni esso s’identifica con il volto di Dio personale - e l’apertura all’altro da riconoscere nella sua unicità e nel suo appello ad essere aiutato. Su questa via, che conduce a de-centrarsi, a perseguire sin d’ora quanto vi è di ‘autenticamente umano’ sta la sfida aperta alle coscienze credenti. Ben diversamente dal concepire la ‘religione’ come ripiegamento identitario che diviene identificazione culturale di un ‘noi’ contro ‘gli altri’, o affermazione di un apparato dottrinale o di una codificazione di norme che escludono ed emarginano.
“Il Signore non fa preferenza di persone…”: è la medesima scoperta di Pietro nella casa del pagano Cornelio (At cap. 10) – la bellissima conversione di Pietro - quando scopre che lo Spirito agisce e precede l’annuncio e la visita stessa dell’apostolo. Dio non fa preferenze di persone perché egli vede le aperture e ascolta il grido che sale dall’umanità sofferente indipendentemente da appartenenze di tipo culturale e sociale. Ai credenti oggi spetta la responsabilità di raccontare con la loro vita ed indicare con tutti i limiti dell’esperienza umana ma anche con tutta la forza che proviene dallo Spirito, come la storia di salvezza è una sola e in questa storia a Dio sta a cuore la vita e la storia di tutti, in primo luogo dei poveri e dimenticati.
“… Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri: due uomini salivano al tempio a pregare: uno era fariseo, l’altro pubblicano…”
L’inizio è la chiave di lettura dell’intera pagina e della parabola: è la critica a chi ritiene di essere giusto e disprezza gli altri. Segue la parabola del fariseo e del pubblicano, l’esattore delle tasse, presentati nel loro andare al medesimo luogo, il tempio ma con due atteggiamenti profondamente diversi.
La preghiera del fariseo è espressione di una tensione religiosa alta e profonda. I farisei costituivano una componente laicale assai forte nel panorama sociale d’Israele del I secolo: vivevano un’adesione convinta alla Torah, la legge, ed agli insegnamenti delle scuole rabbiniche che, nel moltiplicarsi della precettistica, tentavano di attualizzare gli insegnamenti della Torah in rapporto alle situazioni e ai problemi della vita: da qui la selva di prescrizione e norme di tipo cultuale e morale che rendessero possibile un’osservanza della Legge indispensabile per la salvezza. Diversi per questo ed in polemica con i sadducei, legati alla classe sacerdotale. I farisei, laici, ponevano attenzione ad un’osservanza scrupolosa nell’ambito della vita ordinaria. Così la preghiera del fariseo esprime la vita di quell’uomo religioso attento a compiere le pratiche rituali, scrupoloso nell’osservanza del digiuno due volte la settimana e puntuale nel pagare le tasse sulle cose comprate. La sua vita è condotta secondo prospettive di rettitudine e di correttezza davanti a Dio e davanti agli altri. La sua è una vita buona e impegnata. E questo non viene criticato. Potremmo cogliere a tal riguardo come oggi sia disprezzato in fondo e giudicato poco furbo, chi cerca di vivere in una linea di fedeltà e di legalità la sua esistenza. Il problema nella vita del fariseo emerge però ad un altro livello: la sua preghiera rivela un atteggiamento di fondo di pretesa, e di disprezza verso l’altro. Egli si trova a presentare a Dio i suoi buoni comportamenti avvertiti come possesso e come successo. A Dio non chiede nulla, presenta solo la sua giustizia. La sua preghiera rivela al cuore l’attitudine di un ricco che offre a Dio quanto è in suo possesso, ciò che ha accumulato per avere lui riconoscimento e ricompensa. E’ in fondo un tentativo di piegare Dio alla sua grandezza piuttosto che un chinarsi alla bontà di Dio stesso. La sua vita, pur così impegnata sul versante religioso, si nutre di un atteggiamento di disprezzo nei confronti degli altri: ‘ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri disonesti e adulteri…’.
