XXIV Domenica del tempo ordinario - Anno C - 2010
Es 32,7-11.13-14; 1Tim 1,12-17; Lc 15,1-32
Omelia
“Mosè allora supplicò il Signore, suo Dio, e disse: ‘Perché, Signore, si accenderà la tua ira contro il tuo popolo, che hai fatto uscire dalla terra d’Egitto con grande forza e mano potente? Ricordati di Abramo, di Isacco, di Israele, tuoi servi ai quali hai giurato per te stesso e hai detto: ‘renderò la vostra posterità numerosa come le stelle del cielo’(…) Il Signore si pentì del male che aveva minacciato di fare al suo popolo”
Il popolo d’Israele è nel deserto,ha vissuto l’uscita dall’Egitto ma nel deserto rapidamente dimentica la via di liberazione che sta percorrendo: ‘si sono fatti un vitello di metallo fuso’. La scelta di un dio potente, il ‘dio toro’ da adorare, da poter guardare come proiezione dei propri desideri di potenza, è sempre alle porte. A lui offrono sacrifici, a lui dicono ‘Ecco il tuo dio, colui che ti ha fatto uscire dalla terra d’Egitto’. Sta qui la grande idolatria: dimenticare il Dio che ascolta e scende, che guida come nube e come fuoco, inafferrabile, non racchiudibile e non manipolabile e pur sempre il Dio vicinissimo e premuroso. Il vitello d'oro è anche simbolo evocativo di ogni esperienza che rassicura le attese di poter essere padroni della propria vita, è l’idolo a cui ci si piega per fuggire alla sfida di intendere la propria vita come relazione. E’ la scorciatoia per evitare la fatica di stare davanti a Dio e agli altri nella ricerca di scegliere e di rispondere; è anche la comprensione della religione come meccanismo sacrale in cui si diviene ingranaggi di un destino che esime dalla responsabilità di fronte all’Altro e dal farsi carico degli altri.
Qui si manifesta il popolo di dura cervice, incapace di aprirsi ad un volto di Dio liberatore, che chiama ad un faticoso cammino di libertà. E contro questa idolatria sgorga l’ira di Dio: “Ora lascia che la mia ira si accenda contro di loro”. Nella forza evocativa di questo dialogo tra Dio stesso e Mosè si offre uno squarcio sul sentimento di Dio, ma anche sul suo vero volto che è quello di un Dio che si pente, che cambia: “Il Signore si pentì del male che aveva minacciato di fare al suo popolo”. L’onnipotenza di Dio trova qui una critica radicale: va compresa non secondo le logiche della violenza e del potere propri di tanti percorsi umani, è invece una onnipotenza debole, è il lasciarsi cambiare dall’amore, è la forza della fedeltà, si esprime nel ricordo di un rapporto che lega ai volti, alle storie umane ed alla sua promessa. Mosè esprime così la voce che ci aiuta ad entrare nel cuore di Dio: gli ricorda ‘tu hai fatto uscire dalla terra d’Egitto’. A Dio sta a cuore la liberazione, e il suo manifestarsi al popolo d’Israele è finalizzato a questo cammino, a questa apertura della vita. Non solo: Mosè chiede a Dio di ricordare: ‘Ricordati di Abramo, di Isacco, di Israele…’ E’ un ricordo che rinvia ad un legame, all’alleanza fatta di volti, di coinvolgimento nella storia di un popolo, ad una promessa fatta e che non potrà venir meno. Il volto di Dio appare così come un volto inedito e nuovo: un Dio preoccupato dell’umano, un Dio da incontrare in una storia di liberazione, un Dio che non viene meno alla sua promessa e all’alleanza, un Dio dei volti per cui ognuno è prezioso e non deve essere perduto. Per questo ‘Dio si pentì’: di fronte a tante elucubrazioni sull’immutabilità di Dio questo dialogo di Mosè che parla con Dio faccia a faccia ci riporta alla forza della Parola in cui traspare un Dio che non può essere racchiuso (o strumentalizzato) nelle nostre mani, è tutt’altro rispetto al vitello d’oro da adorare, non segue i nostri pensieri. E nello stesso tempo è il Dio che si è legato a questa umanità, che vive con passione e premura, anche con ira pronta a spegnersi di fronte al ricordo della sua promessa, cammino faticoso ed esigente di un passaggio che conduce a scoprire il suo volto.
