Nel momento in cui, al di là delle necessarie verifiche degli investigatori, paiono aumentare i rischi per la vita del giornalista Roberto Saviano, è doveroso prendere posizione.
Abbiamo letto, con interesse e infinita tristezza, la Lettera a Gomorra, pubblicata lo scorso 22 Settembre, proprio nei giorni in cui lo scrittore faceva, in totale solitudine, il compleanno.
Ci ha colpiti il suo bisogno spontaneo e dolente - certamente non frutto né di manie di protagonismo né di semplice autocommiserazione - di condividere con qualcuno una ricorrenza ormai svuotata di senso da quando vive sotto scorta e in clandestinità.
Ora, mentre scriviamo queste righe, un nuovo articolo-denuncia dello scrittore, Io, prigioniero di Gomorra lascio l’Italia per riavere una vita (del 15 Ottobre), diventa il grido di un ventottenne che “rivuole indietro la sua vita rubata”. Saviano continua a segnalare con crescente amarezza il suo isolamento, conseguenza delle minacce di morte dei camorristi casalesi - da lui smascherati nel suo celebre libro e con altri interventi -, ma soprattutto effetto dell’inerzia, quando non dell’invidia che si tramuta in odio, di tantissimi concittadini cosiddetti perbene.
Qualcuno ha giustamente osservato che non si deve temere tanto il rumore dei criminali, quanto il silenzio degli onesti. Orbene noi questo silenzio, ancora troppo diffuso nel Paese, vorremmo romperlo con un atto pubblico che confidiamo possa avere il consenso di tantissime altre persone, facendo così da contraltare all’indegna scritta apparsa sui muri di Casal di Principe (“Saviano è un uomo di merda”).
Il nostro vuole essere un atto pubblico che non solo faccia sentire Saviano meno solo, ma che soprattutto sia un appello all’impegno per un’azione concreta e radicale nel quotidiano delle nostre esistenze.
Un atto pubblico che sia un grido, a testa alta, di libertà, verità e giustizia.
Un atto pubblico che noi facciamo nella linea di una lunga tradizione di Domenicani, religiosi e laici, spesisi - fattivamente e pagando pure di persona - per un mondo migliore: da Montesinos, Las Casas e De Vitoria, difensori degli indios nel XVI secolo, ai più recenti Sturzo, La Pira e Moro.
Conosciamo terre - quelle del Meridione di Saviano - bellissime, ma disgraziate, per dirla con le eloquenti parole di Paolo Borsellino.
Terre meravigliose - per arte, storia, cultura, ambiente -, ma attanagliate dalla morsa della criminalità organizzata: che si chiami Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, Camorra o Sacra Corona Unita.
Terre che sono la drammatica scena della morte violenta e profetica di sacerdoti come padre Pino Puglisi (similmente a don Peppino Diana, a Casal di Principe -CE-), di giornalisti come Mario Francese (similmente a Giancarlo Siani, a Napoli), di magistrati come Giovanni Falcone (similmente ad Antonino Scopelliti, a Piale -RC-) e di innumerevoli altri: medici, imprenditori, uomini delle forze dell’ordine e semplici cittadini. Tutti uccisi per aver professato e praticato idee luminose, troppo scomode per le ombre del male.
Conosciamo terre - dello stesso Meridione di Saviano - in cui tuttavia seguitano a lottare, ancora oggi, molte persone di buona volontà, credenti e non credenti, in mezzo a note difficoltà, quali l’abbandono degli stessi amici, le carenze dello Stato-apparato, le incoerenze di certa Chiesa non sempre all’altezza del Vangelo di Cristo.
C’è inoltre un blocco culturale, difficilissimo da rompere perchè atavico, che richiede un’azione lenta, ma inesauribile, quale goccia che nei decenni futuri - ne siamo convinti - corroderà la roccia della complicità, della contiguità, della paura e dell’indifferenza.
Ma è soprattutto contro quest’ultima che oggi leviamo la nostra voce, raccogliendo il doloroso invito di Saviano e affermando in modo inequivoco che assistere al male e non fare nulla è, anch’esso, fare il male. Che vedere e tacere è, anch’esso, fare il male. Che ritenere che le mafie non siano questione propria è, anch’esso, fare il male.
Ecco perchè questo atto pubblico, ecco perchè questo grido di allerta, in un periodo storico cruciale, in cui peraltro si intravedono i segni di una possibile svolta: basti pensare alle varie associazioni antiracket che dappertutto sorgono vieppiù rapidamente e massicciamente.
Pertanto chiediamo al Meridione e all’Italia tutta una mobilitazione generale e pervasiva delle coscienze, per una cultura positiva e contro una subcultura dell’indifferenza, che sovente si traduce in scavalco, raccomandazione, privilegio, illegalità varia. In altri termini in una mentalità mafiosa, essenziale brodo di coltura che consente successivamente alla mafia - intesa come crimine organizzato - di allignare sostanzialmente indisturbata.
Sappiamo, in base alle indagini giudiziarie e alle analisi specialistiche, che pochi sono i mafiosi secondo il Codice penale, mentre noi siamo tanti. Insieme dunque ce la possiamo fare !
Continuiamo quindi ad operare con energia ad ogni livello: nelle famiglie, nella Chiesa, nel lavoro, nello sport, nei diversi ambiti associativi, per una cultura pratica - e non solo teorica - che ridia centralità alla persona umana, con la sua dignità e la sua necessaria libertà, di cui parla la Costituzione della Repubblica fin dalle sue primissime disposizioni. Da credenti diciamo, per di più, che “Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi”: stiamo “dunque saldi e non” lasciamoci “imporre di nuovo il giogo della schiavitù” (San Paolo ai Galati 5, 1).
Ricordiamolo, costantemente, perchè noi siamo tanti e loro pochi.
Non permettiamo che i riflettori accesi da Roberto Saviano siano rispenti e che l’onda emotiva suscitata dal suo libro sia meramente retorica e svanisca senza produrre effetti duraturi !
Sì, « se perde Saviano, perderemo irrimediabilmente tutti ».
Evitarlo dipende da noi !
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- Centro Espaces “Giorgio La Pira” - Pistoia, associazione promossa dall’Ordine Domenicano
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- con l’adesione di altri Domenicani italiani, operanti nel Paese o all’estero