XXIX Domenica del tempo ordinario - Anno C
Es 17,8-13; 2Tim 3,14-4,2; Lc 18,1-8
Omelia
“Quando Mosè alzava le mani, Israele prevaleva; ma quando le lasciava, prevaleva Amalek. Poiché Mosè sentiva pesare le mani, presero una pietra, la collocarono sotto di lui ed egli vi si sedette, mentre Aronne e Cur, uno da un parte e l’altro dall’altra, sostenevano le sue mani.”
Le mani alzate di Mosè. Immagine della preghiera e della fede stessa che si nutre di silenzio, di attesa, di apertura ad una relazione. La sorte del popolo dipende dalle mani alzate di Mosè. Sono mani che indicano il nucleo profondo della preghiera: non è essa opera dell'uomo, è piuttosto l'accoglienza di un dono, di una presenza che coinvolge la vita. Pregare è rimanere aperti a ricevere. Mosè con le mani alzate si rivolge al cielo, il luogo di Dio e riconosce che dall'alto viene l'aiuto; da altrove, non dalla terra, ma dal luogo di Dio, il cielo. "Alzo gli occhi verso i monti: da dove mi verrà l'aiuto. Il mio aiuto viene dal Signore egli ha fatto cielo e terra. Non lascerà vacillare il tuo piede, non si addormenterà il tuo custode. Non si addormenterà, non prenderà sonno il custode di Israele" (Sal 121,1-4).
Le mani di Mosè sono apertura della terra al cielo, ma sono mani che avvertono il peso e la stanchezza. Egli non riesce a mantenerle. C’è la stanchezza di Mosè e c’è la stanchezza di chi continua ad invocare giustizia e si trova di fronte al silenzio degli uomini e di Dio. E’ la stanchezza la grande sfida. Solo il sostegno di altri, solo il sedere sulla pietra fa sì che le mani di Mosè vincano la debolezza. E così fino al tramonto Mosè, Aronne e Cur stanno in atteggiamento di attesa, di accoglienza. Sono il segno di una esistenza sospesa alla chiamata e all'invio da parte di Dio ad essere guida nel cammino di liberazione del popolo d'Israele. Sono mani aperte e silenziose, quelle di Mosè, tenute aperte per la vita del suo popolo. Sono quasi il simbolo dell’accoglienza e della risposta alle mani di Dio: nel passaggio del Mar Rosso era stato la ‘mano alzata’ di Dio a permettere che gli israeliti passassero all'asciutto e i carri del faraone fossero travolti dalle acque del mare.
Nel deserto a Refidim Israele viene affrontato in battaglia: in questo scontro si affrontano la debolezza di Israele come popolo uscito dalla schiavitù e in cammino e la forza di un esercito. Il deserto è ancora una volta il luogo simbolo: lì, nel deserto, si attua l'alternativa che accompagna sempre questo lungo cammino, la possibilità di scegliere la presenza di Dio come roccia su cui poggiare i passi della propria esistenza o la scelta di altri fondamenti per la propria vita. Nel cammino Israele è sfidato a scegliere e lì scopre la meravigliosa vicinanza di un Dio che non lo abbandona. “Non si addormenterà, non prenderà sonno il custode d'Israele". 'Custodire' è l’indicazione dell’agire di Dio.
Le mani aperte di Mosè procurano la vittoria in una battaglia, ma il Dio che custodisce non è Dio della violenza e dell'eliminazione dei nemici, è il Dio dell’esodo, colui che custodisce e dona un cuore nuovo, che guida Israele salvandolo dalla violenza per renderlo capace di relazioni nuove.
“Tu però rimani saldo in quello che hai imparato e che credi fermamente. Conosci coloro da cui lo hai appreso e conosci le sacre Scritture fin dall’infanzia”
Timoteo è invitato a rimanere saldo, a resistere senza stancarsi. E’ ancora la stanchezza il rischio che continuamente mette alla prova il cammino della fede. E’ la stanchezza del non vedere un esito al proprio impegno; è la stanchezza che deriva dal non avvertire una risposta di Dio. E’la medesima stanchezza del salmista nella prova: “Fino a quando Signore?...”. Si tratta di rimanere saldo nella lettura e ascolto delle sacre Scritture. Si rinvia alle Scritture consociate sin dall’infanzia: si tratta delle Scritture ebraiche, del Primo Testamento. Ripercorrendo la storia di fedeltà di Jahwè nell’alleanza con il suo popolo si ritrova la chiave per aprirsi alla fede in Cristo Gesù. Gesù stesso è presentato nel vangelo di Luca nell’atto di rinviare i suoi discepoli stanchi e delusi a ripercorrere l’ascolto di Mosè e dei profeti (Lc 24,). La preghiera si connota così come ascolto della Scrittura, e conoscenza di coloro che hanno trasmesso questa storia di vita. Nell’ascolto della Scrittura si matura quella preparazione per ogni opera buona, per insegnare, convincere, correggere educare. Dall’ascolto sgorga una corrente di rapporto con altri.