L’autentica coerenza di vita del fariseo, la sua tensione morale, non sono criticate: ma tutto ciò viene come svuotato dalla freddezza nel suo cuore, dall’assenza di un’apertura a scoprire come al centro della sua vita sta un dono e la presenza di Dio che solo salva e libera dall’egoismo.
In contrapposizione è posta la figura dell’esattore delle tasse, il pubblicano, un uomo segnato dal peccato: esercitava un mestiere mal visto, a servizio della potenza occupante romana nella Palestina del tempo. Una persona da evitare nella società ebraica contemporanea. Non si trova a suo agio nel tempio, luogo di culto. La sua preghiera è una semplice invocazione: ‘Dio, abbi pietà di me peccatore’. Queste poche parole racchiudono però un atteggiamento di fondo che non è solo un momento di devozione ma rivela una attitudine di fondo della sua esistenza. Pone al centro Dio e a lui chiede di essere accolto e perdonato, non pone avanti la propria autosufficienza e la propria coerenza. E’ un uomo sincero che chiama per nome le situazioni e si pone senza difese davanti a Dio. E a lui si affida. Riceve il perdono di Dio perché è spossessato e non prigioniero, come il fariseo, di una sua giustizia che impedisce di guardare oltre.
La parabola allora non ha come messaggio centrale una parola sulla preghiera: piuttosto va più a fondo, fa cogliere come esista una questione che investe un atteggiamento globale dell’esistenza. In fondo fa cogliere come vi sia un legame profondo tra il modo di pregare e la vita. Ciò che va cambiato non sono le formule o il metodo del pregare ma l’impostazione di fondo dell’esistenza. La parabola di Gesù invita a porsi una domanda di fondo a ritornare al ‘cuore’, a chiedersi come si impostano le scelte e gli orientamenti della vita. Ci dice anche che l’incontro con Dio sta o cade in rapporto al modo in cui ci rapportiamo agli altri. E’ il nostro un atteggiamento di superiorità di disprezzo, di distanza e durezza? Oppure è un atteggiamento di apertura di accoglienza di benevolenza? Il Dio che si china sul povero è il Dio che si fa incontro nel volto dell’altro.
L’agire di Dio è dono di cambiamento e di nuova vita, è possibilità di un nuovo rapporto con Lui e con gli altri. “Io vi dico: questi tornò a casa sua giustificato”. In questo senso la preghiera è esperienza di gratuità e di salvezza.
“Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede. ora mi resta soltanto la corona di giustizia che il Signore, il giudice giusto, mi consegnerà in quel giorno; non solo a me ma anche a tutti coloro che hanno atteso con amore la sua manifestazione”
In questa lettera della tradizione paolina troviamo due elementi centrali nella predicazione di Paolo: innanzitutto la questione della fede. L'uomo trova la salvezza non come frutto delle proprie opere e - nel caso di persone religiose come gli ebrei - dell'osservanza della Legge, ma la accoglie come dono gratuito, da Dio che gratuitamente dona la sua grazia. In secondo luogo l'immagine della 'corona di giustizia' quale dono del Signore. Si potrebbe cogliere un rinvio all'analoga espressione della lettera ai Filippesi (3,14): "dimentico del passato e proteso verso il futuro corro verso la meta per arrivare al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù in Cristo Gesù". La presenza di Cristo Gesù, il Signore risorto e l'incontro con Lui è il centro del vangelo di Paolo.
Nella sua vita, a partire dall'esperienza di Damasco, Paolo ha percepito al cuore della sua esistenza la novità e la luce proveniente da Cristo Gesù, dalla parola della croce. Ha scoperto cosa significa affidarsi nella fede al dono di una grazia accolta quale irrompere del Signore Gesù che si fa incontrare e rende possibile un rapporto nuovo con lui e con gli altri. Paolo, il credente, zelante fariseo, rilegge la vicenda dell'incapacità umana a salvarsi, anche da parte di chi vive una tradizione religiosa. Presenta questo messaggio in forma polemica nella lettera ai Galati e in forma più articolata nella lettera ai Romani: nella luce del dono di grazia che ha raggiunto i credenti in Cristo Gesù nessun vanto più è possibile davanti a Dio, l'unico vanto sarà solo 'nel Signore' (1Cor 1,29-31; Rom 3,27; 5,2).
