21-2-2010 - I Domenica di Quaresima - Anno C
Dt 26,4-10; Rom 10,8-13; Lc 4,1-13
Commenti alle letture
“Mio padre era un arameo errante; scese in Egitto… gli egiziani ci maltrattarono e ci imposero una dura schiavitù… Il Signore vide la nostra oppressione e ci fece uscire dall’Egitto… e ci diede questo paese, dove scorre latte e miele”
Deuteronomio è il libro delle parole (devarim) ed è libro della memoria: ricorda Israele'. La pagina che apre la Quaresima presenta un gesto che attua un ricordo ed una parola. Un gesto di offerta, gesto delicato e prezioso nel mondo agricolo: i primi frutti del raccolto, le primizie sono offerte. Il gesto è accompagnato dalla parola, non un discorso definitorio o una lezione ma un racconto: la narrazione di una storia che vede coinvolti il Dio d'Israele e la vicenda del popolo a cui Dio si è fatto vicino. La storia di un percorso di fede. Mentre sono presentate le offerte dei frutti della terra nel tempio è anche così proclamata una confessione di fede. Questa indica che i gesti che si stanno compiendo sono un ‘memoriale’. Da un lato c’è il pane: è un pane che sarà mangiato, ma prima deve essere ricordato e riconosciuto come ‘donato’; dall’altro c’è un racconto, all’interno di un rito, una liturgia con i toni del ringraziamento e del culto a Jahwè. Quel pane diviene memoria, segno che rinvia ad una storia di vicinanza e di liberazione in cui Dio si è manifestato con il volto di chi si prende cura, è vicino e appassionato. Il rito dell’offerta delle primizia è quindi segno del riconoscimento dell’alleanza e della vita di Israele in quanto segnata dalla presenza di Dio. Il racconto è anch’esso memoria, storia di un progetto di liberazione che attraverso il popolo d’Israele si allarga a comprendere ogni popolo, è una storia di alleanza. E' una tra le antiche professioni di fede di Israele, una specie di ‘credo’ che non si sviluppa come elenco di definizioni ed affermazioni su Dio, ma come narrazione.
Il Dio della Bibbia è un Dio che agisce, si fa vicino, ascolta il grido che sale dalla sofferenza di chi è oppresso, scende a liberare Israele schiavo in Egitto. E’ il Dio ‘totalmente altro’, lontano e diverso dall’uomo, non riducibile alle sue dimensioni e costruzioni - i suoi pensieri non sono i nostri pensieri -; eppure nello stesso tempo è il Dio vicino, compassionevole e che si prende cura dei più deboli e indifesi. E’ lui che ‘fece uscire dall’Egitto’ e donò la terra come segno del compimento della sua promessa. La fede nel Dio vicino e liberatore dovrebbe generare pensieri e progetti di vicinanza e di liberazione verso tutti coloro che soffrono per l’ingiustizia, per le vittime del potere e per i dimenticati. Quel grido che saliva dal popolo d’Israele nella schiavitù d’Egitto continua oggi nel grido di tanti oppressi.
La quaresima è tempo di riscoperta della fede in cui riporre al centro la scoperta del volto di Dio e del nostro rapporto con Lui, la nostra narrazione, da rileggere riscrivere e comunicare ad altri.