Proprio questo rapporto esige che il popolo mantenga un cuore di deserto, come chi sa di essere debole e povero, di aver bisogno. E’ questo il cuore di chi si affida e reca in sé la memoria del passaggio della liberazione in cui si sono cantate le meraviglie di Dio in contrapposizione alla potenza dei carri e cavalieri, ultrmo ritrovato della tecnica bellica dell'impero egiziano.
La possibilità di vita per un popolo credente sta tutta qui, nel saper riconoscere la radicale dipendenza e nello scegliere le proprie vie in coerenza con questo stile incredibile e paradossale di Jahwè che sceglie il povero e lo libera per farne un figlio, da accogliere nella gioia della festa
Un’ultima osservazione: il profeta, Mosè, è presentato come colui che nel tempo dell'idolatria, non fugge, non si ritaglia un percorso solitario e privilegiato, ma si fa solidale e intercede per gli altri. E’ questa l'attitudine del profeta: ricordare davanti a Dio le sue promesse, intercedere, richiamare al cuore di deserto, vivere fino in fondo la solidarietà che Dio gli ha chiesto.
“Si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano: ‘Costui accoglie i peccatori e mangia con loro’. Ed egli disse loro questa parabola…”
L’inizio del capitolo 15 di Luca presenta tre parabole che compongono di fatto una sola e unica parabola annunciata: colui che va in cerca della pecora perduta, la donna che cerca la moneta perduta e il padre che attende e va incontro ai figli perduti. In tutte c’è una perdita, una ricerca, infine un ritrovamento come accoglienza che rinvia a quanto Gesù esprime con il suo comportamento: ’accoglie i peccatori e mangia con loro’. E’ questo che suscita la reazione di scribi e farisei
Tutto si svolge infatti nel contesto della mormorazione: i farisei e gli scribi ‘mormoravano’: è il medesimo atteggiamento del popolo d’Israele nel deserto (Es 16,2-3.7.12; Num 16,11), è il lamento disincantato e scettico di chi non vede l’esito atteso di una liberazione pensata in modo diverso, e giunge ad avere nostalgia della schiavitù d’Egitto. Il mormorare è espressione di un cuore sospettoso e indisponibile che pretende un Dio a misura dei propri progetti, e non è disposto a lasciarsi cambiare.
In contrasto vi sono altri che vengono a Gesù e ‘si avvicinavano per ascoltarlo’. L’ascolto è la caratteristica del discepolo e Gesù accetta la vicinanza di questi: sono i pubblicani e i peccatori, gli irregolari dal punto di vista religioso. In tale contesto le parabole acquistano un significato particolare. Parlano della ricerca di qualcosa che è stato perduto, la pecora, oppure la piccola moneta da parte della donna. Per chi si pone alla ricerca quella pecora o quella moneta, l’unica piccola cosa perduta vale più di tutto il resto. E’ un modo per parlare di Dio: un padre dal volto materno, un Dio umanissimo che si spende alla ricerca dell’uomo, che si china e insegue chi è perduto per fargli vivere una vita buona.
“Si perde la pecora, si perde la dramma, si perde il figlio minore. Ma anche Dio è uno che si perde: si perde dietro anche uno solo! E questo è stupefacente lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di una. E' un Dio che perde la testa per uno solo” (don Angelo Casati)
La parabola più lunga è costituita di tre grandi atti: nella prima scena la richiesta del figlio minore di essere autonomo e di andarsene dalla casa del padre. C’è il desiderio di autonomia e di indipendenza, ma questo allontanarsi sfocia in un fallimento fino alla decisione di ‘ritornare’: le ragioni di questo ritorno sono tuttavia ancora la ricerca di sicurezze e di garanzie, il poter trovare da mangiare almeno come i salariati nella casa del padre. Il giovane si attende ancora quella che può esser definita la soluzione del buon senso: ‘trattami d’ora in poi come uno dei tuoi garzoni’.
La seconda scena vede al centro la figura del padre: il figlio che torna è atteso e viene anticipato nel suo desiderio di presentarsi a lui chiedendo di poter ritornare. Lo sguardo del Padre mira all’orizzonte, attende da lontano. Non lascia spazio alle parole ma le supera con un abbraccio che apre a sperimentare il rapporto con lui come una storia di gioia e di incontro. Per primo, mosso nel profondo da quell’affetto viscerale senza calcoli né condizioni “gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò”. I segni dell’incontro sono quelli delle nozze, l’abito più bello, l’anello al dito, i calzari ai piedi, la festa.