E’ bello cogliere come il pensiero si apra ad alcune dimensioni fondamentali dell’esistenza cristiana: l’idea della vita come lotta, come tempo della prova in cui vivere una battaglia che è soprattutto battaglia contro tutto ciò che si oppone ad accogliere l’incontro con Cristo come dono, e la sua grazia. E’ una lotta interiore contro un modo di intendere la vita secondo ‘la logica della carne’, cioè dell’egoismo che rinchiude le persone e le rende impaurite ed incapaci ad aprirsi.
C’è anche una seconda dimensione: quella dell’attesa e della tensione al compimento dell’esistenza. E’ la dimensione escatologica: non è solamente la questione della fine della vita, ma più profondamente si delinea uno sguardo al fine per cui si vive sin dal presente, è la questione del senso che si dà alla propria esistenza al suo fine. La luce di fondo della vita cristiana sta nell’incontro con il Risorto. Tale attesa connota l’esistenza credente, genera responsabilità, passione ed immersione nelle cose della vita di ed è un’attesa da mantenere con amore. Ancora torna l’immagine del giudice: questa volta è indicato il Signore come giusto giudice. La vita lungi dall’essere uno spazio in cui tutto si equivale è luogo di scelte, è momento in cui prendere parte e vivere una responsabilità. Il Cristo è visto come giudice nel senso che confermerà l’orientamento dell’esistenza che ciascuno nella sua libertà è chiamato a prendere, e lo farà in sintonia con la fedeltà allo sguardo misericordioso di Dio. ‘Giusto giudice’ non è espressione che deve suscitare paura del giudizio: significa piuttosto che la vita con i suoi momenti è cosa preziosa, ha un peso ed è importante agli occhi di Dio. Nell’incontro con il Signore, che già si sperimenta nel quotidiano della fede troviamo e incroceremo uno sguardo di amore che valorizzerà soprattutto la fede. In questo testo poi il pensiero non si rinchiude in una considerazione individualistica. E’ bella l’apertura di questa pagina che invita a oltrepassare confini e a vedere tutti coloro che hanno atteso con amore la manifestazione del Signore. Potremmo anche aggiungere: ‘consapevolmente o inconsapevolmente’, perché c’è una attesa diffusa del Signore nei vari percorsi delle coscienze e delle tradizioni religiose in cui è all’opera lo Spirito santo che soffia dove vuole.
Una parola di speranza e di invito e continuare a rimanere saldi anche quando si vive la fatica: l’incontro con il Signore e la gioia che da esso è il miracolo nascosto e sta già in questa fatica e in questa attesa vissuta con amorevolezza.
Dalla Parola alla preghiera
Signore donaci esser capaci di fedeltà nelle piccole cose con un cuore che non disprezzi gi altri e sappia coltivare il senso del dono ricevuto da Te nella nostra esistenza…
Aiutaci Padre a vivere nell’ascolto di chi non ha voce, di chi è lasciato ai margini, di chi è impoverito…
Cambia il nostro cuore, Signore, rendici capaci di vedere i segni della tua presenza nel nostro quotidiano e di essere capaci di attesa fedele e libera…
Donaci una mente aperta a vivere apertura e dialogo con persone e gruppi di altre lingue culture, religioni. Donaci di essere uomini e donne di dialogo…
Facci passare Signore dall’essere credenti all’essere cercatori, disponibili ad imparare dall’altro…
Uno spunto da…
Esce in questi giorni nelle sale un film dal titolo Des hommes e de Dieu.
Un film che ripercorre la vicenda dei monaci trappisti, di Notre-Dame de l’Atlas, che conducevano la loro vita di lavoro e preghiera nel mezzo del deserto dell’Atlas e furono uccisi in circostanze ancora non chiarite nel quadro dello scontro che in Algeria si stava svolgendo negli anni ’90 tra le forze governative e i gruppi fondamentalisti del Fronte Islamico di Salvezza (FIS). Ufficialmente per mano di ribelli fondamentalisti che li avrebbero sequestrati e poi uccisi, o forse, secondo un’inquietante ipotesi non senza elementi di sostegno, per mano delle stesse forze governative che li avevano scambiati per ribelli e poi avevano montato la messinscena dell’attacco dei fondamentalisti per incolpare gli islamisti.