“Diceva loro una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai: In una città viveva un giudice… c’era anche una vedova…”
La parabola del giudice e della vedova, propria del vangelo di Luca, presenta un episodio di ingiustizia continuata: un giudice senza rispetto per le persone, trascura di prendere in considerazione la causa di una vedova. E’ un comportamento iniquo, e la vedova è paradigma di chi non ha appoggi e sostegni: non ha qualcuno a cui appoggiarsi, è sola e povera. La sua insistenza e la sua invocazione ‘Fammi giustizia…’, appaiono eco di tante richieste e attese che sgorgano dai mondi della disperazione e dell’abbandono. La vedova non si stanca anche se provata dallo scontrarsi con un muro di silenzio e di noncuranza. Un episodio che rinvia a situazioni quotidiane e che certamente tocca la vita di chi ascolta. Ad un certo punto però il giudice cede alle insistenze: “le renderò giustizia, perché non venga continuamente a importunarmi”. E’ espressione che si potrebbe anche leggere così: ‘le farò giustizia perché alla fine non mi colpisca in faccia’ – un veloce tratto di Luca che accenna alla giusta rabbia degli oppressi di fronte alla prepotenza dei potenti -. E alla fine c’è ascolto da parte di un giudice iniquo. Il centro della parabola ancora una volta è narrazione dei tratti del regno di Dio: se quell’uomo ingiusto e senza rispetto per gli altri si è comportato così, giungendo a dare ascolto, Dio, che è fedele, molto più ascolta e si china sui poveri che gridano a lui.
Altrove Luca aveva presentato l’insegnamento di Gesù: “Se voi che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre celeste darà lo Spirito santo a chi glielo domanda” (Lc 11,13).
L’accento sta sulla differenza di Dio rispetto ai nostri comportamenti cattivi e ingiusti: è invito a non pensare Dio a misura del nostro agire, racchiuso nei nostri miseri schemi. A questo deve condurre la preghiera: aprirsi all’alterità di Dio, entrare nell’incontro con Lui in quell’attesa che disarma le nostre aspettative e proiezioni: è sempre più grande dei nostri pensieri e del nostro cuore. Ecco perché la preghiera non è questione di metodi o di pratiche magiche ma un’esperienza di relazione che investe la vita e la pone in una nuova luce.
Il primo grande messaggio della parabola è sul volto di Dio: Dio rimane fedele, anche se l’attesa è faticosa, anche se sembra che la preghiera non trovi ascolto, anche se la domanda che attraversa i cuori dei giusti oppressi è ‘fino a quando Signore?’: “Per te ogni giorno siamo messi a morte, stimati come pecore da macello. Svegliati perché dormi Signore? Destati non ci respingere per sempre. Perché nascondi il tuo volto, dimentichi la nostra miseria e oppressione?” (Sal 44,23-25). La preghiera è talvolta questa lotta, non tanto una battaglia come per Israele contro Amalek, ma una lotta interiore. Paolo al termine della lettera ai Romani chiede: ’vi esorto fratelli a combattere con me nella preghiera’ (Rom 15,30). E’ questo l’unico genere di combattimento che i cristiani sono chiamati a compiere: lo stare davanti a Dio nella fiducia e nell’insistenza a portare la voce delle vittime di questa storia e vivere, come preghiera davanti a Lui e per il mondo, la responsabilità di mettere le proprie forze a servizio degli altri.
Si può cogliere un secondo messaggio della parabola riguardo al volto del discepolo: chi crede è colui che non viene meno alla fede, non smette di invocare, di sperare. Non cede alla stanchezza, ma resiste in una prova che ha un termine. La vedova è esempio del credente senza altri sostegni. Ma la domanda è proprio sulla fede, su questa fede che non si stanca e si mantiene nell’invocazione: "Ma il Figlio dell'uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?".
La preghiera è questo ponte gettato, queste mani alzate, non capacità di uno solo ma sostegno di più, perché rimanga la fede, perché la fede possa attraversare il silenzio e la prova e stia in attesa.