Il suo amore trasforma una storia di morte - la morte di un rapporto, la morte del cuore del figlio che si attendeva un futuro da servo - in una storia di vita: ‘mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato’. Il padre buono è il padre che pone la fretta nel lasciare alle spalle la situazione passata per lasciare spazio solo alla gioia, al perdono, al senso di ritrovarsi.
La terza scena è ancora occupata da un movimento del padre, dal suo uscire per andare incontro, verso il figlio maggiore. E’ ancora lui che per primo esce a pregarlo: “suo padre allora uscì a supplicarlo”. Anche quel figlio viveva nella casa del padre, ma viveva da estraneo, da dipendente, da schiavo. Il suo modo di stare lì per tanti anni non aveva ancora compreso la cosa più importante, la gioia del rapporto, il poter stare insieme, la festa dell’incontro, una relazione come vita che vince la morte. Ma anche verso di lui, pur in modo diverso, il padre ha parole di misericordia, di invito. Gli suggerisce - con la passione di chi propone e apre strade di libertà - un percorso non solo per vivere un modo nuovo di stare in quella casa ma anche per scoprire cosa significhi essere fratelli: ‘figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato’.
Al cuore delle parabole sta una parola sul volto di Dio. Un Dio che va alla ricerca, un Dio che offre una via di incontro e libertà per chi è disorientato e perduto, un Dio preoccupato solamente della gioia dell’incontro e della scoperta di rapporti nuovi, della fraternità possibile. Un Dio attento alle piccole cose e ad ogni persona, che non pensa alle folle indistinte ma guarda i volti, che a ciascuno va incontro, e a ciascuno offre parole uniche e gesti diversi, che è coinvolto, attende e ha a cuore il cammino dei suoi figli aprendo a relazioni nuove là dove solo è possibile fare esperienza di Lui.
Dalla parola alla preghiera
Aiutaci Signore a smascherare gli idoli presenti nella nostra vita personale e negli ambienti sociali…
Aiutaci a pregare ricordando la storia di alleanza e di fedeltà del Tuo amore…
Manda il tuo Spirito perché ci apriamo a cambiare le nostre immagini di Dio ascoltando la parola e la testimonianza di Gesù…
Donaci di essere chiesa che sta vicina ai piccoli, agli oppressi, agli esclusi, agli emarginati. Rendici lontani dallo sguardo sospettoso e dalla mormorazione di chi ha il cuore indurito…
Uno spunto da…
A tutte le tessitrici del mondo (M. Riensiru)
Dio è seduta e piange.
la meravigliosa tappezzeria della creazione
che aveva tessuto con tanta gioia è mutilata,
è strappata a brandelli, ridotta in cenci:
la sua bellezza è saccheggiata dalla violenza.
Dio è seduta e piange.
Ma, guardate, raccoglie i brandelli,
per ricominciare a tessere.
Raccoglie i brandelli delle nostre tristezze,
le pene, le lacrime, le frustrazioni
causate dalla crudeltà, dalla violenza,
dall'ignoranza, dagli stupri, dagli assassinii.
Raccoglie i brandelli di un duro lavoro,
degli sforzi coraggiosi, delle iniziative di pace,
delle proteste contro l'ingiustizia.
Tutte queste realtà che sembrano piccole e deboli,
le parole, le azioni offerte in sacrifìcio,
nella speranza, la fede, l'amore.
Guardate!
Tutto ritesse con il filo d'oro della gioia.
Dà vita ad un nuovo arazzo,
una creazione ancora più ricca, ancora più bella
di quanto fosse l'antica!
Dio è seduta, tesse con pazienza, con perseveranza
e con il sorriso che sprigiona come un arcobaleno
sul volto bagnato dalle lacrime.
E ci invita a non offrirle soltanto i cenci
ed i brandelli delle nostre sofferenze
e del nostro lavoro.
Ci domanda molto di più;
di restarle accanto davanti al telaio della gioia,
ed a tessere con lei l'arazzo della nuova creazione.
(tratto da Spalanca la finestra. Testi di fede della Chiesa Universale, a cura di Comunità evangelica di azione apostolica, CEVAA, Trieste 2000, p. 116)
Il Dio che si perde alla ricerca di chi è perduto è il Dio dal volto materno che sa tessere storie sempre nuove, rapporti nuovi e non si stanca in quest’opera paziente, come ci ricorda il salmo 139: “Sei tu che hai formato le mie viscere, che mi hai intessuto nel seno di mia madre”.