"Gesù, pieno di Spirito santo, si allontanò dal Giordano e fu condotto nel deserto dove, per quaranta giorni, fu tentato dal diavolo"
Luca presenta tre generi di tentazioni, o meglio di prove (peirasmos) a cui Gesù è sottoposto. Sono presentate come una sintesi che racchiude ogni genere di prova: nella sua vita pubblica Gesù infatti dovette far fronte a tentazioni umane quali le richieste presentate da Pietro (Mt 16,21-23), oppure da parte dei farisei che chiedevano un ‘segno’ evidente della sua potenza divina (Mc 8,11). Eb 4,15 dirà di lui: ‘messo alla prova in ogni cosa a nostra somiglianza’. Luca presenta Gesù spinto dallo Spirito nel deserto, nel luogo della solitudine dell’isolamento e dell’aridità, per quaranta giorni, tempo simbolico dell’uscita dall’Egitto e tempo della solitudine di Mosè quando ricevette parole dell’alleanza (Es 34,28). Le prove sono presentate in ordine crescente e in modo diverso rispetto alla pagina parallela di Matteo: la prova del tempio è posta alla fine. Tutto culmina sul pinnacolo del Tempio di Gerusalemme, al cuore quindi della città santa, che nel vangelo di Luca ha un’importanza tutta particolare perché a Gerusalemme è diretto l’intero cammino di Gesù, lì trovano il loro vertice l'esperienza della prova e quella dell’affidamento radicale di Gesù al Padre. Gesù affronta e vince la prova, ma la sua vittoria ha i caratteri di una scelta precisa su come vivere la sua missione. La prova del pane riguarda la vita. Gesù contesta un modo di vivere per cui l'esistenza sta tutta nelle proprie mani e nell’accumulo, offre una visione alternativa a chi pensa che la certezza della vita stia nel benessere e nelle cose, in uno sguardo egoistico sulla propria sicurezza (cfr. Lc 12,5): la vita si compie nel rapporto con Dio e nel servizio agli altri, non si esaurisce solamente nel benessere materiale e nell’adempimento dei bisogni. Lo stile di Gesù non è quindi secondo la linea dell’appagamento dei bisogni immediati e della ricerca di nutrimento come senso della vita al di fuori di Dio (cfr. Dt 8,3). La sua missione non è neppure assoggettamento all’idolatria del potere o agli imperi umani (Dt 6.10-15; Es 23,23-33): davanti a tutti i regni della terra Gesù rivendica l’unica autorità assoluta di Dio nei confronti di ogni potere. Ogni tipo di potere reca in sé una forza idolatria e chi lo esercita pensa di essere onnipotente. Gesù afferma la sua scelta di vivere nella condizione di chi non ha potere ma di chi serve. Anche le cose religiose possono divenire sviamento da un’autentica ricerca di Dio e Gesù cercherà di evitare di essere confuso con i taumaturghi e operatori di prodigi. La sua missione non sarà caratterizzata da miracoli e portenti per soddisfare il bisogno del sacro (Dt 6,16; cfr. Es 17,1-7), ma i gesti di bene e di guarigione che egli compie sono segni che il regno è arrivato. Le 'prove' sono presentate da Luca come annuncio e anticipo: la vera prova e la lotta decisiva sarà nel momento in cui Gesù dinanzi all’ostilità dei poteri religiosi e politici, di fronte alla possibilità della morte, sarà tentato di abbandonare: in quel momento Luca dice che indurì il suo volto dirigendosi verso Gerusalemme (Lc 9,51). La lotta decisiva e ultima contro le tentazioni è in stretto rapporto con il battesimo. Lì la voce del Padre aveva indicato in Gesù ‘il mio Figlio’. L’identità più profonda di Gesù si può cogliere nel rapporto unico con il Padre; ma questo rapporto non toglie la solidarietà all’uomo, piuttosto spinge Gesù a vivere fino in fondo il dramma umano della fatica e della prova, il senso della fragilità e della solitudine. Gesù non si sottrae alla prova ma vive nella sua stessa esperienza la prova fondamentale di mantenere fedeltà all’invio dello Spirito (Lc 4,14). Luca pone le tentazioni di Gesù dopo aver indicato la sua genealogia che lo unisce ad Adamo: in Gesù la storia dell’umanità, la storia anche della prova dell’uomo trova una risposta. Gesù la indica nell’affidamento a Dio, che ha il volto del Padre misericordioso che scende a liberare i suoi figli.