Dalla Parola alla preghiera
Aiutaci Signore a dare spazio nelle nostre giornate non tanto alle preghiere, ma ad una attitudine del cuore che sia preghiera in ogni momento
Donaci di resistere di non stancarci nell’alzare le mani e nell’invocare il tuo venire Signore
Aiutaci a conoscere le Scritture e a guardare alla testimonianza di chi ce le ha trasmesse. donaci di fare della Scrittura la bussola della nostra vita, il criterio delle nostre scelte
Uno spunto da…
“Se sei un amico ti stringo la mano / se chiedi un aiuto ti tengo la mano / E prendi la mano e dammi la mano / E prendi la mano e dammi la mano / Il padre il bambino / lo tiene per mano / c’è tutto il destino in un palmo di mano / le mani le mani / che sanno parlare / che sanno guarire e che sanno pregare / Le mani legate le mani ferite / le mani pulite / Saluti ruffiani / baciamo le mani / caliamo i calzoni e in alto le mani / chi prende il potere allunga le mani / chi sfugge al dovere se ne lava le mani / Le mani le mani / che sanno tradire / che sanno colpire e che sanno sbranare / le mani spietate che danno la fine / le mani, le mani / le mani assassine / apriamo le mani / le mani più avare / che stringono ancora / quei trenta denari / mettiamo le mani / le mani sul cuore / più sono sincere e più danno calore / le mani, le mani / che sanno di mare / che sanno di terra e che sanno di pane / battiamo le mani per farci sentire / più forte”
La canzone ‘Mani’ (http://www.youtube.com/watch?v=l5JOiREB7Rg) di Eduardo De Crescenzo, è evocazione dei tanti usi possibili delle mani, della potenzialità di comunicazione, di vita, ma anche di morte che le mani recano con sé. Mani che sanno sbranare ma anche mani che possono essere tese a salvare. Mani aperte per porgere un aiuto o mani chiuse a trattenere. Mani curate e pulite o mani sporche per il lavoro. Le nostre mani nella loro dualità, uguali da un lato e irriducibilmente diverse in quanto speculari e uniche, sono simbolo della nostra apertura all’altro, la cui mano è il primo gesto di accoglienza nel prendere in braccio un neonato e l’ultimo appiglio, nel gesto di tenere la mano a chi sta per morire. Simbolo del nostro essere sempre in relazione con il cosmo di cui siamo parte, con le cose, con l’acqua, la terra, con il cibo preparato dalle mani. Ma anche strumento per impossessarsi e non far buon uso delle cose quando si mettono le mani sopra nell’ottica del potere. Mani che parlano perché comunicano all’altro e divengono il luogo in cui passano scelte di egoismo, di disinteresse (le mani in tasca), o di coinvolgimento e di servizio.
Le mani alzate di Mosè e le nostre mani…
Dalla Parola alla vita
Uno dei trentatre minatori salvati in questi giorni dalla miniera di san Josè in Cile dove erano rimasti bloccati dall’inizio di agosto, Mario Sepulveda, dopo essere uscito alla luce, ha detto: “Non trattatemi come se fossi un artista, un animatore”; ha detto di voler continuare ‘‘a essere trattato come un lavoratore, come un minatore”. Oltre a ringraziare Dio e i soccorritori, ha parlato della necessità di cambiamenti nel mondo del lavoro. “Ho sempre avuto fede nei professionisti cileni e nel Creatore”. “Penso che questo Paese – ha poi aggiunto – debba comprendere una volta per tutte che si possono fare dei cambiamenti nel mondo del lavoro: ne devono essere fatti molti. Noi, minatori, non ci fermeremo qui”. Nei giorni in cui abbiamo assistito ad una opera di salvataggio che da un lato ha presentato aspetti di solidarietà e di vicinanza meravigliosi e dall’altro ha rivelato anche motivi di strumentalizzazione dovuta all’utilizzo della vicenda per farne una sorta di show mediatico e di propaganda a scopi politici, può essere opportuno sostare e riflettere. Riflettere sull’importanza della collaborazione di competenze diverse, della tecnica a servizio della vita; riflettere sul valore dell’esistenza di ognuno dei nostri simili quando vive nel bisogno e nella sofferenza. Può essere importante ricordare come la grande sfida della vita sia quella di resistere come hanno fatti i trentatre anche nei giorni più bui del loro isolamento. E’ bene ricordare che altre vicende analoghe, vicine nel tempo, si sono concluse in modo diverso anche in conseguenza di scelte politiche come ha ricordato mons. Vera vescovo della città messicana di Saltillo, nella regione mineraria di Cohauila, dove il 20 febbraio 2006 un'esplosione nella miniera Pasta de Conchos, a Nueva Rosita, Cohauila, intrappolò 65 lavoratori a 150 metri di profondità. Anche lì c’erano precarie condizioni di sicurezza e il governo bloccò gli scavi sostenendo che la galleria era satura di gas e quindi potenzialmente pericolosa per i soccorritori. Ha chiesto Raul Vera: "Se i corpi sono tutti raccolti nella stessa zona significa che i minatori erano vivi dopo l'esplosione e aspettavano di essere soccorsi". La resistenza dei trentatre può essere motivo per non farli diventare ora attori di un circo mediatico che ha bisogno di sempre nuove vittime, ma occasione per rivolgere attenzione alle condizioni di lavoro e per pensare che il nostro umano vivere insieme a questo ci chiama, a scoprirci solidali nel portare vita e fare sì che tutti possano avere la vita.
Alessandro Cortesi op