Il Fronte Islamico di Salvezza (FIS) aveva vinto le elezioni municipali e il primo turno delle elezioni legislative nel 1991 e si prospettava vicina una presa di potere da parte degli islamisti. A quel punto il potere algerino, largamente sostenuto dalle forze democratiche del paese, decise di interrompere il processo elettorale. Questa decisione portò ad una radicalizzazione dei movimenti islamisti, che si orientarono sulla via della violenza. Dapprima gli attentati e le uccisioni furono tra poliziotti, giudici, militari poi gli obiettivi divennero gli intellettuali, i giornalisti, i responsabili dei movimenti delle donne, tutto ciò che rappresentava un’Algeria plurale. In questo contesto, non in un processo specificamente anti-cristiano, religiosi e religiose a loro volta sono stati vittime di questa violenza, che produrrà circa 150000 morti in dieci anni. Le due prime vittime della Chiesa di Algeria furono un fratello marista e una religiosa che svolgevano il loro lavoro nascosto in una biblioteca per i giovani in un quartiere popolare di Algeri. I monaci trappisti conducevano una vita di preghiera e lavoro, su di una montagna isolata. Il solo che è stato probabilmente assassinato a causa delle sue posizioni pubbliche contro la violenza e l’intolleranza è Pierre Claverie, vescovo di Orano dal 1981. Nel 1993 aveva lanciato un pubblico appello perché si fermasse la violenza e aveva perché si fermasse la violenza e aveva preso chiaramente posizione a fianco delle correnti democratiche.[1] La sua denuncia delle correnti fondamentaliste si è fatta ancora più pressante quando religiosi e religiose sono stati assassinati:
“Quale abominevole vigliaccheria di questi omicidi nell’ombra! Se mi prendessero come bersaglio, lo comprenderei: come vescovo, io rappresento forse agli occhi di alcuni un’istituzione vilipesa o pericolosa. Sono un responsabile e ho sempre difeso pubblicamente ciò che mi pareva giusto, vero, ciò che favoriva la libertà, il rispetto delle persone, specialmente i piccoli e gli svantaggiati. Ho lottato per il dialogo e l’amicizia tra i popoli, le culture, le religioni. Tutto questo merita probabilmente la morte e sono pronto ad assumerne il rischio. Sarebbe un omaggio che renderei a Dio, in cui credo. Ma prendersela con fratel Henri e con suor Paul-Héléne, non lo comprendo.”[2]
Il film sui monaci trappisti ha suscitato una attenzione inattesa e in Francia in poche settimane dalla sua uscita ha avuto un sorprendente successo di pubblico. Non è un film che indugia sui responsabili della uccisione, né presenta un quadro oleografico della vita della piccola comunità. E’ un film girato da un regista non credente che peraltro con pochi mezzi utilizzando attori non annoverabili tra le star, ha saputo offrire un’opera che fa pensare. E’ un film che apre a riscoprire motivi che tengono insieme credenti e non credenti. I primi scorgono in questa vicenda la parola altra del cristianesimo, la testimonianza del martirio, la forza della debolezza estrema, il mistero della croce. Ma tutti coloro che sono sensibili e cercano le profondità dell’umano e recano nel cuore un profondo desiderio di Dio avvertono la provocazione che ancora proiviene da quelle vite spese e di cui il film sa tracciare con discrezione un racconto. Enzo Bianchi in un breve articolo dal titolo ricco di evocazioni ‘Appartenevano a un Altro. E parlano a tutti’ (“Avvenire” 20 ottobre 2010) ha scritto: “il regista… ha saputo sapientemente restituire la dimensione umana di quella comunità monastica, centrata sull’essenziale della preghiera comune dei salmi, sul lavoro quotidiano, sui rapporti fraterni in comunità e con i vicini musulmani. È una vicenda che parla di vita e non di morte, di pienezza di vissuto proprio nell’assunzione dell’eventualità di una morte violenta”.