Questo volto di Dio sconcertante apre alla considerazione sottolineata dalla riflessione delle donne sulla Bibbia che hanno aiutato scorgere il volto femminile di Dio.
In questo percorso si è guidati a comprendere come a fronte di una impostazione di separazione e di divisione che sta alla radice di un approccio violento e conflittuale alla realtà, l’agire di Dio si pone nella linea del tenere insieme, dell’azione sim-bolica e dell’ispirare comunicazione, così come la tessitura lega e unisce. “Bisogna tessere, disfare, scoprire le fila nascoste della connessione” (Mary Daly, Gyn/Ecology, Boston 1978, 400). Così come Penelope che nella sua azione di tessere continua a ricucire insieme e tenta di rimettere insieme quello che è il frutto di una lacerazione e di una disgregazione operata da altri.
Separare l’attenzione all’umanità da un lato e a Dio dall’altro, opporre adorazione di Dio e sguardo sul creato e liberazione umana è nella linea della lacerazione. Tessere è tenere insieme e scoprire come ogni attitudine, attenzione alla presenza di Dio e cura per l’umano, non cresce senza l’altra, anzi vi è una reciprocità ed una interrelazione.
Tessere è operazione dell’incontro, è anche agire nutrito di attesa e di lento pazientare, ha qualcosa a che fare con la gestazione, esperienza propriamente femminile in cui un corpo lentamente cresce e si costituisce in una sorta di tessitura progressiva. Proprio tale esperienza umana di attesa costituisce una profonda lezione di vita che apre a scoprire la custodia di un esistere che coinvolge ma non sta sotto il proprio controllo, non dipende da noi.
Elizabeth Green, nel suo testo Il Dio sconfinato. Una teologia per donne e uomini (ed. Claudiana 2007), pone radicalmente in discussione le norme e i criteri che hanno per secoli determinato l’uomo, nel senso di un appiattimento sulla sensibilità maschile, in cui l’ideale è la ‘civiltà del pieno’, la civiltà del fare, dell’efficienza, della pianificazione, del controllo. Sostiene invece essenziale oggi scoprire la dimensione dell’abitare il vuoto, propria dell’esperienza della gestazione, in cui assumono valore e consistenza tanti percorsi che vanno nella direzione opposta come il non avere, il non fare, il non dire, dove al centro sta la ricezione, l’accoglienza: in tale orizzonte si può situare il luogo della fede, come accoglienza di una promessa che rinvia ad un futuro, ad una lunga gestazione.
“…l’intessere del Creatore si incontra con l’intessere che ha luogo nella vita di ciascuno e ciascuna di noi, con quel processo di crescita, di rinnovamento, di trasformazione che accade veramente in segreto, nelle parti più profonde del nostro essere senza che noi sappiamo come. Noi non siamo solo il luogo in cui quell’intessere accade, diventiamo quell’intessere stesso. L’arazzo che Dio sta tessendo siamo noi! Siamo colei che lavorando ai ferri crea il corredo per la creatura, ma siamo anche la creatura che viene intessuta, ricamata” (Elizabeth Green).
Dalla Parola alla vita
In questi giorni è stato eletto il nuovo maestro generale dell’Ordine dei predicatori (domenicani). Alcune notizie sulla sua vita sono presentate nel sito del convento. Di lui vorrei citare una riflessione recente (Entre compassion et miséricorde, témoins de la Parole, “Cahiers saint-Dominique” 288,2007,23-33).
In questo articolo Cadoré pone una riflessione sui due termini compassione e misericordia, due parole che si richiamano reciprocamente e stanno al cuore dell’agire del sentire di san Domenico e l’hanno condotto a porre atti decisivi per il profilo dell’Ordine che da lui prenderà il nome: la scelta della mendicità, la cura per lo studio della verità, la preghiera di intercessione, la volontà di portare la buona notizia oltre le frontiere stabilite della chiesa.
In particolare si sofferma sull’aspetto che la compassione rende prossimi, come mostra la parabola del samaritano.
Testimoniare la Parola come compassione e misericordia apre tre strade:
1. la sfida delle dignità, oltre il giudizio ridare la parola;
2. l’audacia della verità: aprire la storia.
3. la speranza solidale: rompere la solitudine del fallimento per vivere.