Uno spunto da
“Quando sono uscito di prigione, questa era la mia missione, liberare sia gli oppressi che l’oppressore. Qualcuno afferma che lo scopo è stato raggiunto. Ma io so che non è questo il caso. La verità è che noi non siamo ancora liberi; abbiamo soltanto conquistato la libertà di essere liberi, il diritto a non essere oppressi. Non abbiamo ancora compiuto l’ultimo passo del nostro viaggio, ma il primo di un lungo e anche più difficile cammino. Per essere liberi non basta rompere le catene, ma vivere in un modo che rispetti e accresca la libertà degli altri. Il vero test della nostar fedeltà alla libertà è solo all’inizio. ho percorso questo lungo cammino verso la libertà. Ho cercato di non vacillare; ho compiuto passi falsi. Ma ho scoperto il egreto che dopo aver scalato una collina, si capisce che ce ne sono ancora molte altre da scalare. Mi sono preso un momento di riposo, per dare un’occhiata alla vista che mi circonda, per guardare indietro alla strada che ho fatto. Mi posso riposare solo per un momento, perché con la libertà vengono anche le responsabilità, e mi preoccupo di non indugiare, perché il mio lungo cammino non è ancora finito” (N.Mandela, Lungo cammino verso la libertà. Autobiografia, ed. Feltrinelli 1997)
Il Sudafrica dal 1948 al 1994 ha vissuto la politica dell’Apartheid, che ha visto un completamento nel 1951 con la costituzione dei bantustan, territori de tti ufficialmente homelands (“patrie”), e destinati ai diversi gruppi bantu: in tal modo queste popolazioni venivano tenute separate dalla comunità bianca al potere, e venivano nel contempo impediti rapporti tra di loro.
Il termine apartheid nella lingua afrikaans significa "separazione" e sta ad indicare la rigida divisione razziale tra la minoranza bianca e la maggioranza non appartenente alla ‘razza’ bianca della popolazione. La politica di segregazione razziale, è stata in tutti quegli anni una politica promossa dallo Stato, sostenuta da leggi che hanno progressivamente strutturato i diversi ambiti della vita sociale al fine di mantenere e promuovere il predominio della minoranza bianca.
Nelson Mandela, giovane di colore, espulso dal college per aver promosso alcuni scioperi studenteschi diviene uno dei fondatori del ramo giovanile dell'African National Congress (ANC) - organizzazione politica non violenta nata nel contro le forme di apartheid e con l’intento di far crescere un democrazia multietnica - e nel 1948 ne diviene il presidente. Agli inizi del 1960 una serie di scoperi contro l’apartheid culminarono nel massacro di Sharpeville in cui 69 persone di colore furono uccise, e successivamente la reazione dura del governo mise al bando tutte le organizzazioni politiche nere compreso l’ANC.
In quegli anni, in un clima di scontri e di reazioni crescenti ai soprusi e all’intolleranza Mandela fu arrestato e condannato all’ergastolo. Solamente nel febbraio 1990, l’allora presidente Frederick De Klerk annuncia la liberazione di Mandela e nel 1993 viene redatto un accordo che pone fine all’apartheid con la possibilità di prime elezioni politiche a cui votano persone di ogni colore nel 1994. Nelson Mandela divenne così il primo presidente del Sudafrica che guidò alla redazione della nuova Costituzione nel 1996.