Dovremmo saper riportare questa testimonianza dei sette monaci di Tibhirine, al titolo originale del film: Des hommes et de Dieu, per scoprire che nella storia degli uomini si può rintracciare e qualcuno se ne fa testimone e indicatore, una storia di presenza di Dio. E così anche forse accogliere quela testimonianza che proviene dalla chiesa d’Algeria nel suo complesso che ha vissuto il tempo della prova e del martirio come tempo di grazia per aprirsi a dimensioni profonde del vangelo, nella scelta della povertà e del dialogo sapendo rimanere al fianco del fratello che soffre. Come ha avuto modo di testimoniare mons. Teissier:
“Diveniamo meno preoccupati di ciò che dobbiamo trasmettere piuttosto che di ciò che di noi dobbiamo scoprire … La Chiesa non ha come missione far entrare il mondo intero nelle sue mura, bensì manifestare Gesù Cristo nella diversità dei tempi e dei luoghi perché l’uomo si converta alla sua vera vocazione. Per gli uni questa conversione passa attraverso il battesimo, per altri si attua nella loro religione propria”. E a questo proposito, riferendosi alla vicenda dell’incontro nel nostro mondo tra religioni diverse parla di “conversione reciproca” da attuare.[3]
Dalla Parola alla vita
Vorrei cogliere alcuni spunti della settimana sociale dei cattolici italiani tenutasi a Reggio Calabria dal 14 al 17 ottobre 2010, a partire da alcune sottolineature di un articolo di Piero Castagnetti in “Europa” del 21 ottobre u.s. dal titolo ‘La lezione che viene da Reggio’.
Lamentandosi del silenzio del mondo dell’informazione su questo evento esprime la sua impressione di una esperienza fortemente positiva: “Dopo il convegno di Reggio Calabria credo si possa aggiungere che nella periferia della chiesa italiana si stanno coltivando oggi talenti personali preziosi che rappresentano una speranza concreta per il futuro.” Mi sembra importante questo riferimento alla periferia, perché se è vero che questo elemento è emerso in una convocazione ufficiale dei cattolici ho l’impressione che sia da cercare tante altre periferie in cui matura un senso di responsabilità e vi sono germi di speranza anche laddove non vi è riconoscimento ufficiale.
Castagnetti poi osserva come vi sia stato un salto di qualità nel passaggio dalle relazioni ai gruppi di studio che hanno affrontato diversi ambiti messi a tema e annota: “Non si cerchino nei documenti finali soluzioni strabilianti, perché si troveranno solo indicazioni di buon senso, talmente di buon senso da sembrare talora rivoluzionarie. Ma ciò che colpiva era la partecipazione corale di un popolo, per molti aspetti sconosciuto, che sembrava essersi preparato – senza volersi spingere a paragoni storici arditi – nella stagione della decadenza del paese, al riparo dalla decadenza medesima”.
E rilava la presenza di persone animate non tanto da pessimismo, ma da fiducia nelle proprie idee e da volontà di cambiare. “Di fronte a tale spettacolo non si poteva che dedurre che, anche negli anni in cui la gerarchia non ha mostrato grande fiducia nei suoi laici, “il Vangelo ha lavorato”. C’è da augurarsi che tale potenzialità ora non venga arginata e contenuta, perché, dopotutto, è una risorsa di cui il paese sente veramente il bisogno”. Questa osservazione meriterebbe una attenta analisi per chiedersi in che misura le cose dovrebbero cambiare anche all’interno della chiesa, con quali responsabilità, e come lasciar spazio al vangelo che lavora nelle coscienze e nei percorsi umani perchè ogni contributo anche critico possa essere accolto e valorizzato e si possa instaurare nella chiesa un rapporto di effettiva collaborazione e di effettivo confronto sulle tematiche politiche e sociali.