Riporto alcuni brani in una mia traduzione:
“Spesso la sfida più essenziale del dialogo è quella di dare parola a colei o a colui che non la prendeva – perché gli è stata confiscata o perché ha l’illusione che sia impossibile prenderla -. Molti fallimenti umani sono il frutto di tali confische o autocensure della parola. Tacendo della sua storia la persona finisce con il desertificarsi. E le strategie che conducono a tali isolamenti sono purtroppo molteplici.
Ecco, per esempio, quella donna adultera posta in nome della legge al centro di accuse e commenti da parte di coloro che si preparano a darle la morte come punizione. Il contrasto è coinvolgente: tra il silenzio di questa donna, silenzio della paura e della vergogna insieme, e le accuse di coloro che con forza richiedono a Gesù una risposta.
Contrasto anche tra Gesù che, un istante prima insegnava alla folla e ora si tiene silenzioso, meditando e scrivendo sulla sabbia come la fragilità delle leggi supposte come divine quando sono applicate all’umanità. In modo sorprendente questi contrasti, questo dialogo venuto meno, hanno come esito l’abbandono, a loro volta degli accusatori e aprono, allora, di nuovo, la possibilità del dialogo: dove sono? nessuno ti ha condannata? nemmeno io ti condanno… La risposta: ‘nessuno, Signore’ è così la prima parola della donna che esce dal suo spaesamento ritornando dai confini della morte. E, da colui che le rivolge la parola, che le dona di nuovo la grazia di parlare di nuovo, può allora ascoltare e ricevere veramente la doppia parola che da un lato non è di condanna e dall’altro è di ripresa della strada dell’esistenza fuori dai solchi del suo peccato.
Ci vuole audacia per affermare la non condanna senza condizione, prima di invitare poi alla vita e chiamare alla libertà del soggetto chiamato. Ci vuole, in fondo l’audacia della verità. (…)
Nel dialogo, nel contesto del vangelo, c’è sempre una gestazione. Lo testimonia l’incontro, in segreto, di Nicodemo con Gesù. Nicodemo cerca la verità, e in un certo modo cerca come sarebbe possibile iscrivere la rivelazione manifestata da Gesù nella tradizione del nome del Dio Creatore. Attraverso la risposta portata da Gesù siamo richiamati al fatto che la sfida principale del dialogo di umanità è portare testimonianza che nello scambio tra le persone umane si attua una generazione di ciascuno alla verità. Si tratta della generazione non solo alla propria parola autentica, ma, attraverso di essa, al proprio destino di figlie e figli a propria volta chiamati dal Padre e promessi alla grazia di una nuova nascita. (…)
La compassione richiama ad incontrare l’altro al cuore della propria storia, in modo tale che egli possa dire ciò che vi percepisce di coerenza o di disordine. Il tempo che segue deve guardarsi da uno scoglio: quello di offrire immediatamente una risposta che avrebbe la pretesa di tappare la breccia della sofferenza, manifestando in modo esplicito che non si è mai chiusi in una sola interpretazione della propria storia. E il compagno inatteso invita i due uomini rattristati ad ascoltare una storia più grande della loro, più antica e profonda, nondimeno anch’essa attraversata dalla difficoltà, dal dubbio, dall’incomprensione. Uno dei tratti del dolore dell’umanità è di far credere a chi soffre che la sua storia è chiusa su se stessa e che chi soffre è solo ad affrontarla, in una condizione senza vie d’uscita. Raccontare la Bibbia, ‘parlare Dio’ in qualche modo, per dare all’esistenza del singolo la profondità della solidarietà con la storia di tutti, e al cuore di quest’ultima raccontare la solidarietà di Dio con la storia degli uomini. E dialogare con pazienza. avanzare, spesso a piccoli passi. Fino al momento in cui, come avvenne un giorno ad una tavola di una locanda a Emmaus, un gesto è possibile quale manifestazione che al cuore stesso di questa storia una Presenza dà segno, fa luce. Notiamo bene che questo dialogo che risolleva è ben diverso dal solo scambio verbale di domande e risposte. La sua forza, la sua sensatezza si coglie dal fatto che i nostri due compagni possono riprendere la parola, possono riprendere il cammino e leggere in modo nuovo la storia che li abbatteva. Coniugare la storia santa con la storia singolare, dove quest’ultima trova allora al cuore di se medesima la forza di inventarsi nuovamente attingendo alla vita. Dal sentimento di compassione, divenire testimoni della misericordia di Dio, che fa rivivere… “
Alessandro Cortesi op