Mandela è convinto che la via della pace passa attraverso la non violenza, e attraverso strade di riconciliazione. Non riconciliazione come oblio e accettazione passiva delle ingiustizie e sorpusi subiti, ma riconciliazione come memoria, ricerca dolorosa della verità che apre alla richiesta di perdono ed al poter concedere perdono da parte di chi è stato offeso: "Sapevo che l'oppressore era schiavo quanto l'oppresso, perchè chi priva gli altri della libertà è prigioniero dell'odio, è chiuso dietro le sbarre del pregiudizio e della ristrettezza mentale. L'oppressore e l'oppresso sono entrambi derubati della loro umanità"
Appena uscito di prigione nel suo primo messaggio al paese Mandela parlò di riconciliazione e unità; non si trattava assolutamente di porre una pietra sul passato, ma di una via per superare la possibile spirare di violenza e di vendette che in Sudafrica avrebbe potuto prodursi. Mandela afferma la necessità di esaminare e di fare memoria di quanto era accaduto in particolare negli anni dal 1960 in poi, quando in seguito alle violente repressioni era iniziata la lotta armata dell’ANC. Questo orientamento portò alla costituzione dellla “Commissione per la verità e la riconciliazione”, insediata nel 1996 sotto la presidenza del vescovo anglicano Desmond Tutu, che ha raccolto decine di migliaia di testimonianze delle vittime e dei familiari, con l’obiettivo primario non tanto di determinare la colpevolezza ma di stabilire la verità e - in seguito al riconoscimento di colpa ed al ristabilimento della verità - concedere l’amnistia ai colpevoli autori di una confessione piena e dettagliata dei propri crimini, e quando la motivazione è stata di ordine politico. Più di ventimila le vittime o i familiari venuti ad esprimere la angoscia chiusa nel loro cuore e per anni ignorata, a cui è stata riconosciuta la dignità di esprimere nelle parole il proprio dolore e di chiedere verità. Numerosi gli autori dei crimini, bianchi e neri, che cercavano un luogo per riconoscere il loro errore e sfogare il loro senso di colpa, per ottenere amnistia e riconciliazione. “Al tribunale non si porta un coltello che taglia, ma un ago che cuce”, dice un proverbio africano. È ciò che la Commissione della verità e della riconciliazione ha fatto in Sudafrica.
Parlando dell’esperienza degli anni di prigionia di Mandela così ha scritto Desmond Tutu: “Penso che quei ventisette anni permeati dalla sofferenza siano stati la fiamma che ha temprato il suo acciaio purificandolo dalle scorie. Forse non sarebbe stato capace di tanta generosità e compassione se non avesse attraversato quell'esperienza". E così riferendosi alla scelta di percorsi di riconciliazione in alternativa alla scelta di una giustizia punitiva dice "noi sosteniamo che esiste un altro tipo di giustizia, la giustizia restitutiva, a cui era improntata la giurisprudenza africana tradizionale. Il nucleo di quella concezione non è la giustizia o il castigo. Nello spirito dell'ubuntu, fare giustizia significa innanzitutto risanare le ferite, correggere gli squilibri, ricucire le fratture dei rapporti, cercare di riabilitare le vittime quanto i criminali, ai quali va data la possibilità di reintegrarsi nella comunità che il loro crimine ha offeso." (Desmond Tutu, Non c’è futuro senza perdono, ed.Feltrinelli 2001). Nelson Mandela, premio Nobel per la pace con De Klerk nel 1993, oggi a 92 anni ritirato dall’attività pubblica, è stato uomo di speranza perché capace di uno sgaurdo capace di guardare oltre, verso una liberazione da raggiungere e ricercare sempre, e di tracciare cammini di libertà.
Dalla Parola alla vita
“Il deserto mi riconduce alla mia piccolezza e a quel tesoro che porto in me. È lì che risuona la parola interiore. La preghiera più bella è quella che si riceve così, muti e silenziosi, completamente al di dentro di sé … Il deserto è anche un invito a contemplare la profondità di coloro che gli danno un'anima. Attraversarlo, significa essere accolti. L'ospitalità vi è sacra. L'ospite è l'inviato di Dio e trattato come tale. Tayeb, un padre di famiglia numerosa, aveva incontrato in una notte fredda e piovosa un uomo senza domicilio. Lo ha accolto per undici anni! E inoltre c'è la pazienza, elevata alla dimensione di virtù religiosa.”
Il deserto in questo è stato e continua ad essere per lui autentica scuola di spiritualità. Lo ricorda in riferimento all'insegnamento di Charles de Foucauld: “In Algeria, non ci è dato di rivelare Cristo attraverso una parola pubblica. È un limite importante, ma forse anche una provocazione felice. Il nostro mondo soffre di una tale inflazione di parole! Gridare il Vangelo con tutta la nostra vita, per riprendere un'espressione cara a Charles de Foucauld, quella è la nostra vocazione per oggi in Algeria. Essere presenti con le nostre mani nude. Vivere con tutti in nome della gratuità dell'Amore di Gesù. Il domani non ci appartiene.”
Alessandro Cortesi op