Castagnetti rileva anche alcuni contenuti emersi: “Partendo dalla constatazione delle cause di sofferenza della nostra democrazia ‘senza qualità’, svuotata e inquinata da talune oligarchie prive di senso dello Stato e del bene comune, riassumibili nella disinvoltura con cui si cambia oggi il senso e il valore della Carta costituzionale e, in particolare, si fanno riforme costituzionali non più per perseguire efficacemente obiettivi di bene comune, ma per cambiare equilibri e convenienze politiche, è stata indicata con chiarezza come prima esigenza quella di educare, e ri-educare, giovani e adulti al valore della legalità. Perché la legalità sia piena non basta infatti evocare il rispetto delle leggi – è stato detto – ma occorre che la legge sia veramente finalizzata al bene comune, non foss’altro perché spesso accade che chi vanta il presunto rispetto della legge è lo stesso che prima fa le leggi a proprio uso”.
Il suo giudizio dell’evento risulta positivo: un’esperienza che è stata come una palestra in cui guardare le cose ultime ma con l’impegno e l’attenzione rivolta alle cose penultime, in cui egli ha rilevato la consonanza sull’impostazione del recente documento della CEI sul mezzogiorno.
“Il tutto è stato detto con chiarezza di pensiero, sobrietà e precisioni di linguaggio, senza livore o pregiudizio politico. In questo senso è stata una esperienza singolarmente interessante per i non molti parlamentari presenti (mancavano incomprensibilmente quelli di Pdl e Lega) che hanno vissuto la possibilità di discutere problemi complessi in uno spirito di sincerità e serenità non consueto nelle sedi politiche. Insomma è stato un esercizio importante per tutti per capire che è possibile vivere ‘le cose ultime’ in modo adeguato soprattutto quando si impara a vivere responsabilmente ‘le cose penultime’.”
L’importante è che questo esercizio possa divenire prassi vissuta nelle realtà locali e apra un dibattito in cui sulle cose penultime ci sia spazio per l’autonomia di pensiero e di scelte proprie di chi ne ha competenza ed è consapevole della problematicità del reale. La ricerca del bene comune non può ridursi ad una enunciazione di principio ma è faticosa ricerca di scelte concrete e possibili che talvolta sono destinate a limitare il male pur presente, altre volte ad offrire soluzioni pur sempre parziali e perfettibili che mai possono avere la pretesa della traduzione immediata di principi e nemmeno di essere la realizzazione del regno di Dio qui sulla terra. E’ questo il campo proprio della politica.
Alessandro Cortesi op
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[1] “Con i cattolici della mia diocesi vorrei dire la costernazione e l’orrore che ci prendono di fronte alla crescita della violenza in questo paese che noi amiamo e al quale siamo legati per la nascita, il matrimonio, l’amicizia, il lavoro, la condivisione delle difficoltà e delle speranze da lunghi anni. Noi non siamo molto numerosi e non pesiamo affatto nella crisi che attraversa l’Algeria ormai da cinque anni. Ci sforziamo con la preghiera e la solidarietà attiva di mantenere un clima di dialogo e di fraternità con numerosi amici musulmani di ogni orizzonte e di ogni tendenza. Ci facciamo anche difensori della verità quando l’informazione sfigura la nostra comune realtà. Ma non possiamo tacere la nostra inquietudine e il nostro rammarico di veder degenerare un conflitto politico in una guerra civile da cui nessuno uscirebbe vincitore perché ognuno avrebbe le mani sporche del sangue dei suoi fratelli”, Le Lien 215, agosto-settembre 1993, ripreso in Lettres et messages d’Algérie, Paris, Karthala, 1996, 125-126 (tr. it. P. Claverie, Lettere dall’Algeria, Milano, Ed. Paoline 1998, 137).
[2] “Porquoi?”, “Le Lien” 222, maggio 1994 (tr. it. P. Claverie, Lettere dall’Algeria, Milano, Ed. Paoline 1998, p. 164).
[3] H. Teissier, Chrétiens et non-chrétiens, accueillir ensemble le Règne de Dieu, “Spiritus”, n. 75, maggio 1979, 176. Dello stesso autore, Eglise en islam: méditation sur l’existence chrétienne en Algérie, Paris, Bayard/Centurion, 1984.